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Aldo Cagna, 28 anni, agricoltore con precedenti penali per spaccio e reati contro la persona. Dopo 6 anni di minacce e stalking, accoltella l’ex fidanzata che lo aveva già denunciato due volte. Condannato a 30 anni con rito abbreviato. In carcere denuncia e fa condannare due agenti di polizia penitenziaria. Dopo pochi anni ottiene permessi e chiede la semilibertà.

Parma, 12 Settembre 2006


Titoli & Articoli

Dramma della gelosia a Parma. Uccide l’ex ragazza a coltellate (la Repubblica – 13 settembre 2006)
Si erano lasciati da quattro anni ma lui non riusciva a rassegnarsi all’idea di averla persa. Ieri sera, Aldo Cagna, 28 anni, ha deciso di vendicarsi dell’ex fidanzata Silvia Mantovani, che nel frattempo si era messa con un altro, e l’ha uccisa a coltellate all’uscita dal lavoro a Martorano, in provincia di Parma. L’omicida però è stato notato dalla pattiglia di un istituto di vigilanza ed è già stato arrestato dalla polizia.
La relazione tra Cagna e la giovane, sua coetanea, è terminata quattro anni fa. Il rapporto era stato molto burrascoso e, secondo i parenti di lei, l’uomo, con precedenti per droga e reati contro il patrimonio, l’avrebbe picchiata in più occasioni. Dopo la rottura, Silvia Mantovani, laureanda in medicina e dipendente di una ditta di Martorano, aveva allacciato una relazione con un altro.
Aldo Cagna, però, non l’ha mai dimenticata e già una volta aveva tentato di aggredirla. Ieri sera l’ha attesa all’uscita dal lavoro. Intorno alle 23, la ragazza è salita in auto. L’omicida l’ha inseguita, tamponata e poi, quando lei scesa dal veicolo, l’ha accoltellata più volte al torace e al viso. Dopo aver commesso il delitto, l’uomo si è allontanato in stato confusionale. Ad alcuni chilometri di distanza, è stato notato da una pattuglia di un istituto di vigilanza, che ha avvertito il 113 e la questura. La polizia, dopo aver ritrovato il cadavere, lo ha rintracciato e arrestato. Cagna, che ha già confessato, è ora rinchiuso nel carcere di Parma.

 

«Giuro, ti ucciderò». Dopo sei anni l’ha fatto (il Giornale – 14 settembre 2006)
«Gliel’aveva giurata, la voleva uccidere». Veronica, amica più grande di Silvia Mantovani, la studentessa di medicina di 28 anni uccisa dall’ex, si aspettava che finisse così.
Un giorno l’assassino aveva minacciato anche lei, in un bar alle porte di Parma. Aveva inseguito in macchina le due ragazze anche allora: «Falla scendere, altrimenti ammazzo anche te», sbraitò. Era il 2000 ma da quel momento Silvia non denunciò più il suo ex fidanzato, Aldo Cagna, 28 anni, agricoltore con un podere a San Genesio di Berceto, sull’Appennino Parmense.
Sono datati marzo (per un episodio a Fontanellato), e aprile di sei anni fa i suoi due esposti contro quel ragazzo che non la lasciava vivere: capelli lunghi, raccolti in una coda, la barba incolta. Aveva continuato a tormentarla, a mandarle sms e a telefonarle, anche se lei ogni tanto cambiava numero. E la gelosia martedì sera ha preso il sopravvento. Non sopportava che Silvia si fosse messa con un altro, 4 anni fa: Lorenzo Reverberi, un bravo ragazzo di Monticelli Terme.
Martedì sera Silvia era uscita dal lavoro, verso le 23. Dalla Colombus di Martorano, da uno stabilimento per la lavorazione del pomodoro. Si stava per laureare in Infermeria, una laurea breve, di tre anni, collegata alla facoltà di medicina. Le mancava un solo esame e per mantenersi gli studi si sacrificava in lavori saltuari. Da pochi giorni aveva cominciato la campagna dei pomodori.
Silvia sale sulla sua Lancia Delta blu, per tornare a casa. Lì scatta la furia di Aldo. La insegue su una Panda verde per alcune centinaia di metri, la tampona, poi l’affianca speronando la macchina. Esce e l’aggredisce verbalmente, lei abbassa il finestrino per chiedere spiegazioni. Questione di attimi: quattro coltellate al volto, lei prova a difendersi, con la mano sinistra, un altro fendente al cuore. In tutto sono otto. Silvia si accascia sul volante, con la cintura di sicurezza ancora allacciata, morendo sul colpo. Nell’abitacolo restano i suoi zoccoli bianchi e una sigaretta spezzata; sul sedile il segno di una pugnalata, sul vetro alcune gocce di sangue.
Aldo scappa confuso, fa quindici chilometri in macchina, poi si ferma e prosegue a piedi. Forse è lì che si libera dell’arma, non ancora ritrovata. Telefona a suo padre, medico pediatra, a Berceto, che lo convince a costituirsi. Viene notato da un vigilantes, Paolo Pedroni. È sconvolto. «Ho commesso una grande cazzata – dice all’agente dell’Ivri -, ho accoltellato una ragazza. Non voleva neanche più parlarmi al telefono. Cosa ho fatto? Adesso sono rovinato».
Il metronotte chiama la polizia, mentre un suo collega trova la Delta con il corpo di Silvia. «Subito non credevo al suo racconto, invece purtroppo era tutto vero. Io stesso a quel punto mi sono spaventato, quel ragazzo poteva uccidere anche me». Maglietta nera, a righe bianche, Cagna viene arrestato dai poliziotti. Confessa, anche se fatica a mettere insieme una frase dal senso compiuto. Poi in questura, davanti al pm Giorgio Grandinetti, ritorna freddo e si avvale della facoltà di non rispondere. Ora è rinchiuso nel carcere di via Burla, per omicidio volontario premeditato.
La famiglia Mantovani è conosciutissima, nel quartiere popolare Oltretorrente, alla periferia di Parma. La sorella Angela e i genitori Carlo e Laura, gestiscono da ben 40 anni il bar latteria 65: entrambi cardiopatici sono finiti al pronto soccorso per un malore. Il padre di Silvia resta ricoverato in osservazione, all’ospedale Maggiore.
Cagna era pregiudicato, per reati contro il patrimonio e la persona e pure per droga. Le analisi confermeranno se l’assassino ha agito sotto l’effetto di stupefacenti. L’ultimo arresto tre anni fa, per avere organizzato un mercatino di spaccio in via Bixio. Poi sembrò essere un po’cambiato. Si era ritirato in un podere a Barceto fra polli e galline. «Lavorava sempre, anche i sabati e le domeniche – dicono alcuni anziani-, a noi sembrava un ragazzo a posto».
La sua relazione con Silvia era stata molto tribolata. E violenta. «La picchiava, una volta era finita in ospedale», ricorda un parente. Si erano messi insieme dieci anni fa, appena maggiorenni. Ma da almeno sei anni Silvia Mantovani non voleva più avere a che fare con Aldo. Aveva anche chiesto aiuto agli amici perché lo tenessero alla larga.
«Conoscevamo la persona – accusa ancora l’amica Veronica -, a Parma tutti sapevano chi era quell’uomo. Non hanno fatto niente per proteggerla, nonostante in tanti avessimo firmato esposti. Era violento. Per due mesi avevo ospitato Silvia a casa mia, perché lui la braccava ovunque: nel negozio dei genitori, nella loro casa di montagna. Adesso lei stava bene, aveva ritrovato se stessa, dopo un tormento infinito»
(di Vanni Zagnoli)

 

Repubblica

“Silvia non ammaliò Cagna” – Depositate le motivazioni della sentenza con cui la Corte d’Assise d’appello di Bologna ha confermato la condanna a 30 anni per l’assassino della 28enne. La difesa ricorrerà in Cassazione

La Mantovani non si è lasciata andare a un gioco di seduzione, non ha ammaliato il Cagna per poi in modo irridente abbandonarlo, ha creduto in quella relazione, lei illudendosi“. Questo un passaggio della sentenza con cui i giudici della seconda sezione della Corte d’Assise d’appello di Bologna hanno confermato la condanna a trent’anni per Aldo Cagna.

L’uomo, il 12 settembre 2006, speronò l’auto della ex fidanzata Silvia Mantovani, l’accoltellò e uccise. Secondo i giudici fece tutto questo, nonostante le grandi quantità di alcol e cocaina ingerite, conscio delle sue azioni. Nessuna seminfermità mentale, come invocato dalla difesa, Cagna era in grado d’intendere e di volere. Il suo amore era diventato ossessione, ma secondo i giudici non “si vede come” l’abbandono di Silvia possa portare “a favorevole considerazione, ai fini sanzionatori, del suo operato, quasi a voler ritenere giustificabili i suoi stati umorali e passionali(…)”.

Nessun dubbio, nessuno sconto: trent’anni ad Aldo Cagna, ma i suoi difensori hanno già deciso, tra pochi giorni, di depositare il ricorso in Cassazione.

Corriere della Sera

Parma, il racconto dell’ amica della ragazza uccisa dall’ ex fidanzato: la seguiva e si nascondeva in solaio«Un fischio notturno sotto casa. Anche così terrorizzava Silvia»

Una vita da inferno. Minacce, aggressioni, pedinamenti. Durati per anni. Sotto gli occhi di parenti e amici. Impotenti. «Perché Aldo Cagna non si fermava di fronte a niente». Ricorda e piange l’ amica del cuore, dirimpettaia di Silvia Mantovani, la studentessa parmigiana uccisa martedì dall’ ex fidanzato. Si chiama come lei, Silvia Garlassi, 29 anni, una laurea al Dams, un concorso per aspirante maestra. E un groppo in gola che non le passerà mai. «Spero che resti in carcere per tutta la vita, perché me lo vedo, quando uscirà, qui sotto casa ad aspettare anche me e a dirmi, con quel solito ghigno di sfida: “Hai visto che ce l’ ho fatta?”». Ha paura Silvietta, minuta come l’ amica. Ma la rabbia le sale: «La storia era finita subito, ma non era una storia d’ amore. Silvia lo aveva capito che era un violento. Le diceva parolacce, la picchiava. Lo temeva, ma non voleva fargli del male. Non so come, ma lui la soggiogava. Aveva potere su di lei, sapeva come tenerla sulle spine».

LA RELAZIONE – Una relazione tormentata, nata tra i banchi di scuola, al liceo privato delle Piccole Figlie di Parma. Aldo non arriva al diploma. Mentre Silvia si iscrive all’ università, psicologia. Solo per un anno. Perché in realtà si dedica a lui. «La voleva tutta per sé, e lei lo seguiva per tenerlo buono. Ma non ci riusciva. Litigavano per nulla, lui alzava le mani. Lo sapevano anche i genitori». Non baruffe amorose, ma drammi profondi, di quelli che lasciano il segno.

Come quando lui entra nella casa di montagna dei Mantovani, e ruba un salame. Solo per sfregio. Non contento, imbratta i muri del condominio, mentre il «suocero» lo denuncia. Oppure quando, sempre a caccia di Silvia, butta già la porta e sferra un pugno al marito della sorella. Ma il destro più forte arriva un giorno sul naso di Silvia. Lei finisce all’ ospedale e firma un querela. Poi la ritira dopo 10 giorni. Botte ma non solo. Aldo Cagna fa più male quando non picchia. «Terrorizzava Silvia solo facendole sapere che lui c’ era». E il ricordo è ancora fresco. «Eravamo in pizzeria, e lui piombò lì all’ improvviso. Ci guardava dall’ alto della scala, immobile. Allora decidemmo di andarcene. Lui ci seguì con l’ auto, fece finta di speronarci. Io chiamai i carabinieri».

GLI AGGUATI – Ma Aldo non si arrende. Pur di stare vicino alla «sua» Silvia, si nasconde nel condominio, nel solaio-stendibiancheria. Per poi riapparire alla prima uscita della ex fidanzata. Appostamenti anche fuori casa. «A volte stazionava davanti al portone, nelle notti d’ estate, e fischiettava per farci sapere che c’ era. Un fischio che non dimenticherò mai». È l’ anno in cui Silvia, talmente provata, non esce più di sera. Per tre mesi va addirittura a vivere da un’ amica. Per depistarlo. Poi Aldo scompare. Desiste. Nel frattempo Silvia incontra Lorenzo, l’ attuale fidanzato, e ricomincia a vivere. «Per lei è stato come rinascere. Aveva comprato una casa, lavorava per pagarsi il mutuo, aveva ripreso a studiare per diventare tecnico di laboratorio».

LA MORTE – Passano così quasi cinque anni. Ma Aldo è sempre in agguato. «Qualche mese fa Silvia mi raccontò di averlo incontrato, diceva che aveva risolto i problemi di droga, che voleva aprire un agriturismo. Lei era contenta». Solo una tregua, fino a venerdì scorso. «Aldo aveva ricominciato a chiamarla sul cellulare, la tampinava. Lei aveva paura». Se ne accorgono anche i genitori: Silvia è di nuovo preoccupata. Venerdì, per il turno di notte, il fidanzato l’ accompagna a Martorano, nella fabbrica di pomodori dove lavora da stagionale. Poi martedì si muove da sola. Aldo è fuori ad aspettarla. Forse da ore. Indispettito perché lei non risponde al telefono. Silvia esce alle 23. È vestita di bianco, con gli zoccoli da laboratorio. Aldo la insegue. Poi l’ accoltella 15 volte, come ha appurato ieri l’ autopsia. Ferite profonde, anche sulle mani. Perché Silvia cerca di difendersi. Fino all’ ultimo colpo fatale: all’ aorta, vicino al cuore. E ora Silvietta non ha più la sua amica. Tra le tante lacrime anche uno scrupolo: «Mi chiedo se noi amici avremmo potuto salvarla». L’ ultimo tormento. «Poi mi dico: chi avrebbe potuto starle accanto 24 ore su 24 per controllarla?». Proprio ieri il ministro Barbara Pollastrini ha lanciato una proposta: carcere da uno a quattro anni per tutti i molestatori. Solo che per Silvia non c’ è più niente da fare.

di Mottola Grazia Maria

Gazzetta di Parma – 27 giugno 2014

 

Pestaggio di Aldo Cagna: due agenti condannati a 1 anni e 2 mesi (Padova Today – 27 giugno 2014)
Sono stati condannati a 1 anno e 2 mesi per lesioni personali e violenza privata i due agenti di Polizia Penitenziara accusati di aver picchiato all’interno del carcere Aldo Cagna, condannato a 30 anni di carcere per l’assassinio della studentessa Silvia Mantovani
Sono stati condannati a 1 anno e 2 mesi per lesioni personali e violenza privata i due agenti di Polizia Penitenziara accusati di aver picchiato all’interno del carcere Aldo Cagna, condannato a 30 anni di carcere per l’assassinio della studentessa Silvia Mantovani. La Corte di Cassazione ha confermato la sentenza della Corte d’Appello di Bologna del 15 ottobre scorso: gli agenti sono stati riconosciuti colpevoli dei due reati. Per il terzo reato di cui erano accusati, ovvero maltrattamenti, invece i giudici avevano ritenuto che non ci fossero prove sufficienti. Il pestaggio di Aldo Cagna è avvenuto in carcere nel febbraio del 2007: secondo la relazione del medico del carcere il detenuto riportava sia un arrossamento del torace che un arrossamento ad un occhio.

Parma, Pestarono detenuto. Condannati definitivamente 2 Agenti di Polizia Penitenziaria (Emilio Quintieri – 29 giugno 2014)
Sono stati condannati a 1 anno e 2 mesi per lesioni personali e violenza privata i due Agenti di Polizia Penitenziaria Vincenzo Casamassima e Andrea Miccoli, imputati di aver picchiato all’interno del Carcere di Parma il detenuto Aldo Cagna, condannato a 30 anni di carcere per l’assassinio della studentessa Silvia Mantovani. La Corte Suprema di Cassazione ha confermato la sentenza della Corte d’Appello di Bologna del 15 ottobre scorso: gli agenti sono stati riconosciuti colpevoli dei due reati con la concessione delle attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti. Per il terzo reato di cui erano accusati, ovvero maltrattamenti, invece i Giudici avevano ritenuto che non ci fossero prove sufficienti.
Il pestaggio di Aldo Cagna è avvenuto in carcere nel febbraio del 2007: secondo la relazione del medico del carcere il detenuto riportava sia un arrossamento del torace che un arrossamento ad un occhio.
Cagna quando venne sentito in dibattimento dinanzi al Tribunale di Parma non riuscì a ricordare di quanti episodi di maltrattamenti era stato vittima, né chi erano tutti i responsabili. Alle domande del Giudice rispose “non ricordo, succedeva spesso, alla fine ero esasperato”. Poi di fronte alle insistenze sbotta: “Mi facevano ruzzolare giù dalle scale per portarmi in isolamento, poi mi pestavano”. E poi, dichiarò, anche perché lo avevano preso di mira. Narra dell’episodio scatenante, nel novembre 2006, quando viene accusato da un agente di aver fatto delle scritte nella cella. Lui nega e si rifiuta di pulirle. Poi si convince che è meglio obbedire, ma quando si volta la guardia lo schiaffeggia in testa. Lui reagisce con insulti e spintoni, viene condotto in isolamento. Significa stare per qualche giorno, fino a una settimana, da soli dentro a una cella, senza ora d’aria. Cagna ci finisce 5 o 6 volte durante il suo periodo di detenzione a Parma. Ed è lì che viene a contatto con gli agenti che accuserà del pestaggio.
“Casamassima entrava nella mia cella quando ero in isolamento, si metteva un paio di guanti neri e mi diceva ‘Preparati, lo sai’ – ha dichiarato Cagna – Poi mi faceva alzare la testa e mi schiaffeggiava due o tre volte”. Un comportamento che le guardie, non solo quelle imputate, avrebbero ripetuto più volte. Così come la “doccia” con acqua sporca: Cagna racconta che gli versavano addosso l’acqua con candeggina contenuta nel secchio dopo la pulitura dei pavimenti. Lui non è certo un detenuto modello: “Rispondevo, insultavo. Loro mi provocavano. Ma ero in uno stato mentale non giusto, dovevano capirlo”.
Il primo febbraio 2007 accade il fatto che Cagna decide di denunciare, per la prima volta. Parla con l’avvocato difensore che gli prospetta una pena di 20 anni, lui si agita. Comincia a litigare con un detenuto chiuso in un’altra cella che lo prende in giro: “In vent’anni qui ne imparerai di lingue: albanese, marocchino”. La discussione viene interrotta dagli agenti penitenziari. Cagna ha riferito che Casamassima gli avrebbe detto: “Ti ricordi in isolamento che ti facevo piangere come una bambina?”. La replica “Non piangevo per te ma per quello che avevo fatto” non sarebbe andata giù alle guardie.
Cagna viene fatto uscire e condotto dal “capoposto”, l’agente responsabile del turno. Ma mentre sta per scendere le scale, viene afferrato per i capelli, fatto cadere e pestato con calci e pugni. Cagna racconta che Miccoli gli avrebbe sferrato un cazzotto in un occhio. Più tardi, in cella, vomita sangue. Ma il medico non gli crede perché ha tirato lo sciacquone. Allora Cagna insiste, dà fastidio, vuole essere visitato ancora. Racconta l’accaduto al medico, che stila un referto e poi lo fa portare al pronto soccorso. E’ durante il viaggio che il capoposto Tanlerico gli avrebbe consigliato di non dire di essere stato picchiato dalle guardie ma da altri detenuti, per evitare problemi in futuro. Cagna ha ribadito che non c’è stata nessuna minaccia, si sarebbe solo trattato di un invito a riflettere. Che alla guardia 56enne, però, è costato un’accusa di favoreggiamento.
Tornato in carcere, Aldo Cagna firma un verbale in cui compaiono entrambe le versioni: quella riferita al medico del carcere, che accusa gli agenti, e quella che tira in ballo ignoti detenuti, rilasciata al pronto soccorso. Ma soprattutto, sottoscrive di non voler sporgere denuncia per quanto accaduto. “Poi però non ne potevo più, ero esasperato da questi episodi. Ci ho ripensato e ho sporto una regolare denuncia”.

 

Sedici anni fa uccise Silvia: Cagna verso la semilibertà (Gazzetta di Parma – 27 agosto 2022)
Sedici anni. Una lunga parentesi per molti di noi abituati a cancellare tutto troppo in fretta. Un tempo brevissimo, perfino sospeso, per una famiglia che si è vista strappare una parte di sé. Era la sera del 12 settembre 2006 quando Aldo Cagna uccise l’ex fidanzata Silvia Mantovani: l’aveva aspettata al buio, fuori dallo stabilimento dove lei faceva la campagna dei pomodori, aveva speronato la sua auto e l’aveva accoltellata. E tra poco Cagna, condannato a 30 anni, potrebbe chiedere la semilibertà. Così, dietro le sbarre passerebbe solo la notte. Già da alcuni anni beneficia di permessi che gli consentono di trascorrere uno o più giorni fuori dal carcere. «E’ intenzionato a presentare istanza per la semilibertà – conferma l’avvocato Claudia Pezzoni, che ha assistito Cagna durante l’intera fase processuale -. La decisione competerà, però, al tribunale di sorveglianza di Firenze, visto che è detenuto a Porto Azzurro».
Dopo aver fatto tappa in via Burla e nel carcere di Ferrara, Cagna è rinchiuso ormai da tempo nel penitenziario dell’Elba. Un carcere che ha sede in un complesso del XVI secolo, ma che, proprio perché in un’isola a grande attrattiva turistica, può offrire maggiori possibilità di impiego nelle strutture ricettive del territorio.
All’interno dell’istituto, poi, ci sono attività produttive: una falegnameria, un borsificio e un’azienda agricola nelle quali lavorano i detenuti. E così Cagna ha avuto la possibilità di avere i primi permessi, in alcuni casi anche documentati da qualche foto postata su Facebook già nel 2017. Un profilo con un altro nome, che pure richiama il suo, nel quale ha pubblicato alcune immagini: lui al mare, lui con qualche amico, due ragazzi – forse compagni di carcere – che spazzano una strada, ma anche un bel tramonto e un cagnolino. Pochissimi post, tra cui quello sopra l’immagine del cane: «Perché non rispondi… ho trovato chi mi capisce», scrive. E accanto pubblica qualche faccetta sorridente.
Capello corto, fisico piuttosto possente, è quasi irriconoscibile se si pensa a quando fu arrestato: arrivò in questura con la chioma trattenuta da una mezza coda, barba, pizzetto e quello sguardo allucinato. Ma il nuovo look conta poco.
C’è qualcosa di profondamente cambiato nel nuovo Cagna? «E’ da tempo che non lo incontro, ma ogni tanto lo sento telefonicamente – spiega l’avvocato Pezzoni -. Penso, però, che gli anni di carcere l’abbiano cambiato. Sicuramente continua ad ottenere la liberazione anticipata (uno sconto di 45 giorni per ogni sei mesi di pena scontata, ndr), il che significa che mantiene un comportamento corretto e porta avanti il percorso di rieducazione». Anche quello verso la semilibertà sarà un percorso, ma un certo tratto di strada è stata fatto e – almeno formalmente – Cagna avrebbe i requisiti per ottenerla. Potrebbero passare però alcuni mesi dalla presentazione della domanda prima di avere una risposta dal tribunale di Sorveglianza. La semilibertà comincia nel momento in cui il magistrato di Sorveglianza approva il piano di trattamento provvisorio, che il direttore del carcere deve predisporre entro cinque giorni dall’arrivo dell’ordinanza del tribunale che ha dato il via libera.
E’ la prospettiva (legittima) di chi, come Cagna, oggi 44enne, ha scontato almeno metà della pena e ha dimostrato di voler intraprendere un cammino per il reinserimento. Eppure, c’è l’altra parte della storia. Quella di chi ha dovuto solo subirla la trama crudele. Un capitolo cominciato nel 2006 e mai chiuso. I familiari di Silvia – la mamma Laura, il papà Carlo e la sorella Laura – sono sopravvissuti. Con dignità. E continuano a distillarlo quel dolore immane. Nella loro riservatezza. In silenzio anche di fronte al futuro di Cagna.
«Come avvocato, capisco che un detenuto possa ottenere determinati benefici: la nostra Costituzione prevede che la pena tenda alla rieducazione del condannato – sottolinea Stefano Freschi, che ha assistito i genitori e la sorella di Silvia durante tutta la vicenda processuale -. Ma è comprensibile che da parte dei familiari ci sia sconcerto: chi ha subito un dramma così devastante fa fatica a comprendere che l’assassino della propria figlia possa tornare in libertà». E’ come risprofondare nell’abisso di sedici anni fa. Anche se finora, comunque, avevi soltanto boccheggiato.
(di Georgia Azzali)


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