Marisa Maldera, 48 anni, ristoratrice, mamma. Sedata, cosparsa di benzina e arsa viva dal marito che simula un incidente
Caravate (Varese), 20 Febbraio 2003
Titoli & Articoli
«Il killer delle mani mozzate ha ucciso altre due donne» (il Giornale – 5 gennaio 2014)
Il giudice aveva promesso a Cinzia e Tina che avrebbe cercato di far luce sulla fine della madre e, dopo aver studiato il caso per mesi, è riuscita a convincere i colleghi di Varese a riaprire il caso di Marisa Maldera, bruciata viva nella sua auto nel 2003. Unico sospettato Giuseppe Piccolomo, marito della vittima e padre delle ragazze, già all’ergastolo per l’omicidio di Carla Molinari e indagato per l’uccisione di Lidia Macchi.
Piccolomo, imbianchino di 62 anni residente a Ispra in provincia di Varese, venne fermato nel novembre del 2009 per il delitto di Carla Molinari, 82 anni, sgozzata nella sua abitazione nella vicina Coquio Trevisago. L’uomo prima di lasciare la scena del crimine mozzò le mani alla vittima che aveva lottato disperatamente, per impedire agli investigatori di trovare sotto le unghie frammenti di pelle. Un trucco che non gli evitò prima l’arresto e poi la condanna all’ergastolo nel 2011 in Corte d’Assise a Varese. L’uomo si dichiarò sempre innocente: «la polizia mi ha incastrato con prove false» e il legale ricorse in appello. L’incartamento passò al sostituto procuratore generale Carmen Manfredda a cui si rivolsero le due figlie: «Guardi che quel mostro, oltre ad averci molestate da piccole, ha ucciso anche nostra madre, per sposarsi con una donna marocchina più giovane».
Il magistrato prese a cuore la vicenda, studiò la vita dell’imbianchino e riuscì a far riaprire ben due inchieste per altrettante donne uccise in provincia di Varese. La prima riguarda Lidia Macchi, scout ventenne uccisa nel 1987 fuori dall’ospedale di Cittiglio con venti coltellate alla schiena a all’addome. La seconda, ancora più raccapricciante, la moglie di Piccolomo, Marisa Maldera, bruciata viva nel febbraio del 2003 a Caravate. La coppia al tempo gestiva due ristoranti, a Caravate e a Coquio. Piccolomo era presente e raccontò poi quel che era accaduto: «Abbiamo fatto il pieno alla nostra Volvo Polar poi, come scorta, abbiamo riempito una tanica da 20 litri. Credo ci sia stata una perdita e poi l’innesco quando mia moglie si è accesa una sigaretta. Ho visto fumo e fuoco nell’abitacolo, mi sono fermato sono sceso e le fiamme hanno avvolto la vettura, senza lasciarmi modo di salvare mia moglie». Un comportamento che costò a Piccolomo una condanna a 15 mesi per omicidio colposo. Dopo poco tempo, superato senza traumi dolore e rimorso, sposò una giovane tunisina. Poi il delitto Molinari, l’arresto, la condanna in primo grado.
In febbraio la vicenda approdò alla Corte d’Assise d’Appello, trovando appunto il giudice Manfredda come pg. A lei si rivolsero subito le figlie, spiegando cosa avesse fatto loro da piccole: «lui ci portava nel letto, ci toccava e poi si masturbava», le botte alle madre e forti sospetti sulla sua fine. La pg ottenne la conferma della condanna all’ergastolo, poi la riapertura di due inchieste, grazie alle «raccomandazioni» spedite in procura a Varese. Prima la vicenda Macchi ora quella Maldera. Proprio nei giorni scorsi infatti pm Luca Petrucci ha chiesto la riapertura del caso, domanda prontamente accolta dal gip Stefano Sala. Altri due ergastoli potrebbero dunque attendere il «killer delle mani mozzate».Morte Marisa Maldera, tutto rinviato.
«Vogliamo giustizia per nostra madre» (la Provincia di Varese – 27 maggio 2017)
Morte Marisa Maldera: tutto rinviato al 15 settembre. «Noi abbiamo paura», dicono Tina e Cinzia Piccolomo. Paura che quel «mostro esca e ci faccia del male». Il mostro per le ragazze è il loro padre: Giuseppe Pippo Piccolomo, 66 anni, già condannato all’ergastolo in via definitiva per l’omicidio di Carla Molinari, assassinata nella sua abitazione di Cocquio Trevisago nel 2009 (le furono mozzate entrambe le mani) oggi accusato di aver assassinato la prima moglie, Marisa Maldera, morta nel febbraio 2003 in uno strano incidente avvenuto a Caravate. Piccolomo e la moglie, dopo le 2 di notte, fecero un giro in auto. Auto che trasportava una tanica di benzina. Ci fu un incidente. Piccolomo ne uscì illeso, la moglie morì arsa viva.
«Ci disse – raccontano le figlie – di avere visto la sua pelle scollarsi dal viso». Dopo 14 anni le due ragazze ieri erano in aula: «abbiamo sempre detto che l’aveva uccisa lui – spiegano – ha patteggiato per omicidio colposo a un anno e 4 mesi. Abbiamo sempre detto che era stato lui. Che l’aveva uccisa per poter stare con la lavapiatti». La giovane marocchina sposata da Piccolomo due mesi dopo la morte della prima moglie.
Per l’accusa fu un delitto passionale e non solo. C’era anche un’assicurazione «della quale non sapevamo niente sino alla morte di nostra madre», spiegano le figlie.
Ieri, davanti al gup Anna Giorgetti Piccolomo avrebbe dovuto andare incontro al proprio destino: rinvio a giudizio, oppure archiviazione in conseguenza del ne bis in idem, ovvero la norma che vieta che una persona sia processata due volte per lo stesso delitto: Piccolomo patteggiò a un anno e quattro mesi per la morte della prima moglie quattro anni fa. C’è stato un vizio di notifica: al figlio di Piccolomo e Maldera, possibile parte civile, non è stata notificata la convocazione per l’udienza. Tutto rinviato al 15 settembre dunque. «È un’angoscia – dice Tina Piccolomo – è stato lui, noi lo sappiamo. Questo rinvio non fa che angosciarci. Tuttavia ci sono voluti 14 anni: siamo al punto di poter aver giustizia per nostra madre. Quindi rispettiamo il lavoro degli inquirenti». Il 15 settembre il gup dovrà decidere se mandare a giudizio Piccolomo, che potrebbe trovarsi ad affrontare una seconda Corte d’Assise. «Noi sappiamo che è stato lui. E continuiamo a chiedere giustizia. Continueremo a farlo. A prescindere perchè nostra madre merita la verità».
«Quello di fu un femminicidio nel senso più stretto del termine. Molti anni prima che il termine venisse coniato. Fu un delitto dal movente passionale ed economico: il marito la uccise per poter sposare la giovane con la quale aveva una tresca e, contemporaneamente, incassare l’assicurazione stipulata sulla vita della donna. È tutto nell’indagine: documentato». , legale di e , le due figlie di Maldera che da 14 anni accusano il loro padre, , il killer delle mani mozzate, di aver assassinato la prima moglie, torna a parlare della storica decisione presa l’altro ieri dal gup che in ordinanza ha superato lo scoglio del “ne bis in idem”. Fatto mai accaduto nella giurisprudenza italiana.
Piccolomo, già condannato all’ergastolo in via definitiva per l’omicidio di , assassinata nel settembre 2009 a Cocquio Trevisago («è un uomo che odia le donne», commentarono le figlie all’epoca) , aveva già patteggiato una pena a un anno e 4 mesi per omicidio colposo della moglie. Marisa Maldera morì il 20 febbraio 2003 in uno “strano” incidente stradale. La vettura guidata dal marito, sulla quale Piccolomo aveva caricato una tanica di benzina, uscì di strada e prese fuoco. Maldera non cercò o non riuscì a scendere dalla macchina in fiamme e morì arsa viva. Piccolomo uscì praticamente illeso dal fatto. Che fu trattato come incidente stradale: omicidio colposo.
Quattro anni fa la procura generale di Milano, su input delle figlie di Marisa riaprì le indagini e «provò una storia completamente diversa» dice Gentile. Il “ne bis in idem” è il principio giuridico in base al quale una persona non può essere processata due volte per lo stesso fatto. «Ma qui il fatto è completamente diverso – dice Gentile – non fu un incidente stradale ma un omicidio volontario. Basta comparare i due capi di imputazione per capire che il ne bis in idem non c’è. Piccolomo non uscì di strada accidentalmente quella notte. Quello di Marisa fu un omicidio volontario premeditato e pianificato con cura».
Secondo quanto ricostruito dalla procura generale «il marito somministrò alla moglie in modo fraudolento dei farmaci per stordirla in modo non potesse lasciare l’auto in fiamme – dice Gentile – tracce di farmaci che, la donna non assumeva, sono state trovate nei nuovi tossicologici. Inoltre è stato identificato e sentito il netturbino che quella notte vide un uomo, presumibilmente Piccolomo, fumare tranquillamente una sigaretta accanto all’auto in fiamme dove Marisa moriva. Ribadisco: fu femminicidio. E aggiungo: uccidere qualcuno è abominevole. Uccidere qualcuno guardandolo bruciare vivo è disumano». Ora Piccolomo potrà essere processato per l’omicidio volontario della prima moglie. Il gup deciderà il 13 novembre. «Per noi – dicono Cinzia e Tina –è la speranza dare finalmente giustizia a nostra madre. Saremo sempre grate alla procura generale di Milano e ai giudici di Varese».
Marisa Maldera: c’era tranquillante nel sangue prima di morire (Varese News – 12 ottobre 2018)
La consulenza dell’accusa conferma la presenza di Lorazepam nel metabolismo della donna “che ha influito sul sistema nervoso centrale”. I rilievi tecnici sull’auto escludono il ribaltamento
Chi muore in un incendio può avere nel sangue tracce di carbossiemoglobina, la sostanza emessa dalla combustione che, se arriva ad alti livelli, può produrre svenimenti e perdita di coscienza: Marisa Maldera quella notte del febbraio del 2003 aveva una percentuale nel sangue vicina al 35%. Se fosse riuscita ad uscire dall’auto si sarebbe salvata quasi certamente: ossigeno ad alti flussi e il ricovero d’urgenza in ospedale e poi in camera iperbarica l’avrebbero rimessa in sesto. Ma nel metabolismo della moglie di Giuseppe Piccolomo deceduta orribilmente perché intrappolata nella Volvo Polar in fiamme in mezzo al prato di Caravate, c’era anche dell’altro.
La tossicologa forense dell’università di Pavia Cristiana Stramesi nei campioni prelevati dal cadavere e conservati per anni a -20 gradi ha trovato anche tracce di Lorazepam, il principio attivo di tranquillanti come Tavor o Control, medicinali per curare stati d’ansia o insonnia: poche gocce prese ogni giorno assicurano livelli terapeutici nel sangue ma anche nei tessuti (ma Marisa non l’assumeva). Lo stesso quantitativo preso una tantum, invece, provoca egualmente livelli elevati di torpore, in grado di «influire sul sistema nervoso centrale», anche se le tracce nel metabolismo risultano più tenui. Tradotto: intontimento, confusione e quella sensazione che ladri e rapinatori col pallino della chimica conoscono bene quando devono derubare qualcuno somministrando la sostanza in bevande comuni. Anche nel caffè, che non influisce come antagonista, tanto che spesso nelle case di riposo si utilizza proprio la classica tazza di caffè per somministrare il potente tranquillante.
Giuseppe Piccolomo, mentre la professionista parlava, non ha fatto neppure una piega. Anzi sembrava a suo agio nella gabbia, tanto da slacciarsi la felpa per mostrare una t-shirt con stampato il volto della moglie e dei due figli.
Lo stesso clima che si è respirato quando l’altro consulente dell’accusa, l’ingegner Domenico Romaniello ha tratteggiato i diversi scenari legati alla traiettoria che l’auto avrebbe fatto per andarsi a trovare in mezzo al prato che costeggia la Provinciale. Qui le ipotesi sono due: o l’auto nel prato ci è arrivata da un viottolo appena tracciato per consentire il passaggio ai mezzi agricoli che 15 anni fa arrivavano nel campo per lavorare la terra (ma non nella stagione dell’incidente, era febbraio); oppure la Volvo in mezzo al campo c’è arrivata come sostiene l’uomo alla guida dell’auto quella gelida notte (-4,5 gradi), cioè uscendo di strada e cappottandosi, causando lo spargimento di benzina custodita in una tanica posta dietro al sedile anteriore del passeggero e responsabile dell’incendio. Ipotesi possibile, in almeno due scenari legati alla velocità e al conseguente tragitto compiuto dal mezzo, ma del tutto incongruente con le condizioni della carrozzeria: l’auto sulla quale in coniugi viaggiavano non presentava segni di schiacciamento soprattutto nei montanti anteriori, segni che il peso del veicolo lascerebbe a seguito di più carambole su di un terreno che presenta forte attrito. C’è poi da capire cosa sia successo alle portiere dell’auto: il mezzo, dopo che le fiamme vennero domate, fu trovato con tre portiere aperte (lato guida e le due posteriori) mentre quella lato passeggero dove trovava posto la povera Marisa risultava “come inchiodata”. Non necessariamente quella portiera era stata chiusa: i rilievi tecnici sul veicolo hanno difatti dimostrato che quand’anche la portiera fosse stata aperta al momento dell’incendio, nel giro di una trentina di secondi gli alti gradi sviluppati dalle fiamme sono in grado – su quel modello – di fondere la molla del nottolino della portiera così da trasformare l’abitacolo in una palla di fuoco che non dà scampo.
Secondo ergastolo per il «killer delle mani mozzate»: «Uccise anche la moglie» (Corriere della Sera – 18 gennaio 2019)
Giuseppe Piccolomo, già condannato per l’omicidio della pensionata Carla Molinari, riconosciuto colpevole anche del delitto del 2003. Le figlie: «Dopo 16 anni finalmente abbiamo avuto giustizia per nostra madre»
Giuseppe Piccolomo, il «killer delle mani mozzate», già in carcere per aver ucciso la pensionata Carla Molinari nel 2009, è stato condannato alla pena dell’ergastolo anche per l’omicidio della moglie. La sentenza è stata letta che erano da poco passate le 12 di venerdì: impassibile, in tuta e scarpe da ginnastica dietro le sbarre della gabbia ha ascoltato il dispositivo letto dal presidente del collegio, Orazio Muscato, per poi tornare in carcere. I fatti che hanno portato alla condanna risalgono al 20 febbraio del 2003, quando Giuseppe Piccolomo e a moglie Marisa Maldera, dopo una serata passata al ristorante che gestivano, uscirono per un giro in auto che finì nel giro di poche ore, nel cuore della notte, con l’incendio nel quale la donna morì bruciata viva a Caravate, in provincia di Varese. La procura di Varese indagò sul caso e nel 2006 ci fu un patteggiamento a un anno e 4 mesi per omicidio colposo.
Fu grazie alle figlie Cinzia e Tina e ai loro legali che ora le hanno patrocinate come parti civili – Nicodemo Gentile e Antonio Cozza – che il caso venne riaperto e in seguito avocato dalla Procura di Milano, rappresentata in giudizio dalla procuratrice Maria Grazia Omboni. Il processo per omicidio volontario ebbe inizio il 28 maggio 2018. Da allora in aula sfilarono decine fra testi, periti e criminologi chiamati dalle parti per ricostruire l’accaduto. La difesa di Piccolomo invocò la carta dell’incidente stradale con ribaltamento dell’auto e il successivo incendio per via di una tanica di benzina presente nell’abitacolo che prese fuoco a causa di una sigaretta accesa dalla donna. Venne inoltre sollevata un’eccezione preliminare per ne bis in idem: l’imputato non poteva secondo la difesa venir giudicato due volte per lo stesso fatto (eccezione non accolta dalla Corte).
L’accusa invece ha sostenuto la volontarietà dell’omicidio: nel sangue della donna vennero rinvenute tracce di benzodiazepine, sostanze i grado di inibire lo stato di coscienza di una persona: Piccolomo avrebbe sciolto questi farmaci in una bevanda fatta bere alla moglie che, semiaddormentata, venne cosparsa di benzina e data alle fiamme mentre era in auto per simulare l’incidente. Il movente sarebbe quello economico, per riscuotere il capitale di una assicurazione sottoscritta dalla moglie, ma anche passionale: Piccolomo secondo le figlie aveva una relazione con la lavapiatti marocchina Thali Zineb, che poi avrebbe sposato e da cui ebbe due figli.
In aula erano presenti le figlie dell’uomo, Cinzia e Tina, assieme a diversi nipoti: «Finalmente, dopo 16 anni abbiamo avuto giustizia per nostra madre», hanno detto tra le lacrime. La corte ha riconosciuto l’aggravante della premeditazione, dell’uso di sostanze venefiche e del legame di parentela con la vittima, riconoscendo i danni in favore della parti civili «da liquidarsi in separato giudizio civile» stabilendo una «provvisionale di 50 mila euro per ciascuna delle parti». È probabile che la difesa, patrocinata dall’avvocato Stefano Bruno, opti per il ricorso in appello.
Nunzia e Cinzia, figlie Giuseppe Piccolomo/ “Un demonio, vide mamma sciogliersi e…” (il Sussidiario – 3 novembre 2019)
Le figlie di Giuseppe Piccolomo, Nunzia e Cinzia, hanno avuto un ruolo molto importante nel processo sulla morte di Marisa Maldera, la loro madre. La vittima rimase uccisa all’età di 49 anni, morta bruciata in seguito ad un drammatico quanto misterioso incidente stradale avvenuto nel 2003. Il caso inizialmente fu archiviato come omicidio colposo, ma sin dai primi istanti proprio le figlie sono convinte che il padre possa essere il responsabile della morte della loro madre.
I loro dubbi furono ampiamente esposti anche nel corso del processo a carico dell’uomo e proprio le loro parole gettarono nuove ombre su Piccolomo. Nel corso del processo, la figlia Cinzia in più occasioni non riuscì a trattenere le lacrime di rabbia e dolore per la fine spietata capitata alla madre. “Non è stato facile, non è tutt’ora, quando ti muore una mamma e ti raccontano nei minimi dettagli come si scioglieva nel fuoco, io penso che non puoi amare una persona”, disse in aula. “All’inizio ho atteso con la speranza che ci fossero i telefoni sotto controllo, che stessero facendo delle indagini, che comunque le cose andassero avanti”, ma nulla di tutto ciò accadde. Parlando del padre, aggiunse Cinzia, “Lui ha assistito alla morte di mia mamma, l’ha vista bruciare viva. Ha assistito a questa scena e l’ha raccontata nei minimi dettagli come lei si scioglieva nel fuoco. A noi ci ha messo l’orrore negli occhi invece lui era sereno. Era tranquillissimo”.
Caso Piccolomo, Cassazione conferma: “Non andava nuovamente processato” (Varese News – 28 aprile 2022)
Passa la tesi della difesa, il “ne bis in idem“, rigettato il ricorso ricorso di Procura generale e Parte civile, che dovrà pagare le spese
I giudici di Roma danno ragione alla difesa di Giuseppe Piccolomo, l’imbianchino di Corato in carcere per l’omicidio di Carla Molinari (mani mozzate) ma che dopo l’ergastolo ha dovuto affrontare anche un altro processo, quello per la morte della moglie Marisa Maldera avvenuta nell’inverno del 2003 per la quale l’uomo ha scontato una condanna con pena definita su accordo tra le parti (un anno e 3 mesi). Tuttavia venne imbastito un nuovo procedimento penale nei suoi confronti con l’accusa non di omicidio colposo – cioè di un “semplice“ incidente stradale dove la donna perì arsa viva – ma per omicidio volontario, con l’ipotesi cioè di una somministrazione incongrua di tranquillanti per farla addormentare, simulare un’uscita di strada e per appiccare poi le fiamme all’auto in un campo a Caravate.
Per questa ricostruzione Piccolomo venne nuovamente condannato (ma all’ergastolo) in primo grado dalla corte d’Assise di Varese, nonostante l’eccezione preliminare (prima dell’inizio del dibattimento) con la quale il difensore Stefano Bruno invocò il “ne bis in idem“, principio giuridico secondo il quale non si può venir processati per il medesimo fatto (dopo cioè che si è stati condannati). In Appello a Milano difatti la corte diede ragione alla difesa ma quella decisione venne impugnata sia dalla Procura generale (l’accusa), sia dalla parte civile (cioè le figlie dell’uomo che hanno sempre creduto alla colpevolezza del padre per l’ipotesi delittuosa più grave. Di oggi la decisione della cassazione che ha rigettato i due ricorsi condannando la parte civile al pagamento delle spese processuali. «Un processo che nemmeno doveva iniziare».
Le figlie di Piccolomo “sconcertate e incredule” per l’annullamento dell’ergastolo del padre (Varese News – 20 gennaio 2021)
L’avvocato di parte civile Antonio Cozza riporta le parole delle due sorelle che chiedevano giustizia per la fine della madre, morta bruciata in auto 18 anni fa
«Oltre ogni ragionevole dubbio». La formula ricorre nelle aule di giustizia per garantire all’imputato la certezza dei ragionamenti giuridici che portano a una decisione di condanna: non devono esserci dubbi.
L’avvocato Antonio Cozza usa questa formula per commentare la colpevolezza a suo dire di Giuseppe Piccolomo, giudicato colpevole in primo grado per aver ucciso in un modo tremendo la moglie Marisa Maldera in una gelida notte di febbraio del 2003 a Caravate simulando un incidente, narcotizzandola e incendiando l’auto con taniche di benzina mentre la donna era ancora viva. Ma questa ricostruzione che incastrò giusto un anno fa il killer delle mani mozzate – di Carla Molinari – e per quell’omicidio ora in carcere a vita a Bollate, oggi suona per Piccolomo a vuoto dopo la decisione della Corte d’assise d’Appello di Milano che annulla la sentenza varesina dell’ergastolo.
Oltre ogni ragionevole dubbio dunque l’avvocato che tiene le parti delle figlie Tina e Cinzia (nella foto, il giorno della sentenza di primo grado che condannò il padre all’ergastolo con l’avvocato Nicodemo gentile a Varese) non si aspettava una tale decisione, «che per tre volte è stata di fatto rigettata nei gradi di giudizio precedenti, dinanzi a gip, gup e Assise di Varese che ha peraltro motivato la decisione di non accogliere il ne bis in idem invocato dalla difesa con una dettagliata ordinanza». Dunque allo stato dei fatti il processo per quella morte non si celebrerà, rimanendo fermi alla decisione del patteggiamento che risale a tre anni dopo i fatti, nel 2006, decisione che la corte dovrà motivare. «E le attendiamo queste motivazioni, fra 15 giorni. Per il momento ci limitiamo a rispettare la decisione del giudice», spiega l’avvocato Cozza che già annuncia l’impugnazione in Cassazione, intenzione già esplicitata dalla procura generale. Le figlie di Piccolomo, parti civili del processo «e principali testimoni», Tina e Cinzia Piccolomo si dicono tramite il loro legale «sconcertate e incredule» per la decisione della corte meneghina, «perchè pensavano di aver dato giustizia alla mamma».