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Maria Cristina Omes, 38 anni, assicuratrice, mamma. Uccisa a coltellate insieme ai due figli dal marito e padre che poi va a vedere la partita e quando rientra simula l’aggressione di rapinatori

Motta Visconti (Milano), 14 Giugno 2013

“Tu non mi rovini la vita” gli aveva detto lei, afferrandolo per il colletto, quando lui voleva mandare all’aria il matrimonio.

Giulia, 5 anni, e Gabriele, 20 mesi

Carlo Lissi, 31 anni, informatico, padre.  Carlo il represso.

 


Titoli & Articoli

La vicenda di Motta Visconti è una delle dieci+una Favole da Incubo contenute nel libro scritto da Roberta Bruzzone ed Emanuela Valente, con il titolo “L’Uomo nero che giocava a fare il papà”
Favole da Incubo 

L’amore sul divano, poi la strage E il grido di Cristina: «Perché?»
«VOGLIO il massimo della pena». Carlo Lissi china il capo e la sua, più che una confessione, è un fiume in piena, inarrestabile. Un fiume gonfio di orrore. L’informatico di Motta Visconti ha sterminato la sua famiglia, la moglie Maria Cristina Omes, i loro bambini, Giulia che in agosto avrebbe compiuto cinque anni, e Gabriele di 20 mesi. Li considerava un ostacolo fra sé e il suo essersi invaghito, di una collega della società di software di Assago dove lavorava: non corrisposto, dissuaso, respinto, non demordeva. Un movente assurdo, incredibile. Gli investigatori sono risaliti alla giovane donna dalla pagina Facebook dell’assassino. Davanti alla contestazione precisa di quell’innamoramento, l’assassino ha capitolato. DOPO avere massacrato la moglie, incurante delle sue invocazioni, l’ha lasciata morire per dissanguamento. Per i due bambini, un solo colpo di coltello alla gola. Ha simulato una rapina lasciando la cassaforte aperta e asportando il poco denaro e i gioielli che vi erano riposti. Dopo essersi lavato e rivestito, è uscito in auto per raggiungere la casa dell’amico C.C., dove un gruppo di una quindicina di persone si era dato appuntamento per la partita Italia-Inghilterra. Prima però si è fermato in via Mazzini e ha gettato in un tombino il coltello usato per massacrare la sua famiglia. Quando è rentrato ha chiesto aiuto ai vicini affacciandosi alla porta, ha telefonato al 113. Gridava «Sono venuti a rubare», si abbandonava a scene di disperazione. I soccorritori erano costretti a trattenerlo. Ultimo atto della sua fredda, incredibile messinscena.
LA SERATA di sabato scorre tranquilla nel villino monofamiliare al numero 20 di via Ungaretti. Sul divano del salotto, i coniugi si abbandonano a quello che sarà il loro ultimo atto d’amore. Carlo Lissi esce e raggiunge la cucina in slip. Il marito rientra, è alle sua spalle. Un colpo alla giugulare della donna. Poi dietro il collo e ancora all’addome. «No, perché?», grida Cristina, incredula, atterrita. Il suo «aiuto» viene raccolto dalla vicina Anna Buratti, nella cucina di casa. Sono le 22.50. Cristina tenta una reazione di difesa, di fuga. Il marito le sferra un pugno. La donna finisce a terra nell’androne dell’ingresso. Maria Cristina Omes muore dissanguata. Carlo Lissi sale dai suoi figli. Nella sua cameretta, Giulia è la prima a passare dal sonno alla morte. Gabriele viene ucciso mentre dorme nel letto matrimoniale. Carlo Lissi scende in cantina. Una doccia lo ripulisce del sangue.
Lissi racconta ai carabinieri di essere rincasato dopo la partita e di essersi spogliato nel garage per non disturbare i bambini. È salito in casa. Ha trovato il corpo martoriato della moglie, riversa in un lago di sangue. Ha aperto la porta invocando aiuto. Preso da un sospetto angoscioso, ha salito le scale, acceso le luci, apero porte. Si è accorto che anche i bambini erano stati uccisi. Si è rivestito e ha chiamato il 112.
Un racconto con troppe incogruenze. Lissi dice di essersi avvicinato alla moglie, immersa nel suo sangue, di averla toccata. Ma i suoi vestiti e la pantofole erano immacolati. Sul dietro degli slip, l’unico indumento che portava quando ha accoltellato la moglie, è invece rimasta una macchia di sangue di cui Lissi non si era accorto. Dopo avere scoperto che la sua famiglia era stata sterminata, Lissi ha avuto la forza e la freddezza per rivestirsi. Non c’è sangue sulle maniglie delle porte, sugli interruttori, sulla cassaforte. NON CI SONO effrazioni sulla porta d’ingresso e sulla casssaforte di cui solo marito e moglie conoscevano la combinazione. I portagioie sono stati aperti ordinatamente e il loro contenuto asportato. Gli armadi nella camerette dei bambini sono stati squadernati, mentre sono stati risparmiati locali dove si sarebbe potuto trovare qualche bottino. Un portafoglio non stato toccato. Davanti ai carabinieri, al procuratore Gustavo Cioppa e al pm Giovanni Benelli, Carlo Lissi si arrocca nella sua difesa. Ma quando gli mettono di fronte le prove di quell’amore non ricambiato, cede di schianto, confessa, fa ritrovare il coltello. Tranquillo, lineare. Come se la strage della sua famiglia riguardasse un altro.

Motta Visconti, il papà assassino: “Avevo già tradito mia moglie, non la sopportavo più”
Ha sterminato la famiglia e poi, prima di simulare l’azione di una banda di rapinatori, è andato a vedere la partita dei Mondiali Italia-Inghilterra con gli amici. Carlo Lissi, il papà di Motta Visconti che ha ammazzato la moglie Maria Cristina Omes e i figli Giulia di 5 anni e Gabriele 20 mesi, ha spiegato al giudice del Tribunale di Pavia, Luisella Perulli, durante l’udienza preliminare del processo che lo vede accusato del triplice omicidio, quella che era la sua ossessione: la collega di cui si era innamorato.
“Ho conosciuto Maria a marzo. Condivideva la mia passione per la moto, abbiamo iniziato a parlare, andavamo a pranzo insieme, la nostra intesa aumentava”, avrebbe detto Lussi secondo quanto riporta il Corriere. “Non abbiamo mai avuto rapporti sessuali, lei aveva una relazione e mi ha detto che non avrebbe mai tradito il partner. Ma io ho creduto che lei fosse il vero amore. Ho iniziato a pensare alla separazione, avevo visto che ci poteva essere il divorzio veloce, ho chiesto a due miei colleghi: uno mi aveva detto di avere dovuto affrontare qualche sacrificio economico e di avere perduto l’affetto dei figli per colpa della ex moglie”.
Innamorato alla follia – Lo scorso 28 febbraio Lussi aveva detto ai magistrati: “Avevo tanti pensieri, ma il mio fine era lei, avrei sopportato di stare da solo per qualche tempo con la prospettiva di attenderla. Pensavo a lei ogni momento libero. Non so se voi vi siate mai innamorati alla follia? Sentivo lo stomaco in subbuglio, attendevo sempre di vederla, pensavo a lei in continuazione. Volevo la separazione ma ero bloccato, preoccupato del giudizio dei miei genitori, dei parenti di lei, angosciato dal timore di una conflittualità in cui il rapporto con i figli ne avrebbe risentito”.
Lissi sostiene di non aver premeditato il delitto: “Mi consideravo un buon papà e un pessimo marito”, si legge nel verbale. Prima di conoscere Maria ho avuto altre due esperienze extraconiugali con colleghe”. La sera del delitto racconta d’aver parlato con la moglie: “Le ho detto che non ero felice, che mi ero innamorato di un’altra ragazza. Lei era incredula. Poi mi ha detto che mi odiava, che stavo rovinando una buona famiglia”. L’avvocato di Lissi ha depositato una perizia psichiatrica che parla di vizio parziale di mente e ha chiesto il rito abbreviato per il suo assistito.

Il mostro di Milano è il marito: ha ucciso moglie e figli per una collega. “Volevo tornare libero di rinnamorarmi”
E’ lui il mostro Carlo Lissi, 31 anni, è stato lui a uccidere la moglie, Cristina Omes, di 38 anni, e i suoi due figli Giulia e Gabriele, di 5 anni e di 20 mesi. L’uomo ha confessato ai carabinieri il triplice omicidio. Tutti e tre sono stati sgozzati e sui loro corpi sono state trovate numerose altre lesioni che non fanno escludere un accanimento. Lo hanno comunicato i carabinieri del Comando provinciale di Milano che conducono le indagini. Al fermo si è giunti dopo un lungo interrogatorio.
Nella conferenza stampa convocata al comando provinciale dei carabinieri a Milano, il procuratore capo di Pavia ha spiegato che la versione raccontata dal marito della donna si è presto rivelata carente, così come di è presto capito che quella della rapina è stata certamente una messa in scena. «Siamo andati alla ricerca del movente del delitto», ha spiegato, «e quando abbiamo fermato l’uomo, dopo vari interrogatori, è venuta fuori la sua passione, non corrisposta, per una collega. A quel punto è crollato e ci ha detto: “Voglio il massimo della pena”. Da lì in poi è stato un fiume in piena, ci ha raccontato tutto. Ci ha anche indicato il tombino dove aveva gettato l’arma del delitto, e lì l’abbiamo ritrovato». La confessione, hanno ribadito gli inquirenti, non è stata spontanea, ma gli elementi erano talmente tanti che l’uomo è stato “incastrato”.
La dinamica. Dopo essersi preso la testa fra le mani e aver invocato per sè il massimo della pena, Carlo Lissi, l’uomo fermato dai carabinieri per l’omicidio della moglie e dei due figli, a Motta Visconti (Milano) «si è come lasciato andare e da quel momento è stato un fiume in piena». A raccontarlo sono stati, nel corso di una conferenza stampa, il procuratore capo di Pavia Gustavo Cioppa e il comandante provinciale dei Carabinieri di Milano, Maurizio Stefanizzi. «Non c’è stato un raptus o un elemento scatenante – hanno aggiunto gli inquirenti – come una lite, o una brutta notizia: Lissi ha agito in modo lucido, nonostante il folle gesto». E mai l’uomo aveva dato adito a violenze in famiglia o a liti particolari con i conoscenti.
Sono circa le 23 quando Carlo e la moglie, Cristina, si trovano nel soggiorno della villa. I bambini dormono di sopra. I due hanno un rapporto sessuale, poi lei si adagia su un divano, a guardare la tv, e lui si alza e va in cucina. Un gesto normale, come per bere un bicchiere d’acqua, ma quando torna impugna un lungo coltello, si porta silenziosamente alle spalle della moglie e la colpisce di punta tra la gola e le spalle. Lei scatta in avanti, barcolla, si gira, lo guarda negli occhi e gli chiede «Carlo che stai facendo… perchè?», grida «aiuto» (la sua voce verrà sentita dai vicini ma scambiata per un urlo per la partita, anche se non era ancora cominciata) ma come risposta ottiene un pugno che la fa stramazzare al suolo. Una volta a terra lui la colpisce ancora con altri 3 o 4 fendenti, all’ addome e alla schiena. Per la donna non c’è scampo. A quel punto l’uomo sale al piano di sopra, dove ci sono la camera matrimoniale e le due camerette dei bambini. Prima va in quella della figlia di 5 anni, le appoggia una mano sul collo e le affonda con l’altra, di punta, tutto il coltello nella gola. La piccola morirà senza nemmeno svegliarsi. Poi va nella camera grande, dove il fratellino abitualmente viene fatto addormentare per poi essere spostato in cameretta: anche a lui, di soli 20 mesi, l’uomo fa scendere la lama profondamente, di punta, nella gola, tenendo fermo il collo, mentre dorme.
Quindi scende in cantina (è ancora in mutande, dopo il rapporto intimo con la moglie), si fa una doccia, risale, si veste. Ha un appuntamento con un amico per vedere la partita dell’Italia. Come niente fosse si prepara, sale sull’auto, si ferma alcune centinaia di metri dopo, si sbarazza del coltello gettandolo in un tombino, arriva al pub dell’appuntamento, saluta l’amico e guarda la partita. Poi alle 2 torna a casa, e inscena il ritrovamento dei corpi e il panico per la strage della sua famiglia da parte di sanguinari rapinatori per svaligiare la cassaforte. Ma era tutta una bugia.
Il criminologo: «Lissi voleva tornare a “giocare da solo”». Carlo Lissi ha massacrato la moglie e i due figli e poi è andato da alcuni amici, sabato notte, a vedere la partita della nazionale. Per Vincenzo Mastronardi, docente di psicopatologia forense all’Università “La Sapienza” di Roma, la strage di Motta Visconti covava da tempo nella mente dell’omicida. «Può trattarsi di un immaturo – spiega il criminologo all’Adnkronos – propria cioè di chi non ha maturato la completezza di essere padre e marito, oppure è un caso di anestesia affettiva, un disturbo di personalità che porta a non riuscire a valutare i sentimenti che un essere umano prova nei confronti dell’altro».
Per il criminologo del caso Cesaroni, che ha redatto le perizie di Pietro Maso e Rudy Guede, «l’omicida avvertiva la necessità infantile di tornare ad essere libero. Voleva la possibilità di continuare a giocare in questo mondo con un perverso “big game”, l’omicidio, illudendosi che si potesse occultare quello che invece non può essere coperto». «Quando Lussi ha ucciso i figli – spiega Mastronardi – ha provato un senso di liberazione: voleva tornare a giocare da solo. Attendiamo di conoscere meglio i particolari del caso, ma il fatto che l’uomo abbia sterminato la famiglia e poi sia andato a vedere la partita dell’Italia, dimostra quella insensibilità che è stata tracciata».
L’inchiesta. I carabinieri del Nucleo investigativo, pur in una pluralità di ipotesi, hanno cominciato a propendere per la pista “familiare” subito dopo le prime fasi di indagine. Il fatto stesso che nella strage non fosse stato risparmiato nemmeno il più piccolo dei due bambini, di appena 20 mesi, rendeva meno credibile la pista “esterna” di una sanguinosa rapina, e il mancato ritrovamento dell’arma del delitto nelle immediate vicinanze dei cadaveri rendeva difficile uno scenario di omicidio-suicidio. Tanto da farlo escludere pubblicamente dagli inquirenti già nel pomeriggio di ieri.
L’omicidio. La donna e i suoi due figli sono stati brutalmente assassinati con numerose coltellate in casa, una villa nella zona residenziale di Motta Visconti. I corpi della femminuccia e del fratellino erano rispettivamente nella cameretta e sul letto matrimoniale. Quello della donna riverso a terra in soggiorno.
I primi dubbi. Lissi, dopo l’allarme da lui stesso dato poco dopo le 2 di notte, è stato sentito fino a ieri mattina e poi è stato fatto tornare a casa. Risentito più volte, e confrontate via via le sue dichiarazioni con quelle di amici e testimoni (convocati per tutta la giornata di ieri) e con i primi riscontri scientifici e medico-legali emersi dalla scena del delitto, gli investigatori dell’Arma hanno prima cominciato ad avere dubbi sulla sua versione e poi avrebbero avuto sentore di possibili gravi tensioni nella coppia.
L’interrogatorio nella notte. Stanotte, dopo uno stringente interrogatorio nella caserma della Compagnia di Abbiategrasso (Milano) l’epilogo della vicenda, con le contestazioni formali.
Il marito trasferito in carcere. Carlo Lissi è stato trasferito nel carcere competente per territorio, ovvero quello di Pavia. L’uomo, dopo la formalizzazione delle accuse, è stato trasferito dai carabinieri di Abbiategrasso al carcere di Pavia prima dell’alba.
«Esultava ai gol dell’Italia». Sono davvero stupiti anche gli investigatori dell’Arma, che in poco più di 24 ore hanno risolto il triplice omicidio di Motta Visconti (Milano), per le modalità con cui Carlo Lissi ha confessato di avere ucciso la moglie e i figli e di essere andato, poi, come nulla fosse, a vedere la partita dell’Italia. Era sabato sera, e l’uomo, tra le 23 e le 23.30, aveva fatto mattanza dei suoi cari. Si è lavato, è salito in auto ed è andato all’appuntamento con un amico che lo aspettava in un pub del paese, lo Zymè, come da programma. «Non tremava, non era nervoso, sorrideva e parlava di calcio, come tutti» dirà un vecchio conoscente, sentito più volte in caserma. «Ha anche esultato in occasione dei gol di Marchisio e Balotelli», hanno precisato gli inquirenti. Intorno a lui tutti i presenti, una trentina, lo conoscono. Il clima è festoso, con battute, urla, gli occhi incollati al maxischermo, rituali normali in occasione dei Mondiali. Ma l’uomo, dietro di sè, ha lasciato una scia di sangue, e mentre beve una birra e segue con trepidazione le azioni di gioco, a casa Cristina, Giulia e Gabriele giacciono morti da meno di mezz’ora.
Lo stupore dei conoscenti. Incredulità e stupore a Motta Visconti per la svolta nelle indagini sull’omicidio di Maria Cristina Omes e dei suoi due figli dopo la confessione del marito Carlo Lissi. «Ci sembra impossibile, un papà così affettuoso – dice il vicino che abita nella villetta al civico numero 20 confinante con quella della strage – proprio in questi giorni mi ha detto che stava montando la piscina in giardino per i suoi bambini». «Una famiglia così unita e felice, sentivamo la bambina cantare tutto il giorno e quando un bimbo canta vuol dire che è sereno e felice» ha raccontato un’altra vicina che abita sempre in via Ungaretti, nella casa di fronte. Nessuno riesce a credere che quel giovanotto, come lo chiamano, così a modo, sobrio alle volte anche un pò riservato, abbia potuto commettere una efferatezza simile. «Quando non lavoravano, sia la mamma sia il padre trascorrevano tutto il loro tempo coi bambini – raccontano ancora i vicini – li vedevamo uscire con le biciclette, adesso che era arrivata l’estate di sera a piedi per andare a comprare il gelato». Lo shock nella via è ancora molto forte, l’altra notte quasi tutti erano svegli perchè la partita era appena finita, quando hanno sentito le urla di Carlo Lissi. Alcuni di loro prima ancora che arrivassero carabinieri e ambulanze sono entrati in casa e si sono trovati di fronte la drammatica scena.
Una candela “virtuale”, il tributo degli amici per Cristina. Una candela accesa in primo piano con la luce di altre candele sullo sfondo: è questa l’immagine che molti amici di Maria Cristina Omes hanno iniziato a mettere da ieri sera su Facebook al posto della foto del loro profilo. Un modo per ricordare la mamma uccisa con i suoi due bambini dal marito, Carlo Lissi, sabato scorso. E se gli amici hanno scelto le immagini per dedicare un pensiero a Maria Cristina, altri hanno preferito lasciare messaggi sulla pagina Facebook della mamma di Motta Visconti e anche in quella del marito, assassino reo confesso. Si va da parole di dolore e stupore («non capisco come si fa ad uccidere parte di te»), ad altre di ribrezzo e condanna («assassino immondo», «a morte»). I messaggi più condivisi di Maria Cristina sono l’ultima frase che ha scritto su Facebook, solo dieci giorni fa, «Anche se nella vita tu ci sei per tutti non è detto che tutti ci siamo per te» e una foto che aveva caricato a maggio «non trattarla male, mai. Potrebbe starci male e poi sentirsi ferita. E credici quando una donna è stata ferita, cambia».
I parenti chiedono il rispetto del silenzio. «La mamma e i parenti di Cristina e dei piccoli Giulia e Gabriele chiedono il rispetto per quanto accaduto alla loro famiglia. Chiedono di essere rispettosi del loro silenzio e del profondo dolore che stanno vivendo». È quanto si legge su un foglio appeso davanti alla villetta di Motta Visconti dove Carlo Lissi ha ucciso la moglie Cristina e i due figli di 5 anni e 20 mesi. «Ringraziano la magistratura i carabinieri e la polizia locale – si legge ancora sul foglio -. Un ringraziamento va anche al comandante della polizia stradale di Pavia per aver collaborato allo svolgimento dell’indagine».

La parrocchia, la bici, gli amici al bar. La vita perfetta di Carlo “il represso”
Ci vogliono quelle dieci righe, quella pagina scarsa di verbale, per far crollare il muro del bravo ragazzo dell’oratorio. Aveva retto, come gli avevano insegnato, se l’era tenuto dentro quel racconto dell’orrore, stava ancora aggrappato a quella inverosimile storia messa giù coi carabinieri a cadaveri ancora da raccogliere in casa. Non lo avevano piegato le 16 ore consecutive nella caserma di Motta Visconti, con il padre e il fratello in sala d’attesa, non il paio d’ore con indosso la tuta dei Ris, perché i suoi jeans e la sua maglietta li stavano passando al microscopio i carabinieri della Rilievi, non il fermo per la strage della sua famiglia firmato alle 22 dagli investigatori ormai certi di averlo incastrato. Sereno, quasi sollevato, si era concesso una pennica dopo la pizza ai funghi e la coca cola con cui aveva pranzato, chiacchierando coi marescialli. Ma non un fiato nel viaggio verso l’altra caserma, quella di via Moscova a Milano. Poi, quel foglio. Lei. Che conferma nero su bianco quello che in paese pensavano, ma della persona sbagliata.
No, non la collega della moglie, quella che lavorava fianco a fianco di Maria Cristina Omes alla Sai di Motta, al primo piano di piazzetta Sant’Ambrogio dove ieri pomeriggio le persiane facevano muro dagli sguardi e dalle chiacchiere dei bar. Ma la collega di lui alla Wolters Kluver di Assago, dove ogni giorno Carlo Lissi portava il suo grumo di voglie inghiottite tra i giardini di via Ungaretti («il represso », lo chiamano ora gli amici, quasi a lavarsi via l’ombra del mostro con cui sono cresciuti) e lo riversava sulla vicina di computer. Lui, il ragazzo della parrocchia di don Gianni Nava dove ancora ieri i catechisti scacciavano come presenze demoniache i cronisti a caccia di qualche dettaglio su quel ragazzo pio, la domenica a messa e dopo in bici per gli sterrati e le case di corte di Motta, piccolo borgo antico a una fiondata dal Ticino e dai campi di pannocchie che lo separano da Casorate, il paese dove Lissi era nato. Tutto in un chilometro il suo mondo, tanto dista la villetta gialla di mamma e papà, tanto quella al Villaggio Nuovo dove da due settimane si era trasferito l’amico Carlo fresco di matrimonio e dove le urla ai gol e i pali di Italia—Inghilterra, troppo euforici, saranno il primo e fragile alibi di Lissi a sterminio già consumato. Esageratamente rilassato, a pensarci dopo, quel ragazzo che non era alla prima stranezza di serata, se è vero «ne abbiamo viste di partite insieme — come dirà l’altro amico Simone, quello prescelto per vedere la partita al pub di Besate e che per poco non fa involontariamente saltare quel piano di morte — ma sempre a casa sua. Non mi ha mai chiesto di andare a vedere le partite di calcio in un locale o in una piazza». Stavolta aveva deciso di rompere, Carlo Lissi, e non era la prima volta. La ricordano ancora in tanti la scenata che Maria Cristina, l’amica di adolescenza, la promessa sposa di sette anni più grande e di personalità debordante, gli fece quando lui, a una settimana dal matrimonio, a chiesa e ristorante prenotati, e regali già pronti e smoking cucito, si presentò in via Ungaretti — allora casa degli Omes, mamma Pina Redaelli la lasciò a figlia, genero e nipoti dopo la morte del marito — per dire che lui non se la sentiva. «Tu non mi rovini la vita», gli urlò prendendolo per il colletto, ed eccole le foto sorridenti che ancora oggi si affacciano sulla bacheca di Cristina, Carlo ancora coi capelli in testa, Giulia che cristianamente allieterà la nuova famiglia dieci mesi dopo, agosto 2009. Tutto risolto? Solo per un po’, il tarlo si ripresenta nella testa di Carlo (una rara e sibillina frase postata sulla sua bacheca Facebook il 29 aprile 2011 recita «il mondo finirà di esistere quando vedrò un uomo normale sposare una multimiliardaria; ad oggi ho visto solo il contrario»), altra crisi, altre valigie fatte, altra scenata. E altro figlio, ecco Gabriele, tre anni dopo la sorellina.
Quadretto ricomposto. Il bravo papà salutista che si porta la mela per la merenda in azienda e cucina le torte coi pinoli. La piscina e il gazebo costruiti in giardino. Le vacanze sulle Dolomiti e in Liguria. I piccoli dolori domestici come quando Zeus non abbaia più sul prato, piaceri e preoccupazioni da genitori come il primo fidanzatino di Giulia e la foto della torta per il quarto compleanno («Tanti auguri alla mia piccola stellina»), ancora postata sui social network, le notti insonni per Gabriele e quella volta che si era mangiato una pastiglia di detersivo ed era finito di corsa al pronto soccorso. Ma era una scatola da cui Carlo Lissi voleva, doveva, uscire. Un mese fa aveva pubblicato una foto col suo nuovo look, testa rasata e sguardo ammiccante dritto in camera, verso una nuova evasione. Forse Cristina aveva intuito. Non mamma Pina, che appena domenica giurava ai carabinieri che «andavano d’accordo, si volevano bene ed io non ho mai assistito a litigi particolari tra i due, a parte qualche scambio di opinione normale tra i coniugi». Sul cancello di via Ungaretti ora c’è un foglietto a scacciare i curiosi: «La mamma e i parenti di Cristina e dei piccoli Giulia e Gabriele chiedono il rispetto per quanto accaduto alla loro famiglia. Chiedono di essere rispettosi del loro silenzio e del profondo dolore che stanno vivendo».

La collega di Lissi: “Si diceva pazzo di me”

Uccide moglie e figli. La collega di cui si era invaghito: “L’ho sempre respinto”

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