Raffaella Presta, 40 anni, avvocata (costretta a lasciare il lavoro dal marito), mamma. Dopo anni di maltrattamenti, uccisa con una doppietta da caccia dal marito
Perugia, 25 Novembre 2015
Titoli & Articoli
Raffaella Presta, selfie delle botte prima di essere uccisa (Blitz – 2 dicembre 2015)
Lui la picchiava da tempo, e otto giorni prima che la uccidesse lei aveva inviato una prova materiale del suo calvario, almeno di quello fisico, ad un’amica e al fratello: un selfie inviato via whatsapp da una sim acquistata di nascosto dal compagno. Era il 17 novembre. Otto giorni dopo Raffaella Presta, avvocato di 40 anni, è stata ammazzata con due colpi di fucile dal marito, Francesco Rosi, agente immobiliare di 43 anni. Adesso quel selfie testimonia una morte annunciata. E non è l’unico segnale che qualcosa da tempo non andava nella coppia. Non si parla, ovviamente, delle lite che ci possono essere in tutte le coppie. Si parla di botte continue, confermate dall’autopsia. Botte che avevano provocato a Raffaella anche la rottura del timpano. E che l’avevano costretta a lasciare il lavoro, a giugno. Il marito non voleva più che ci andasse, e lei forse ha preferito non doversi più nascondere, non dover più nascondere alle colleghe dell’ufficio legale i segni di quelle violenze.
Le colleghe sapevano, le avevano detto di denunciare, ma Raffaella, come tante donne vittime del proprio partner, non aveva voluto denunciare. Quando ha inviato quel selfie all’amica e al fratello, quasi una prova inconsapevole, era ormai troppo tardi. Otto giorni dopo lui ha preso il fucile che teneva carico sotto il materasso, per paura dei ladri, sostiene. Con quel fucile, usato solitamente per ammazzare i cinghiali, le ha sparato due colpi ad un metro di distanza.
Non ci sono segni di colluttazione, Raffaella forse si è a malapena accorta di quello che le stava accadendo. Adesso resta solo quel selfie e la testimonianza di chi sapeva, come racconta Infooggi, che ha raccolto le parole di alcune amiche: “La picchiava, la stava isolando. A giugno l’aveva anche obbligata a lasciare il lavoro. Non voleva parlarne ma alla fine ha ammesso che la picchiava. Violentemente. Le aveva anche provocato ferite per le quali sarebbe dovuta andare in ospedale ma poi l’aveva convinta lui a non andarci. Così come poi l’ha convinta a smettere di lavorare. Non aveva molte amiche, perché lui non voleva e non voleva nemmeno che la chiamassimo. La stava isolando. Ora penso solo a quel bambino (il figlio della coppia, ndr) così bello e così perfettamente educato. Un bambino molto intelligente. Sono sconvolta ma il pensiero è per lui”. Eppure quella che appariva all’esterno era l’immagine della “famiglia perfetta, non avrei mai immaginato vedendoli da fuori quello che lei stava passando”.
Parla il padre di Raffaella Presta «Il male, come il fuoco, covava sotto la cenere, e ha vinto sul bene» (Corriere della Sera – 3 dicembre 2015)
Antonio, ex carabiniere, è il papa della donna, un avvocato, uccisa dal marito con due colpi di fucile: «Pensava di potere risolvere i problemi in famiglia». «Ignoravo tutto»
«Mia figlia? Era luminosa, solare. Quello che è successo? È il male che ha vinto sul bene. Lei era un avvocato penalista che pensava di avere gli strumenti per risolvere i problemi che aveva in famiglia. Non c’è riuscita». E’ un padre che parla. Ma Antonio Presta è anche un carabiniere, sia pure in pensione. E le parole che pronuncia sono quelle come te le immagineresti da un vecchio maresciallo dell’Arma che, lui di origini pugliesi, da comandante di stazione ha girato l’Italia dal Nord al Sud. Scandagliandola, ascoltandola. Guardandola sin dentro le viscere. La voce al telefono è forte, solida, anche se nel fondo avverti il timbro del dolore più atroce, per un padre. Sua figlia, Raffaella, è stata uccisa il 25 novembre, la giornata mondiale contro la violenza sulle donne, dal marito. Aveva 40 anni. Un delitto in casa, nella villa a Perugia: l’uomo, Francesco Rosi, di 43, le ha sparato due colpi con un’arma da caccia. Le indagini hanno accertato altre percosse. Avvenute in passato e segnalate anche dalle persone – amiche e colleghe dello studio legale presso aveva lavorato sino a giugno prima di abbandonarlo per volontà del compagno – ascoltate nell’indagine sul femminicidio.
«Non sapevo nulla di tutto questo» sono le parole scandite, sembra quasi più indirizzate a se stesso, dal maresciallo Presta, originario di San Donaci, nel Brindisino, dove è tornato a vivere una volta in pensione e dove si occupa dell’associazione reduci ed ex combattenti. Proprio da questo borgo in Puglia la figlia era partita per studiare Legge a Perugia, dove si era laureata, passando l’esame per l’albo degli avvocati ed entrando nello studio Marmottini. Lasciato a giugno perché il marito non voleva. E perché lei si vergognava di presentarsi con il volto pieno dei segni delle botte prese e saltando per questo appuntamenti professionali. Dopo la tesi, l’incontro con il marito, il matrimonio. Il bimbo, Filippo, che oggi ha 6 anni e che sarà affidato alla sorella gemella di Raffaella.
«Cercava di risolvere il problema nel suo ambito»
Antonio parla della figlia, e nel ragionamento ad alta voce mescola il timbro del padre e del carabiniere che drammi così ne ha visti tanti, troppi. «Raffaella è una donna – il tempo è questo, ancora al presente, ndr – che ha cercato di risolvere il problema nel suo ambito. Pensava di avere gli strumenti da sola, in proprio, all’interno della sua famiglia. Magari sorvolando su certi aspetti». Pausa. «Invece non ce l’ha fatta. Nemmeno sorvolando. Evidentemente il buon Dio ha pensato aveva bisogno di un altro angelo, e per questo l’ha chiamata a sé». Ancora silenzio.
«Ignoravo tutto di quello che poi si è sviluppato» Quando chiediamo se avesse intuito qualcosa delle vessazioni, e delle botte, Antonio Presta sussurra: «Ignoravo tutto, di quello che poi si è sviluppato». Il marito? «Veda, davanti a noi era affettuoso, dolce. Sembrava una famiglia felice. Ma il male, come il fuoco, cova sotto la cenere». (Non se la sente più di proseguire la conversazione. Poi però il maresciallo dell’Arma vuole raccontare ancora questo: «… il carabiniere nella sua quotidianità deve avere la possibilità di percepire, siamo un po’ i confessori, deve comprendere, interventi che possano servire a lenire la sofferenza…»).
Raffaella Presta alle amiche: «Se mi ammazza non dategli mio figlio» (Corriere della Sera – 29 febbraio 2016)
Gli ultimi 30 giorni vissuti come un incubo, con la consapevolezza che il marito le avrebbe sparato. Alle amiche: se succederà il bimbo deve andare alla mia famiglia»
La consapevolezza di una specie di «condanna a morte». Un incubo durato almeno trenta giorni. Tanto da dire alle amiche, le uniche con le quali trova il coraggio di confidarsi: se mi uccide non lasciategli mio figlio. Negli atti giudiziari quel femminicidio è definito così. «Atto finale». Sono le parole con cui Francesco Rosi, agente immobiliare di 43 anni, avverte – ma è meglio dire minaccia – la moglie Raffaella Presta, avvocato penalista di 40, circa un mese prima di ammazzarla, il 25 novembre dello scorso anno nella loro abitazione a Perugia, sparandole due colpi con un fucile da caccia. Un Beretta 12 solitamente usato per la caccia a i cinghiali. La donna manifesta all’uomo l’intenzione di lasciarlo. Lui chiarisce: se lo fai commetto «l’atto finale», alludendo inequivocabilmente – scrive il giudice del Riesame che ha riconfermato l’arresto in carcere – all’omicidio.
«Consapevolezza di potere essere ammazzata» Quel che emerge dalle carte dell’inchiesta è il resoconto dell’ultimo mese di vita, un inferno continuo, di Raffaella, mamma di un bimbo di sei anni «testimone del delitto», picchiata più volte regolarmente dalla metà del 2014, da quando aveva annunciato di avere un’altra relazione. E che da fine ottobre aveva maturato la certezza che l’unione con il marito avrebbe avuto un epilogo drammatico.
Tanto da lasciare alle amiche una specie di «ultime volontà» riguardanti il piccolo: «la consapevolezza di poter essere ammazzata era oramai talmente forte», scrive il Riesame raccontando quel colloquio con le uniche confidenti, per cui Raffaella aveva stabilito che, «in caso di morte, il figlio venisse affidato alla sua famiglia di origine».
Sono molte le testimonianze delle colleghe di lavoro e delle amiche che descrivono l’avvocata «succube» e «terrorizzata» dal marito. Inutili, i suggerimenti di denunciare le botte, «inflitte anche davanti al bambino». «Non ti intromettere, sennò quello mi ammazza» aveva sillabato a Marisa Marmottini, la titolare, assieme al fratello Marco, dello studio legale dove Raffaella aveva lavorato sino a giugno. Sino a quando il marito glielo aveva proibito. Non diversa la supplica a un’ altra amica (siamo a pochi giorni dal delitto) che si offre di aiutarla dopo averla vista con i lividi sul braccio e avere saputo di pugni in fronte e occhi neri. «Non ti mettere in mezzo, quello fa una strage». Senza contare quel selfie, dopo l’ennesimo pestaggio, indirizzato alle amiche, al fratello e al compagno. Accompagnato da queste parole: «Incidente domestico, diciamo».
L’investigatore privato pagato «una montagna di soldi» Il marito, peraltro, l’aveva sottoposta a una specie di ossessivo regime di sorveglianza dopo aver scoperto che la moglie aveva un’altra storia, nel dicembre 2014. Da qui in poi botte continue.
L’investigatore privato pagato «una montagna di soldi» per pedinarla. Rosi entra in possesso della «prova certa»: messaggi whatsapp, i filmati degli incontri. Le prende le chiavi della macchina, la obbliga a seguirlo ovunque. A fine ottobre le dice chiaramente – ma le parole dovrebbero essere state ribadite anche 24 ore prima del delitto -che non avrebbe mai accettato la separazione. Piuttosto «l’atto finale». O anche «l’estremo gesto». Farla fuori, appunto.
Lunedì i carabinieri del Ris (la «scientifica» dell’Arma) hanno svolto accertamenti balistici sul fucile usato da Rosi per uccidere la moglie. Raffaella è stata ammazzata con due colpi. Ma nella stanza è stata trovata una sola cartuccia. L’ipotesi degli avvocati che assistono i familiari della donna (tra cui Marco Brusco) è che il marito, che custodiva l’arma sotto al letto, abbia sparato una prima volta. Poi avrebbe estratto il bossolo, ricaricato l’arma e fatto fuoco la seconda volta mentre la moglie era già china, agonizzante. Un’operazione, questa della ricarica, per cui un cacciatore esperto impiega quattro o cinque secondi.
(«Mio figlio? È la luce dei miei occhi». Lo ha detto Francesco Rosi ai carabinieri. Ma ha anche scandito altre parole riportate a verbale e che sarebbero state pronunciate dalla moglie, scatenando la tragedia: il bimbo «non è figlio tuo». Dopo averle udite, Rosi – è lui stesso ad averlo ammesso – avrebbe sparato. Dubbiosi in proposito, i giudici del Riesame: la donna aveva ben chiaro che nel pronunciare questa frase avrebbe firmato la sua condanna. Quanto al marito, lui più volte successivamente a verbale ha dichiarato che quel piccolo «è la luce dei miei occhi». Parole che non hanno impedito ai suoi difensori di presentare, a tre giorni dell’uccisione della mamma, una traccia biologica , un tampone buccale, per la quale «viene escluso che Francesco Rosi sia il padre del piccolo Filippo». Documento non accolto dal Riesame: intanto perché «strappato» da «imprecisati» familiari dell’uomo, senza il consenso dal minore, consenso che sarebbe dovuto venire dal padre in «insanabile conflitto di interesse». Ma poi il punto, chiariscono i giudici, non è stabilire se il piccolo sia «figlio naturale del padre». Semmai è quello di chiarire se Raffaella «abbia pronunciato o meno» quella frase. Che peraltro – vera o no – non contribuisce a «sminuire» la «pericolosità sociale dell’indagato»)