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Dina Dore, 37 anni, mamma. Il marito assolda due killer per farla fuori. Tramortita e soffocata con lo scotch, viene chiusa nel bagagliaio dell’auto in garage, mentre la bambina di 8 mesi piangeva nel seggiolino.

Gavoi (Nuoro), 26 Marzo 2008


Titoli & Articoli

Il giallo di Dina Dore, la donna chiusa nel bagagliaio a Gavoi (GQ Italia – 18 settembre 2014)
Sembrava un sequestro finito male a Gavoi, ma una traccia di Dna sullo scotch con cui Dina Dore era stata avvolta e chiusa nel baule della sua auto ha clamorosamente riaperto il caso
A Gavoi, considerata l’isola felice del Nuorese, nel cuore della Barbagia, la mattina del 27 marzo 2008 il risveglio e da choc: una donna di 37 anni è stata aggredita in garage la sera prima mentre tornava a casa con Elisabetta, la sua bimba di appena otto mesi. Qualcuno l’ha tramortita con un corpo contundente per poi avvolgerla con nastro per imballaggi. E l’ha chiusa nel bagagliaio della sua Punto rossa. È morta lì dentro, Dina Dore, per la botta troppo forte ricevuta sulla fronte o forse – si accerterà in seguito – soffocata dallo scotch. Mentre Elisabetta, testimone silenziosa, posata su un seggiolino adagiato sul pavimento, continuava a piangere.
La polizia trova la donna morta dopo aver effettuato i rilievi esterni della vettura, una volta ricevuto l’allarme per un presunto sequestro. In effetti la scena che si presenta agli investigatori è quella di un tentativo di sequestro finito male. Il marito, 40 anni, è un noto dentista locale ed esponente di Alleanza Nazionale. Si chiama Francesco Rocca e in famiglia è stato sfiorato già altre volte da tragedie simili: suo padre Tonino – a lungo primo cittadino di Gavoi – negli Anni 70 era sfuggito a due tentativi di rapimento.
Il sindaco manifesta immediatamente la solidarietà del paese, sgomento poiché nemmeno negli anni più bui della criminalità sarda una donna era stata rapita e uccisa in quel modo. Forse la violenza si è scatenata per il tentativo di Dina di resistere? Forse.
Le indagini valutano molte piste, tutte nella stessa direzione: sequestro finito male. Anche perché, se non è più operativa l’Anonima, sul territorio si muovono da tempo alcuni banditi poco organizzati: il 19 settembre del 2006 hanno rapito l’allevatore Titti Pinna, liberatosi nel maggio dell’anno successivo. Sui giornali l’ipotesi prende piede: che si tratti di un’operazione del genere, terminata nel peggiore dei modi? Sul piatto della bilancia c’è anche da mettere la circostanza che l’ultima donna sequestrata sull’isola è stata Silvia Melis. Un fatto, però, maledettamente lontano nel tempo: 1997.
Il Dna sullo scotch. Il suocero di Dina è convinto: «La scena era quella di un sequestro, per terra ci sono gli occhiali e la borsetta assieme a macchie di sangue. Lei forse ha riconosciuto qualcuno e i suoi aggressori hanno perso la testa». Francesco Rocca immagina un’azione da sbandati:  «Anch’io mercoledì notte, quando sono entrato nel garage non ho pensato a guardare nel bagagliaio – dice –. Chi poteva pensare che Dina fosse lì? La polizia ha fatto quello che si fa sempre in questi casi. Ma è stata opera di due balordi che cercavano i soldi. Magari li avessero presi, ora Dina sarebbe qui».
Salta fuori anche un testimone: un bimbo che avrebbe visto allontanarsi dal luogo un uomo col volto coperto. Il caso, con poco o nulla in mano, si arena presto. Resta un minuscolo dettaglio: sullo scotch è rimasto del Dna. Un pelo o un capello di chi, evidentemente, ha usato il nastro per avvolgere la mano sinistra di Dina.
La svolta. Passano due anni e si parla di un possibile movente, suggerito da una fonte anonima: un terreno conteso da Rocca, che avrebbe scatenato una vendetta. Ma l’ipotesi non regge.
Nel 2012, una nuova pista: delitto su commissione: ma chi poteva volere la morte della neomamma? Siamo a ottobre e devono passare quattro mesi perché si giunga alla più clamorosa delle svolte: Francesco Rocca viene arrestato dalla Dda di Cagliari. Secondo le accuse, il marito avrebbe assoldato due killer per ucciderla e rifarsi una vita. In cambio, ai sicari sarebbe andata una casa o 250mila euro in contanti.
L’amico. Almeno così avrebbe detto all’amico Stefano Lai uno dei presunti assassini, Pier Paolo Contu, minorenne all’epoca dei fatti e fermato come autore materiale del delitto. Aggiungendo di aver scelto il denaro al posto dell’abitazione. Quando lo arrestano in un bar del paese e gli fanno domande sulla sua amicizia col dentista, Contu pare però spaesato. E telefona, appena può, alla mamma: «Mi stanno interrogando su delle pazzie».
Una lettera anonima, trovata dalla sorella della vittima sul parabrezza dell’auto, accusa proprio Rocca e Contu e sostiene che  “molte persone sono a conoscenza dei fatti”. La lettera finisce agli atti. Contu chiede il rito abbreviato e dice di avere un alibi: «Quando è stata uccisa Dina Dore mi trovavo in un bar di Gavoi insieme al fratello e al cognato della vittima». Ma i due non confermano.
Quando lo condannano in primo grado a sedici anni, la madre, Giovanna Cualbu, rilascia un’intervista a “La Nuova Sardegna”. Per lei, il figlio è stato incastrato: «Il Dna trovato nel garage non è di mio figlio, che se l’era fatto prelevare spontaneamente qualche mese prima ed è risultato non compatibile. E nessuno si preoccupa più di sapere di chi è». Già. Di chi è il Dna sullo scotch? Gli inquirenti faranno invano oltre 800 test. Di chi sia, ancora non si sa. Di certo la supertestimonianza di Stefano Lai regge anche in appello: ad agosto 2014, Contu si vede confermata la pena in un clima incandescente: un mese prima, al padre di Stefano, Antonio Lai, qualcuno ha ammazzato il cane.
L’amante. Anche Rocca si proclama innocente. E dice semplicemente che il suo rapporto di coppia non funzionava più. Finisce davanti alla Corte d’Assise di Nuoro. In presenza di un complicato caso indiziario, ogni dettaglio finisce sotto la lente d’ingrandimento. In aula arriva anche Anna Guiso. Prese il posto di assistente del dentista quando Dina Dore rimase incinta. E ne divenne in seguito l’amante. Ai giudici, Anna riferisce una frase che le avrebbe detto Rocca: «Guarda che io ti amo da sempre». E sulla defunta moglie: «Di lei non mi è mai fregato niente, meritava la fine che ha fatto».
La relazione tra il dentista e Anna Guiso sarebbe iniziata dopo la morte di Dina e terminata nel 2009. Ma, una volta chiusa la storia d’amore, lui, afferma la donna, non si sarebbe arreso e le avrebbe detto: “Se non torni con me vedrai cosa ti succederà”. «Avevo paura di Francesco Rocca, era esaurito. Avevo paura che mi uccidesse e si suicidasse». Quindi tocca testimoniare al bambino, ormai cresciuto, che vide una persona allontanarsi dal luogo del delitto. Com’era l’assassino? «Aveva la faccia e le mani nere, ansimava». Un uomo incappucciato, magro e giubbotto nero.
Il colpo di scena. La tensione sale. Agli inizi di settembre la difesa di Rocca chiede di trasferire il processo per il clima di “terrore e paura” che si vivrebbe. Una settimana più tardi domanda di sospendere il dibattimento. Ma stavolta per un fatto ben più concreto: avrebbe scoperto finalmente a chi appartiene il Dna sullo scotch. E il risultato spiazza tutti: si tratterebbe di un parente del supertestimone Stefano Lai. Lo avrebbero scoperto grazie a un bicchiere d’acqua dove aveva bevuto il padre, Antonio. Prelevato il codice genetico, è stato messo a confronto con quello ritrovato sullo scotch: compatibilità tra il 95 e il 98%. Non si tratta di Stefano, ma il genetista Andrea Maludrottu ha concluso che appartiene a un suo consanguineo maschio. Gli avvocati hanno così chiesto la disposizione di una perizia da parte della Corte. E il giallo, ora, diventa sempre più fitto.
(di Edoardo Montolli)

Femminicidio: via tomba marito-mandante (EuroNews – 25 febbraio 2019)
La salma di Dina Dore, la mamma di Gavoi uccisa il 26 marzo del 2008, ora riposa nella tomba di famiglia, vicino a suo padre Pietro, nel cimitero del paese barbaricino. Dopo 11 anni, la bara è stata spostata dal sepolcro della famiglia del marito di Dina, Francesco Rocca, il dentista che sta scontando in via definitiva l’ergastolo come mandante dell’omicidio della moglie, mentre un giovane del paese è stato condannato come autore materiale del delitto. Una traslazione voluta fortemente dai familiari di Dina e che è stata possibile solo dopo la sentenza della Cassazione nei confronti di Rocca.
Si chiude così un percorso doloroso per la famiglia Dore. A Graziella, sorella della vittima, è stata affidata la piccola Elisabetta che oggi ha 11 anni. Ed è stata Graziella a battersi come una leonessa per far luce sull’omicidio della sorella. Dina Dore venne uccisa nel garage della casa familiare di Gavoi la sera del 26 marzo del 2008. Rocca per anni si è professato innocente.

Elisabetta, 12 anni, orfana di femminicidio e senza risarcimento. L’avvocato: «Faremo causa allo Stato» (il Messaggero – 17 dicembre 2019)
Elisabetta aveva otto mesi quando la mamma è stata uccisa sotto i suoi occhi.  Era il 26 marzo del 2008. Lei sul seggiolino dell’auto, Dina Dore – 37 anni –  con la testa fracassata e il nastro adesivo intorno alla bocca, è morta soffocata nel bagagliaio. Tanti anni di indagine a vuoto, si pensava a un sequestro finito male, e poi la svolta: a ordinare l’omicidio della moglie era stato Francesco Rocca, facoltoso dentista di Gavoi (provincia di Nuoro). Ragioni economiche più che sentimentali: lui voleva liberarsi di Dina per vivere con la sua amante ma senza divorziare così da mantenere intatto il patrimonio di famiglia. Aveva dato 250mila euro a un killer – un minorenne – per uccidere la moglie, ma l’assassino aveva confidato il segreto e il testimone aveva parlato.
Elisabetta adesso ha 12 anni, vive con la zia Graziella – sorella della madre – del padre in carcere (è stato condannato all’ergastolo) e della mamma che non c’è più non parla mai. «Mi preoccupa molto questo suo silenzio», dice Graziella che ha in affidamento la nipote e si fa carico di tutte le spese. «ll padre dovrebbe preoccuparsi del suo mantenimento, ma non ha mai dato nulla. Per adesso io e mio marito riusciamo a non farle mancare niente, ma penso a quando dovrà andare all’università e ci saranno spese molto più grandi».
Elisabetta potrebbe non avere alcun risarcimento. «Le zie e la nonna da parte del padre – spiega Graziella – hanno intrapreso due cause civili per spogliare lui di tutto i suoi beni in modo che alla figlia non venga dato niente». La famiglia di Francesco Rocca dice di aver sostenuto 800mila euro di spese legali e quindi chiede di riappropriarsi del suo patrimonio. Al padre non resterebbe nulla e non potrebbe così pagare il risarcimento ai familiare della moglie, come ha previsto la sentenza. «Non pensano al futuro di questa ragazzina a cui non resterà nulla», dice la zia. Al processo contro il padre la bambina non si è costituita parte civile, così aveva deciso il tutore. 
«Qualora riuscisse l’obiettivo di svuotare il patrimonio del padre di Elisabetta – annuncia l’avvocato Annamaria Busia che tutela la bambina e ha ispirato la legge sugli orfani dei femminicidi – citerò in giudizio la Presidenza del Consiglio dei ministri. Lo farò per Elisabetta e per tutti gli orfani dei femminicidi. Nella causa allo Stato ci appelleremo alla direttiva europea sul risarcimento alle vittime di reato». Graziella Dore e l’avvocato Busia sono intervenute al Senato alla conferenza sul bilancio della legge a tutela degli orfani dei femminicidi, a due anni dall’approvazione, con le senatrici Loredana De Petris e Valeria Valente, presidente della Commissione parlamentare sul femminicidio.
Dopo quasi due anni di paralisi, «con i decreti attuativi stiamo recuperando il tempo perduto», sostiene al senatrice De Petris. Si calcola che gli orfani siano 2mila, ma ancora non c’è un’anagrafe.
«La legge prevede il congelamento dei beni degli uxoricidi in modo che non vengano utilizzati per spese legali e siano una garanzia per gli orfani – spiega l’avvocato Busia – adesso occorre un intervento per tutelare questi bambini e questi ragazzi dai crediti. Bisogna evitare che arrivino l’Inps o Equitalia a chiedere soldi agli eredi per vecchie sanzioni». Non devono più verificarsi casi come quello della richiesta di risarcimento di oltre 120mila euro – di qualche giorno fa – alle due sorelle senza più madre e madre da parte dell’Inps, per cui è intervenuto anche Mattarella.  «Tutta la seconda parte della legge che riguarda l’assistenza agli orfani purtroppo non ha trovato attuazione».
L’iter della legge per gli orfani dei femmincidi ormai è avviato. «Per due anni abbiamo aspettato i decreti attuativi – aggiunge la senatrice Valeria Valente – entro febbraio la legge diventerà operativa. Sono stati stanziati 12 milioni, le risorse ci sono, il problema semmai è capire di cosa hanno bisogno gli orfani. Bisogna accompagnare la famiglia affidataria che si prende cura di questi bambini che sono due volte orfani. I femminicidi sono in crescita, contrariamente a tutti gli altri reati. Cosa c’è che non va? É stata sottovalutata la portata culturale di questo fenomeno. Non si può chiedere a una donna di denunciare fino che lo Stato non sarà in grado di proteggerla».


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