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Maria Luisa De Cia, 28 anni, impiegata. Immobilizzata, imbavagliata con del nastro adesivo, la testa infilata in un sacchetto di plastica, denudata, violentata, seviziata e uccisa con un colpo di arma da fuoco alla tempia

San Martino di Castrozza (Trento), 16 Agosto 1990

 


Titoli & Articoli

“L’assassino è un amico”: un testimone ha visto l’uomo che era con lei (la Repubblica – 21 agosto 1990)
SAN MARTINO DI CASTROZZA La ragazza violentata e uccisa sulle Dolomiti conosceva il suo assassino. Forse un amico, forse un conoscente, comunque qualcuno di cui la giovane si fidava, col quale, passeggiando tra i boschi, si era avventurata fuori dal sentiero battuto. Qualcuno che all’ improvviso, per motivi che non sono ancora stati chiariti, le è saltato addosso, le ha legato i polsi, l’ ha imbavagliata con del nastro adesivo nero, l’ ha violentata e poi le ha sparato a bruciapelo, un colpo secco alla tempia sinistra, uccidendola sul colpo. E’ questa l’ ipotesi, sul delitto delle Dolomiti, che il sostituto procuratore della Repubblica di Trento, Giovanni Kessler, sembra intenzionato a percorrere con maggior insistenza.
Non a caso il magistrato ha interrogato almeno una dozzina di amici della vittima Maria Luisa De Cia, un’ impiegata ventottenne di Cornuda (Treviso) e ha disposto una serie di accertamenti sui nominativi di varie persone, alcune delle quali straniere, trovati nello zainetto che la ragazza aveva con sé quando è stata aggredita, giovedì scorso, lungo il sentiero 713 che porta al rifugio Velo della Madonna a 2358 metri d’ altezza. I carabinieri vanno su e giù per il sentiero mostrando la foto della ragazza ai turisti in vacanza.
Ci sarebbero testimoni che avrebbero visto la giovane impiegata in compagnia di un uomo sulle Pale di San Martino lo stesso giorno in cui venne assassinata. L’ ipotesi di un delitto premeditato, ad opera di un amico o di un conoscente delle vittima, viene avvalorata anche dagli amici della ragazza. Maria Luisa non si sarebbe mai avventurata fuori dal sentiero con un estraneo hanno detto al magistrato.
Contrasta però con questa tesi la macabra messinscena organizzata dall’ assassino-violentatore sul luogo del delitto: prima ha preparato una sorta di giaciglio sull’ erba usando i vestiti della ragazza, poi vi ha disteso sopra il corpo nudo della giovane, le ha aperto le gambe, e sul pube ha appoggiato la tuta verde che Maria Luisa indossava. Negli alberghi della vallata non si parla d’ altro che del giallo di Malga Civertaghe dal nome del posto più vicino lungo il sentiero e prende forma la figura del mostro delle Dolomiti.
Così, per evitare il maniaco dei sentieri, molti rinunciano alle passeggiate nei boschi o lontano dai percorsi battuti, e le ragazze non escono più da sole.
Gli inquirenti, però, non danno alcun credito alla tesi del mostro o del maniaco, e fanno capire che la chiave del delitto va cercata nella vita privata, o comunque nel passato, della ragazza. Anche qui però non si cava un ragno dal buco. Maria Luisa De Cia era fidanzata con un procuratore legale di Pordenone, Mauro Bozzetto, 30 anni. E’ l’ ultima persona che ha parlato con la ragazza. Le avevo telefonato mercoledì sera ha spiegato era felice di sentirmi, e siamo rimasti mezz’ ora al telefono…. Gli inquirenti ora lavorano sull’ unica traccia lasciata dall’ assassino: il suo sperma. Con l’ esame del DNA, che in altri casi si è rivelato decisivo, sperano di risalire al misterioso omicida.

 


 

 

Un cadavere nel bosco: il delitto irrisolto di Maria Luisa De Cia
Le prime notizie del suo ritrovamento arrivano nella serata del 17 agosto 1990: il corpo sarebbe stato rinvenuto nel tardo pomeriggio da un gruppo di escursionisti nei boschi di San Martino di Castrozza, in Trentino. La vittima, Maria Luisa De Cia, 29 anni, si era allontanata da casa il giorno prima, con l’intenzione di raggiungere il rifugio Velo della Madonna. Ma è andata diversamente: il suo cadavere è nudo dalla cintola in giù. La bocca imbavagliata con nastro adesivo. Qualcuno le ha fracassato il cranio e lo ha avvolto in un sacco di plastica per i rifiuti. Le notizie riferiscono che avrebbe subito una violenza sessuale.
Il mistero. A casa dei suoi, a Sovramonte, aveva lasciato un biglietto in cui spiegava di voler raggiungere il Primiero. È così che padre e fratello si sono messi sulle sue tracce, accompagnate dai vicini. Prima ne hanno trovato la Panda, parcheggiata ai margini della strada, con dentro il sacco a pelo. Poi, sul sentiero che porta a Malga Zivertaghe, i vicini di casa hanno scovato lei. Indaga il sostituto procuratore della Repubblica di Trento Giovanni Kessler.
Chi era Maria Luisa De Cia? Perché è stata uccisa? Diplomata in ragioneria e iscritta alla facoltà di scienze politiche all’università di Padova, abitava a Cornuda, Treviso, e lavorava in un’azienda dalle stessa cittadina. A Sovramonte era arrivata da poco per trascorrere le vacanze, che sarebbero terminate il 26 agosto. Ha conosciuto qualcuno? C’è qualcuno che la voleva morta? Le domande di giorno in giorno aumentano, perché non si ha la minima traccia da cui partire. Sembra sia stata uccisa da un colpo di pistola di piccolo calibro sparato a bruciapelo sulla tempia sinistra: così riporta il referto autoptico del professor Carlo Crestani, dell’università di Padova. C’è altro: il corpo non presenta segni di sevizie. E potrebbe essere morta 24 ore prima del ritrovamento. La Procura sente amici e conoscenti. Non è escluso che il delitto possa essere stato compiuto da un escursionista che ha perso la testa. Chissà.
Vicolo cieco. Si scava nella vita privata e nel passato della donna. Gli inquirenti provano a ricostruirne spostamenti e incontri delle ultime ore di vita. Mostrano la sua carta d’identità anche ai turisti, nella speranza che qualcuno di loro l’abbia vista in giro. Forniscono anche un identikit: altezza 1,77 metri, occhiali da vista con montatura dorata, abiti sportivi. Indossava tuta verde scuro con una scritta viola sula casacca. Portava giacca a vento leggera di colore azzurro e fregi chiari. E un maglione marrone, blu e beige.
Tra le segnalazioni c’è chi rammenta vagamente di averla vista in compagnia di un uomo nei giorni precedenti il delitto in un bar di Ponte Oltra, Belluno. Ma serve a poco. La nebbia sul caso si fa sempre più fitta. E per un anno le indagini ristagnano. Si arriva all’agosto 1991. E si viene a sapere che il sostituto procuratore Kessler deve partire per Monaco di Baviera per incontrare alcuni conoscenti di Maria Luisa. «Sarebbe un peccato  – dice il magistrato –  dopo tutte queste indagini e i controlli effettuati in Italia, archiviare il caso senza verificare se qualche indizio possa emergere nelle amicizie che Maria Luisa De Cia aveva fatto anni fa durante un soggiorno di un anno e mezzo in Germania». Invece sviluppi non ce ne sono.
A marzo del 1993 la Procura ottiene l’archiviazione del caso: non ci sono elementi per proseguire l’indagine. Certo, c’è un fatto curioso che qualcuno associa: Maria Luisa conosceva Wanda Fior, di Caerano San Marco, altra vittima di un omicidio irrisolto. Ma è troppo poco. E non sembrano esistere collegamenti tra i due delitti.
Passa un anno e pare possa nascere una collaborazione tra le procure di Trento e Belluno per la risoluzione della vicenda. Ma non si viene, nemmeno stavolta, a capo di nulla. Si deve così attendere il 2010 per veder riaprire il caso: che le nuove tecnologie siano in grado di rianalizzare i vecchi reperti e trovare tracce mai notate prima? È la speranza. Si arriva ad un indagato su cui peserebbero sette indizi: si tratta di un cacciatore sessantenne residente nel montebellunese, conoscente di Maria Luisa, proprietario di una baita non distante dalla scena del crimine. Ma presto anche lui sparisce dalla lista dei sospettati. Il problema è che i reperti del delitto, compresi i vestiti della vittima e il nastro usato per imbavagliarla, sono stati distrutti. La corsa è tutta in salita. Una salita troppo ripida. Il caso finisce ancora archiviato. È il 2011. L’omicidio di Maria Luisa De Cia è tuttora irrisolto.


Omicidio De Cia, richiesta archiviazione

La squadra mobile di Trento è sicura di aver individuato il colpevole, ma la mancanza di prove farà sì che tutto finisca in nulla, complice anche la distruzione dei reperti.
Si tratta di un omicidio di 21 anni fa, quello di Maria Luisa De Cia, trovata uccisa tra i boschi del Primiero il 16 agosto 1990. La donna, originaria di Sovramonte e residente a Cornuda, aveva allora 28 anni. Il caso era già stato archiviato nel 1993. Era stato riaperto l’autunno scorso ma ora si va verso una nuova archiviazione, chiesta dal pubblico ministero Davide Ognibene perché «non sono emerse fonti di prova sufficienti per sostenere l’azione penale». E questo nonostante la squadra mobile sia convinta di aver individuato il presunto responsabile. Ma manca una prova da portare in tribunale a sostenere l’accusa, mancano i reperti su cui ora sarebbe possibile effettuare la prova del dna, perché sono stati distrutti.
Ma chi sarebbe? Secondo la squadra mobile di Trento tutto porterebbe ad un montebellunese, allora quarantenne, proprietario di una baita vicina al luogo del delitto. Oggi ha 61 anni, probabilmente anche lui toccato dalla crisi economica e quindi non più sulla cresta dell’onda. Hanno perquisito baita e casa, alla ricerca di un pezzo di nastro adesivo uguale a quello messo sulla bocca della povera ragazza quell’agosto di 21 anni fa, ma non è stato trovato alcunché.
Ma perché gli inquirenti della squadra mobile si sono indirizzati su di lui? La descrizione che ne viene fatta è di una persona sensibile alle grazie femminili, abile nella manualità, tanto da fabbricarsi armi e pallottole, proprietario di quella baita vicina al sentiero dove era passata la De Cia, spesso nei boschi a cacciare. E poi montebellunese e come tale, anche se lui ha negato quando è stato sentito, poteva conoscere la donna.
Anche l’arma utilizzata ha indirizzato i sospetti verso di lui: il cranio della De Cia era stato trapassato da un proiettile calibro 9 Flobert di fabbricazione artigianale sparato a bruciapelo e in casa dell’imprenditore era stato trovato un pentolino dove forgiare le ogive.  Ma alle convinzione degli inquirenti manca l’appoggio di una prova sostenibile in tribunale e quindi il pm ha chiesto l’archiviazione.
Maria Luisa De Cia, che lavorava a Cornuda, era andata in quei giorni nella casa dei suoi a Sorriva. Il 16 agosto era uscita di casa, aveva lasciato ai genitori un biglietto dove spiegava che andava verso San Martino e sarebbe tornata verso le 17. Invece non tornò più. Il giorno dopo aveva trovato il suo corpo un cantoniere, dietro uno sperone di roccia, l’assassino l’aveva lasciata seminuda, la testa dentro un sacchetto di plastica, la bocca chiusa da nastro adesivo. Un omicidio agghiacciante.

La ragazza punita: un delitto orribile, un assassino mai identificato

Primiero non dimentica Maria Luisa De Cìa uccisa in Trentino


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In memoria di

La storia di Maria Luisa, seviziata e uccisa dal killer dei boschi (FanPage – 10 aprile 2018)
È il giorno dopo ferragosto del 1990 quando Maria Luisa De Cia, 28 anni, decide di andare a fare una passeggiata in alta montagna da sola. L’indomani il suo corpo viene trovato nel verde, seminudo e con una ferita mortale alla tempia. La psicosi del maniaco dei boschi dilaga dei paesini del Trevigiano, ma la verità è un’altra.
“Esco a fare una passeggiata”. Maria Luisa De Cia, 28 anni, monta nella Fiat ‘Panda’ di colore rosso che usa di solito per andare a lavoro a Cornuda e sparisce per i sentieri di montagna che portano al Velo della Madonna. È il 16 agosto, quella è l’ultima vacanza da sola prima si sposarsi con il suo Mauro, 30 anni e un brillante futuro come procuratore legale.
L’aria sulle vette di San Martino è fresca, tanto che Maria Luisa è uscita in tuta, prevedendo forse di inerpicarsi lungo i verdi sentieri che attraversano le Dolomiti. Qualche ora dopo ancora non rientra e nella casa di villeggiatura della famiglia de Cia la preoccupazione è ancora cautamente moderata. Maria Luisa – che ha vissuto per un anno da sola in Germania – è una ragazza matura e indipendente e deve avere i suoi motivi per trattenersi fuori casa. Alla sera, però, l’allarme scatta.
L’indomani, venerdì 17 agosto 1990, un gruppo di escursionisti trova Maria Luisa nel bosco a pochi passi dal Velo della Madonna. Lo spettacolo è di quelli che fanno tremare vene e polsi: la ragazza è distesa priva di vita su un giaciglio fatto con i suoi vestiti. Nuda dalla vita in giù, ha un filo di nastro adesivo nero che le solca la faccia attraversandole la bocca. Sulla tempia sinistra, invece, un foro di un proiettile spiega cosa le è accaduto. È un’estate maledetta quella di San Martino di Castorazza, un’estate di sospetti e paure. In un primo momento, infatti, tra gli abitanti de paesini sulle montagne del Trentino si diffonde la voce che l’orrore del 16 agosto sia stato opera di un maniaco, il serial killer dei boschi, il mostro delle Domoliti.
Una strana telefonata. Solo dopo gli accertamenti disposti dal pm Giovanni Kessler, si arriva alla certezza che quella brutale aggressione non ha nulla di occasionale, ma è lucida, crudele e premeditata. Prima di essere freddata con un colpo di pistola, infatti, Maria Luisa è stata immobilizzata con una corda e messa a tacere con del nastro adesivo nero avvolto con tale precisione da presupporre necessariamente un’azione fredda e calcolata. È possibile che l’aggressore fosse uno, ma non è escluso che possa trattarsi di un branco. Eppure, negli inquirenti comincia a maturare il convincimento che Maria Luisa fosse andata consapevolmente all’appuntamento con il suo assassino, senza immaginare cosa sarebbe accaduto. Poche ore prima, infatti, Maria Luisa aveva risposto a una strana telefonata dall’apparecchio di casa, dicendo, alla presenza di suo padre: “Possiamo anche vederci”.
Una ragazza comune. Quando era Mauro a chiamarla, Maria Luisa era solita prendere in mano il telefono fisso trascicnandosi dietro il filo e ritirarsi a parlare nella sua stanza lontano dalle orecchie dei suoi: dunque, non era il suo fidanzato quello a cui aveva proposto un incontro. La vita di quella ragazza di provincia viene rivoltata come un calzino: amicizie, vecchi amori, perfino le conoscenze del periodo tedesco vengono passate al setaccio, ma tutti i possibili indiziati hanno un alibi.
L’identikit. Alcuni testimoni, però, dicono di aver intravisto un uomo a pochi passi dal luogo del delitto quel giorno e i tecnici della polizia riescono a farne un identikit. L’assassino ha un volto, il volto di un uomo non più giovanissimo, forse sulla quarantina. Un altro passo verso l’identità del killer è l’analisi dell’arma che ha sparato. Si tratta di una pistola modificata, probabilmente una scacciacani. Dunque, l’assassino, l’uomo che ha seviziato, spogliato e ucciso una ragazza di 28anni, è un cacciatore esperto, o un esperto di armi. Neanche questo elemento riesce a condurre a conclusione le indagini, il caso viene archiviato e la storia di Maria Luisa de Cia, la ragazza del bosco, diventa una specie di leggenda noir, finché, 21 anni dopo, qualcuno soffia via il velo di polvere dal fascicolo.
L’epilogo. Stavolta c’è un nome credibile ed è quello di un imprenditore locale, un uomo sorprendentemente somigliante all’identikit che ne fecero nel ’90 e che vive in una baita a pochi passi dal luogo dove Maria Luisa è stata trovata morta. Un personaggio descritto come uomo violento e sadico, in grado, peraltro, di modificare le armi come è suo hobby fare. A fare la differenza, stavolta, c’è il il test del DNA, che ha permesso di risolvere casi come quello dell’Olgiata e di Elisa Claps. La svolta è vicina, la Procura è convinta che quello sia il suo uomo, ma i test, eseguiti su campioni danneggiati dalla pioggia di quei giorni, danno esito negativo. Quello di Maria Luisa De Cia resta uno dei tanti delitti irrisolti degli anni Novanta.

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