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Rachida Rida, 35 anni, mamma. Uccisa a martellate dal marito

Sorbolo Levante di Brescello (Reggio Emilia), 19 Novembre 2011

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Titoli & Articoli

Rachida era pronta a una conversione (Gazzetta di Reggio – 24 novembre 2011)
S’indaga sui contatti con la parrocchia per capire se il marito ha ucciso non per gelosia ma per motivi religiosi
I primi esiti dell’autopsia effettuata ieri– a Modena – aggravano la posizione del marocchino 39enne Mohamed El Ayani (difeso dal legale Noris Bucchi), perché gli accertamenti medico-legali dicono che avrebbe infierito non poco sulla moglie Rachida Rida, arrivando a colpirla con il martello da cucina con oltre dieci colpi, sfondandole il cranio. Un responso autoptico (quello definitivo verrà depositato dai medici Maria Cristina Cuoghi ed Erian Radeski) che dà contorni ancora più agghiaccianti all’aggravante della crudeltà già contestata dal pm Luciano Padula all’omicida che, invece, nella confessione avrebbe parlato di solo due martellate alla moglie poi morta sul pavimento della cucina-tinello della mansarda …
Ma come sta emergendo in questi giorni, i riscontri degli inquirenti sulla confessione dell’uxoricida stanno prendendo diverse strade. E una pista interessante si starebbe concentrando su un cammino verso la conversione al cattolicesimo che potrebbe aver contrassegnato l’ultimo periodo di vita della vittima, apertasi al modo di vivere all’occidentale (non solo per sè ma anche per le due figlie) ed entrata in contatto con la parrocchia brescellese nel contesto di una solidarietà toccata con mano per la sua famiglia che certamente non navigava in buone acque economiche. Contatti con la parrocchia che potrebbero spiegare l’arrivo sul luogo del delitto del parroco don Giovanni Davoli poco dopo che la tragica notizia si era sparsa in paese. Una pista investigativa ancora in essere che, se provata, cambierebbe anche gli scenari del movente. Sin dal primo momento il marito ha sostenuto di aver ucciso la moglie perché accecato dalla gelosia, roso dal sospetto che lei avesse un altro e volesse la separazione proprio per iniziare un nuovo rapporto. E se, invece, El Ayani ha agito perché non accettava che la moglie volesse abbracciare una nuova religione, da quella musulmana alla cattolica?
Dubbi anche sul ruolo della figlia di 4 anni: ha assistito all’omicidio della madre (come sembrano indicare le macchie di sangue sul pigiamino) o non si è accorta d nulla perché era al piano di sopra (come sostiene il padre)? Una confessione, quindi, che lascia scettici gli investigatori, come ha confermato ieri il procuratore capo Giorgio Grandinetti nel consueto incontro settimanale con i cronisti.
Il numero uno della procura ha elogiato il lavoro del pm Padula per poi specificare alcuni aspetti dell’indagine: «Se la bimba è stata effettivamente presente al delitto, ciò inciderà sulla valutazione della personalità dell’omicida. Va capito se la cultura araba ha pesato in questa storia e andrà sentita anche la figlia maggiore per ricostruire meglio il contesto familiare. So che El Ayani, messo alle strette, ha un po’ tentennato».

 

Va in parrocchia, il marito la uccide (Corriere della Sera – 26 novembre 2011)
Reggio Emilia, marocchina presa a martellate. Si stava convertendo e separando
Nella mano sinistra stringeva l’atto di separazione chiesto dalla moglie Rachida alle autorità marocchine: il grande affronto. Nella destra, il martello: la punizione. Uno, due, tre, dieci colpi per spezzare quella donna che gli stava sfuggendo, che «voleva cambiare vita», che aveva smesso di portare il velo, si sforzava di parlare italiano, frequentava altre mamme e aveva trovato negli ambienti della parrocchia, tra i volontari della Caritas e il gruppo ricreativo per i bambini, aiuto, solidarietà e parole nuove.
Intollerabile per Mohamed El Ayani, 39 anni, figlio del profondo Marocco, musulmano osservante, la famiglia vissuta come una proprietà. La sola idea che qualche amico potesse irriderlo per le frequentazioni cattoliche della sua donna ha spento anche l’ultima luce nella mente dell’uomo, che ha colpito Rachida Radi, 35 anni, fino a sfondarle il cranio. «Voleva lasciarmi…» ha poi biascicato in uno sdrucciolevole italiano ai carabinieri, ai quali si è presentato un’ora dopo, insanguinato e con in braccio la figlia piccola di 4 anni, che probabilmente ha assistito al delitto, è il sospetto degli inquirenti, anche se l’omicida confusamente nega. Rachida è rimasta nel soggiorno di via Manzoni, in un lago di sangue: e solo per caso la figlia grande di 11 anni, che rientrava da scuola, non si è imbattuta in quel cadavere deturpato. Non è molto importante a questo punto sapere se El Ayani, a 7 giorni da quel delitto che ha fatto piangere Sorbolo Levante, frazione di Brescello, terra di Po, pioppeti, Peppone e don Camillo, sia pentito o abbia la minima coscienza dell’orrore commesso.
È Rachida, solo lei, che ci interessa. Il suo martirio. Il suo sogno spezzato. Ennesimo volto di quella guerra troppo spesso dimenticata, e dove le vittime sono sempre e solo da una parte, che ha fatto ieri da sfondo alla Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, a firma delle Nazioni Unite. Donne immigrate che pagano con la vita il tentativo di sottrarsi al giogo medievale di mariti e parenti. El Ayani, come decine di altri padri padroni, è un uomo che non aveva capito niente. Non aveva capito che Rachida, anche se tutte le notti si coricava al suo fianco, lo aveva lasciato da un pezzo. Non aveva capito che lui e la moglie erano due lontanissimi pianeti sotto lo stesso tetto.
Lui, un lavoro in un’impresa di pulizie a Parma, pochi amici e nessuna frequentazione a Sorbolo Levante. Era arrivato in Italia nel ’95. Schivo, silenzioso, incapace di fronteggiare la voglia di autonomia della moglie e della figlia più grande. Lei, l’esatto contrario. «Aveva una grande voglia di integrarsi» racconta il sindaco, Giuseppe Vezzani. Per arrotondare il bilancio domestico, faceva lavoretti per la parrocchia, ma, più che i pacchi dono che ogni tanto riceveva, a Rachida interessava conoscere persone nuove. «La sua vita con il marito era diventata un inferno, spesso lui alzava le mani: lei non l’ha mai denunciato, ma l’estate scorsa, approfittando di un viaggio in Marocco, aveva avviato le pratiche per la separazione» raccontano alcuni volontari di un’associazione cattolica. Parlare di conversione, non è tecnicamente esatto. Quello di Rachida, come spiega chi la frequentava, «si configurava come un graduale percorso verso un mondo e una fede completamente nuovi».
Il giorno della mattanza, il parroco di Brescello, don Giovanni, è stato tra i primi a precipitarsi nella casa di via Manzoni. Impietrito davanti a quel sangue, si è messo a pregare. E la sera, in chiesa, ha ricordato così Rachida: «Il nostro pensiero va a una giovane donna, che non è più davanti ai nostri occhi, ma davanti agli occhi di Dio». (di Francesco Alberti)

 

Rachida Rida, massacrata perché troppo integrata (Cultura Cattolica – 26 novembre 2011)
Rachida 35 anni veniva dal Marocco, aveva due figlie di quattro e undici anni e un marito che non accettava i suoi cambiamenti, i suoi sforzi per integrarsi, la sua voglia di indipendenza
Sorbolo Levante, frazione di Brescello – dici Brescello, e pensi ai film che qui sono stati girati con protagonisti Peppone e don Camillo, eterni rivali ma consapevoli ognuno di cosa davvero contasse nella vita di un uomo. Oggi Brescello è un paese con 5600 abitanti più del 10% sono immigrati, i turisti circolano per il centro a cercare i luoghi che hanno fatto da set ai film tratti dai libri di Giovannino Guareschi, al bar sotto i portici o sulle vie che portano al Museo del cinema, è chiaro che non tutti parlano brescellese.
Culture, lingue, tradizioni e abitudini differenti sono una ricchezza per tutti ma non tutti gli immigrati vedono la necessità di integrarsi e a pagare il prezzo maggiore di questa integrazione difficile e a volte negata, sono le donne che sovente sono quelle che a questa integrazione anelano.
L’ultima tragedia racconta un’altra storia di violenza su una donna, colpevole secondo suo marito di non voler più indossare il velo, di frequentare le mamme dei compagni di scuola di sua figlia, di svolgere piccoli lavori in parrocchia, colpevole di cercare di parlare italiano di aver tentato un’integrazione, primo passo per vivere in un paese straniero e crescere dei figli liberi.
Rachida 35 anni veniva dal Marocco, aveva due figlie di quattro e undici anni e un marito che non accettava i suoi cambiamenti, i suoi sforzi per integrarsi in quel paese dove aveva trovato delle amiche, una speranza per il futuro e per le sue figlie. A suo marito, Mohamed El Ayani, 39 anni, a Brescello dal 1995, sembrava eccessivo il cambiamento che vedeva in sua moglie, gli sembrava sconveniente per un mussulmano avere una moglie che lavora o frequenta il centro ricreativo parrocchiale. Forse gli è parso di perdere autorevolezza, ha temuto le critiche dei compaesani, chissà cosa scatta nella testa di un uomo che si sente padrone della vita della moglie. Quella non era certo la moglie sottomessa che un mussulmano osservante deve avere con sé, quella moglie che esasperata aveva deciso di chiedere la separazione, gli è sembrata un affronto da lavare col sangue.
Così dopo innumerevoli liti, Mohamed El Ayani, ha preso un martello e ha fracassato la testa di sua moglie, poi ha preso in braccio la bimba di quattro anni ed è andato a costituirsi, pare che ai carabinieri abbia detto “Voleva lasciarmi”. Ora il corpo di Rachida giace all’obitorio e nessuno ne ha ancora reclamata la salma per la sepoltura.
Rachida è un’altra donna vittima non di un paese inospitale ma di uomini che non ne vogliono sapere di guardare al paese che li ha accolti, che ha dato loro un lavoro, una speranza, un’occasione di cambiamento e di integrazione per loro e per i loro figli e le loro donne.
Ve le ricordate: Hina Saleem a Brescia, Sanaa Dafani a Pordenone, Begm Shnez a Modena, donne la cui storia racconta di un’opportunità che le donne colgono e che scatena negli uomini la rabbia che li porta all’omicidio. La convivenza tra persone “diverse” per origine e cultura non è sempre facile, ma queste storie raccontano di come la difficoltà più grande è quella che le donne vivono all’interno della loro famiglia. Non basta che la scuola accolga i figli degli immigrati, che si organizzino corsi di lingua italiana per stranieri, che si cerchi in di mediare tra culture diverse, che si educhi all’accoglienza, queste donne sono per assurdo vittime di un’integrazione che c’era o che cominciava a esserci. (di Nerella Buggio)

 

Rachida, “Pronti a farci carico del trasferimento della salma” (ilResto del Carlino – 28 novembre 2011)
Acmid, l’Associazione donne marocchine in Italia, e’ pronta a farsi carico del trasferimento in patria della salma e delle esequie di Rachida, la marocchina di 35 anni uccisa il 19 novembre a Sorbolo Levante, nel Reggiano, dal marito a colpi di martello. Lo ha fatto sapere la parlamentare Pdl Souad Sbai, fondatrice e presidente di Acmid.
L’associazione ha avviato le pratiche per chiedere la costituzione di parte civile e Sbai ha voluto smentire il disinteresse dell’associazione e della famiglia sulla vicenda: ‘’I genitori attendono ancora in Marocco il visto per l’Italia e per riavere la salma della figlia. Su questo invitiamo il Ministero degli Esteri ad adoperarsi affinche’ questa procedura vada in porto al piu’ presto’’.
La parlamentare ha criticato il modo in cui questa tragica storia e’ stata riportata dai mezzi di informazione, aggiungendo che il percorso di conversione di Rachida alla religione cattolica, indicata come causa dell’uxoricidio, ‘’a noi peraltro non risulta’’. Non ci si rende conto, ha spiegato la presidente Acim, che parlando di conversione si mettono a rischio di vita anche le figlie e i familiari.
‘’Rachida – ha concluso – e’ una donna che, come altre, ha sperimentato sulla propria pelle l’estremismo domestico solo perche’ reclamava in silenzio il suo diritto ad esistere e ad integrarsi. La sua memoria merita non questo indegno balletto di notizie, ma una giusta informazione di fronte alla dignita’ di una donna che ha avuto il coraggio di sfidare a viso aperto la violenza di un marito estremista’’.
Da quanto si e’ appreso, i primi risultati dell’autopsia rivelano che il marito, Mohammed El Ayani, ha infierito sulla donna con una decina di martellatesfondandole il cranio. Sabato la figlia maggiore, 11 anni, e’ tornata a scuola per la prima volta dopo la tragedia. Resta affidata a una famiglia del paese, in attesa di una decisione definitiva dei servizi sociali, come la sorella di quattro anni che era in casa quando il padre le ha ucciso la madre. Con lei in braccio El Ayani ando’ poi a costituirsi ai carabinieri.

 

 


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In memoria di

Souad Sbai: “Al via processo Rachida Rida, morta per apostasia” (ACMID Donna Onlus – 15 maggio 2018)
“Oggi si apre il processo per la morte di Rachida Rida, giovane marocchina di Brescello uccisa a martellate nel novembre del 2011 dal marito, perché si era avvicinata al cristianesimo e alla comunità cristiana locale. Fatto storico, perché per la prima volta alla sbarra va la morte per apostasia”.
Con queste parole Souad Sbai, presidente di Acmid Donna Onlus parte civile al processo, commenta l’udienza che vede imputato Mohammed El Ayani, marito di Rachida Rida, uccisa a Brescello perché avvicinatasi al cristianesimo.
“Questo processo ha un valore storico e civile enorme, perché finalmente emerge in tutto e per tutto la condizione di clandestinità forzata dei convertiti al cristianesimo, obbligati a rimanere in silenzio, nelle catacombe, come i primi cristiani durante le persecuzioni nella Roma imperiale. Nessuno fra le femministe pluri-latitanti e le associazioni per i diritti – attacca Sbai – ha avuto il coraggio di presentarsi parte civile o di fare rumore su questa vicenda, in cui una donna paga con la vita l’aver voluto cambiare strada, uscire dalla segregazione e trovare la vita. Rachida, come tutti i convertiti al cristianesimo nel Paese in cui chi fa il viaggio contrario è una star, ha sofferto ed è morta da sola, ma avrà giustizia e spero – conclude – che anche chi in Occidente parla di islamically correct a tutti i costi, capisca una volta per tutte di quali bestialità si rende complice. Per le comunità che ancora non accettano che la libertà religiosa in Italia è tutelata costituzionalmente, spero che questo processo sia esemplare”.

 

Rachida, il coraggio di una convertita (dimenticata) (La nuova Bussola Quotidiana – 21 novembre 2020)
Il 19 novembre di nove anni fa veniva uccisa a colpi di martellate la marocchina Rachida Radi, “colpevole” per il marito Mohamed di voler essere libera e di essersi avvicinata al cristianesimo. Oggi, dopo che all’interno della stessa comunità cristiana si fa finta che non sia mai esistita, bisognerebbe tutelarne la dignità e ricordarla non come un’apostata dell’islam bensì quale Serva di Dio.
Sono trascorsi nove lunghissimi anni da quel terribile 19 novembre del 2011, in cui un vile “marito”, se così può dirsi, ha posto fine alle sofferenze di sua moglie, privando della madre le sue due bambine di 4 e 11 anni. Dopo anni di torture fisiche e mentali, la giovane marocchina Rachida Radi veniva uccisa dal suo vile carnefice a colpi di martellate nella loro casa a Sorbolo Levante, la frazione di Brescello in cui i due vivevano.
Oggi Mohamed El Ayani sta giustamente scontando la sua pena, ma è qui che la giustizia finisce, perché quella di Rachida è una ferita ancora aperta che fatica a rimarginarsi. Negli anni ho tentato di omaggiarne la memoria ogni volta ne avessi l’opportunità, affinché altre donne non subissero le stesse violenze che ha patito lei. La storia, purtroppo, ci ha insegnato ben altro, e Rachida è solo una delle tante vittime di un estremismo islamista fomentato, come sempre, dall’ignoranza.
Nove anni fa Rachida di anni ne aveva solo 35. Era stata considerata colpevole da suo marito per essersi ribellata ai maltrattamenti che subiva quasi quotidianamente e aver avviato le pratiche per la separazione. Colpevole di voler finalmente condurre una vita normale. Colpevole di voler essere libera. E colpevole, neanche a dirlo, di essersi avvicinata al cristianesimo, nel quale aveva sempre trovato un rifugio sicuro alle sue continue umiliazioni.
Chi l’ha conosciuta la descrive come una persona gentile, dal sorriso grande e buono, che aveva fatto della dignità la migliore arma per educare le sue bambine. Da qualche tempo Rachida aveva smesso di portare il velo, si sforzava di parlare in italiano, aveva iniziato a frequentare la parrocchia del paese e faceva le pulizie in chiesa per poter essere libera di pregare. Una conversione al cristianesimo che non poteva andare giù a un uomo accecato dall’odiosa ortodossia radicalista, che si sentiva minacciato da un eventuale allontanamento della moglie, un fardello impossibile da sopportare. Per non parlare del giudizio a cui sarebbe stato sottoposto dalla comunità del paese per cui mariti, padri e fratelli debbono trasformarsi in inquisitori algidi nell’eseguire la propria sentenza. Che in questi casi, si sa, punisce con la morte.
Rachida è morta per condurre un’esistenza migliore, per dare un futuro migliore alle sue figlie e per salvaguardare il suo credo, i cui membri, al contrario, non hanno tutelato lei. Oltre al danno la beffa. Non bastava vedersi spezzati i propri sogni, Rachida ha dovuto impiegare ben 50 giorni per trovare una degna sepoltura perché il suo corpo non lo voleva nessuno, nemmeno la comunità cristiana.
Rachida, che considero alla stregua di una martire, merita quantomeno di essere rievocata per il suo coraggio e la sua forza di volontà nel voler combattere per la libertà. Mi preme ricordare però il conto aperto con quel cristianesimo che avrebbe potuto e dovuto tutelarne la dignità almeno da morta. E che, invece, fa finta che non sia mai esistita e lascia che sia ricordata per essere un’apostata e non una Serva di Dio. Lei che, per amore della Chiesa, ha pagato con la sua vita.

 

Ricordo di Rachida, uccisa perché voleva separarsi (il Resto del Carlino – 27 novembre 2020)
Aveva 35 anni e si era ribellata ai maltrattamenti, il marito ora è in carcere. Nel parco a lei dedicato un gruppo di cittadini si è ritrovato in raccoglimento

 

Commemorata Rachida Rida uccisa dal marito dieci anni fa (Gazzetta di Reggio – 21 novembre 2021)
Sono passati 10 anni da quel freddo pomeriggio del 19 novembre 2011, quando in una palazzina di Sorbolo Levante la 34enne Rachida Rida venne uccisa dal marito Mohamed El Ayani. Per ricordare quella tragica circostanza, ieri mattina il Comune di Brescello ha organizzato un breve momento in ricordo della vittima all’interno del parco a lei intitolato, in viottolo dei Bacchi. Qui, la sindaca Elena Benassi ha ricordato la figura della donna rivolgendo un pensiero a lei, alle sue due figlie e ai genitori che in questi anni «hanno dovuto affrontare un vuoto incolmabile». In particolare, la sindaca ha sottolineato quanto la cronaca locale, purtroppo, sia in questi giorni caratterizzata da episodi di violenza a carico di donne, e di quanto sia necessario mettere un freno a questo fenomeno attraverso azioni in ambito culturale e sociale. A seguire, dopo un minuto di silenzio, tre toccanti canzoni interpretate da Gioia Isram, studentessa universitaria brescellese cresciuta nella scuola di musica locale.
La vicenda di Rachida destò sin da subito grande sconcerto e commozione. Erano le 13.30 del 19 novembre 2011 quando Mohamed El Ayani, 39 anni, si presentò ai carabinieri di Poviglio con la figlia di 4 anni in braccio, ancora macchiato di sangue. «Ho appena ucciso mia moglie a martellate», confessò ai militari increduli. Nemmeno un’ora prima, in un bilocale di via Manzoni – a Sorbolo a Levante – il facchino marocchino uccise a martellate la moglie, che voleva separarsi e ricominciare una nuova vita con le due figlie di 4 e 10 anni. La ammazzò sotto gli occhi impauriti della figlia più piccola, mentre l’altra era a scuola. Poi, con calma, prese in braccio la bimba e con la sua auto si diresse verso Poviglio.
Le indagini accertarono che l’uomo scatenò la propria ira nei confronti della moglie in quanto lei aveva intrapreso un percorso di conversione al cristianesimo e voleva lasciarlo. La donna era una figura conosciuta e benvoluta nella frazione brescellese, dove aveva iniziato a frequentare il centro sociale.