Alenya Bortolotto, 26 anni, studentessa universitaria e commessa. Fatta a pezzi con un coltello da sushi dal fidanzato
Milano, 20 Luglio 2002
Quella sera Ruggero era più agitato del solito. Alenya cercava di calmarlo, ma lui credeva di essere Osama Bin Laden e ha preso un coltello da sushi con cui l’ha colpita almeno 40 volte, riducendo la fidanzata in mille pezzi volati anche in giardino.
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La Milano bene si stringe intorno a Ruggero Jucker, l’imprenditore che due anni fa uccise barbaramente la fidanzata. Non c’è compassione per il dolore della madre di Alenya. Un fiume di parole per descrivere il bravo ragazzo vittima di un raptus.
Ma chi era Alenya Bortolotto, quest’ angelo volato in cielo troppo presto?
Il fatto: E’ stata colpita con più di 40 coltellate, vibrate in ogni parte del corpo, sulle braccia, sulla schiena sulle gambe e infine sul ventre. Alenja Bortolotto ha cercato in ogni modo di difendersi dalla furia omicida del fidanzato, Ruggero Jucker. Ha cercato di fuggire, di ripararsi con le mani. Ha visto la morte in faccia per alcuni minuti. Dai primi risultati dell’autopsia, eseguita all’istituto di medicina legale di Milano, è emerso che la ragazza è stata inseguita e colpita per più di 40 volte volte, col coltello da cucina impugnato dall’imprenditore. Una quarantina, probabilmente, i tentativi, a giudicare dai graffi sul corpo e sulle mani, con le quali tentava di difendersi. Fendenti vibrati nel lungo e strenuo tentativo della ragazza di sfuggire alla follia omicida del suo fidanzato, che l’ha rincorsa per l’appartamento, ferendola a braccia, gambe e al corpo prima di infierire sul suo ventre. Una lacerazione tanto devastante quest’ultima che, inizialmente, era parsa conseguenza di un solo colpo.
E’ stato accertato, inoltre, che il cosiddetto ‘evisceramento’ (la fuoriuscita delle viscere dalla ferita) è avvenuto quando la ragazza era ancora viva e questo esclude che Jucker abbia infierito sul corpo della fidanzata ormai privo di vita. Non avrebbe trovato soluzione, invece, il quesito posto dalla procura se Alenja fosse incinta o meno (un quesito abituale in casi di delitti che vedono coinvolte persone in relazione intima fra loro).
E dai verbali d’interrogatorio emerge che Ruggero Jucker, nell’ultimo periodo, si sentiva soffocato dalla presenza della sua fidanzata: “Era possessiva. In quel momento mi dovevo liberare di lei. Mi minacciava. Mi voleva tutto per sé”. comincia così il racconto agli psicologi e davanti agli investigatori. “Era possessiva. E proprio quella sera mi raccontò che sua madre aveva sognato che lei era incinta. Lei mi amava profondamente. Io invece l’amavo solamente per quanto ritenevo fosse giusto fare”, ha raccontato Jucker nell’interrogatorio i cui contenuti sono stati rivelati dal quotidiano ‘La Repubblica’.
Nel ricostruire la notte dell’omicidio di Alenja, il gip Piero Gamacchio scrive: “Risultano poco tranquillizzanti le spiegazioni fornite da Jucker in merito alle ragioni dell’omicidio, avendo egli fatto riferimento a problemi lavorativi e in particolare a una prospettiva professionale nel catering che molto lo innervosiva. Alenja – rivela il gip – aveva accettato di passare la notte con Ruggero pur avendo saputo, non da lui, che, pochi giorni prima, il suo compagno aveva confidato alla madre di ritenere di essere omosessuale e sieropositivo. Confidenze confermate successivamente anche dalla mamma”.
In questo quadro matura la tragedia. Alenja venerdì sera è seduta sul divano, Jucker quel giorno aveva assunto del litio prescrittogli da un medico omeopatico. “Nel corso della notte Ruggero viene assalito da una crescente ed incontrollabile agitazione. Si alza più volte dal letto, gira per casa. nonostante gli inviti alla calma di Alenja”. Lui comincia ad urlare e lei prova a chiamare aiuto al telefono. Allora scatta la follia omicida. Jucker prende un coltello in cucina e raggiunge Alenja in bagno. “Il fermato – conclude il gip – pur ricordando perfettamente quanto praticato su quel corpo non ha avuto il coraggio di riferirlo”
Ruggero Jucker, ricco imprenditore e proprietario di una grossa attività di catering, noto dai ristoratori come il Re della Zuppa è stato condannato a trent’anni per l’omicidio della fidanzata ed è attualmente recluso nel carcere milanese San Vittore.
L’opinione della guida: Niente favoritismi per Ruggero Jucker: è un detenuto come un altro.
Nel carcere di San Vittore sono detenuti uomini e donne provenienti da famiglie semplici ed extracomunitari che si sono macchiati di reati irrilevanti se messi a confronto all’omicidio di una ragazza di 26 anni.(ricordiamo che il reato è aggravato dall’ agonia della vittima, e dalle modalità con cui è stata uccisa, più di quaranta coltellate) Detenuti che non possono permettesi un assistenza legale a pagamento, perchè troppo costosa e che si affidano all’assistenza che offre il gratuito patrocinio dello Stato. Uomini che trascorrono giornate in cella, poichè non hanno l’opportunità di lavorare all’interno del carcere.
A Jucker, nonostante abbia una famiglia in grado di poter soddisfare le sue necessità all’interno dell’istituto (quali sigarette, libri, abiti, eccetera), il carcere San Vittore ha offerto, subito dopo l’arresto un’opportunità lavorativa: un’impiego all’interno del carcere, che si addice ad un ragazzo di buona famiglia,si occupa infatti della contabilità. Mansioni d’ufficio per il rampollo della Milano bene: non potevamo metterlo mica a pulire i bagni, a far lo scopino, o lo spesino. Non paga la direzione ha deciso nei mesi consegutivi all’arresto che a Jucker facesse bene socializzare nonostante tutti i reclusi hanno l’opportunità di incontrare i compagni di pena ed i volontari in determinate fasce orarie. Così il detenuto “modello” ha iniziato a frequentare alcuni laboratori, nelle ore pomeridiane, interessandosi (si fa per dire, perchè l’ho visto poco dedicarsi alle lavorazioni artigianali. E’ un modo come un’altro per uscire dall’isolamento della sua cella e trascorrere il pomeriggio in compagnia) alla lavorazione di vetro e cera.
Di Jucker e di sua madre si è parlato troppo.. I giornali hanno descritto minuziosamente la vita del colpevole: il suo amore per la cucina, per il suo lavoro, per l’arte, il legame simbiotico( e senz’altro morboso) con la madre: Lalla Jucker.
Ma chi era Alenya Bortolotto? Di lei si sa poco è niente, apparte il fatto che lavorava come commessa in un negozio di abbigliamento firmato, che all’epoca del delitto aveva solo 26 anni e che apparteneva anche lei ad una famiglia agiata di Milano. Si è sminuito la tragedia e la barbaria dell’omicidio, le sevizie che la ragazza ha dovuto subire con il troppe volte ripetuto “è stato solo un raptus, Poppy (così lo chiama la madre) è sempre stato un bravo ragazzo” Ed il ricordo di Alenya sfuma, il dolore della madre è troppo dignitoso e passa inosservato. Siamo stati costretti a leggere su un quotidiano nazionale (Libero) che “lo sventramento di Alenya è stato interpretato anche come una sorta di performance artistica che doveva uguagliare il corpo della ragazza ad uno dei quadri di arte contemporanea che Jucker amava collezionare”
“Alenya era possessiva, mi amava troppo … dovevo elimarla” questo è quanto Ruggero ha dichiarato durante l’interrogatorio e che ha continuato a ripetere anche dopo il suo arresto. E non venitemi a parlare di raptus…(sapete che significa “raptus” o vi appropiate semplicemente del termine?) Ho trascorso un’estate presso il carcere San Vittore, dove Ruggero Jucker, è recluso ed ho avuto occasione di stare molto tempo con lui e di conoscerlo a fondo. Con sincerità, ammetto che vedo la pena come una strada da compiere per raggiungere il traguardo della riabilitazione dell’individuo e che mi batto ogni giorno per i diritti umani dei reclusi, per migliorare le loro condizioni di vita all’interno degli istituti attraverso campagne di sensibilizzazione, incontri e dibattiti.
Sono assolutamente contraria alla pena di morte ed alla tortura in qualsiasi forma. Con altrettanta sincerità ammetto che il trattamento di Jucker e la vicenda in sè mi ha dato la nausea. Il “buon Pagano” come molti lo definiscono, direttore per quindici anni del Carcere San Vittore, e da pochi mesi provveditore regionale è stato senza ombra di dubbio colui che ha dato al carcere un volto umano, alla detenzione un senso, all’individuo recluso una dignità. Per oltre quindici anni ha incentivato la creazione di attività lavorative, la promozione di eventi sociali e culturali..ma .ultimamente, il buon Pagano è stato trascinato dal vortice del “trash” collettivo…anche se probabilmente il termine trash è inadatto per definire una tragedia (ma è consono per definire i mezzi con cui in molti si sono accostati al dramma di una famiglia che ha perso un figlio) Attenti a non cadere nell’eccesso, a non schierarci troppo dalla parte del colpevole, ignorando la vittima e i familiari.
Ho conosciuto un Poppy coccolato e vezzeggiato dalle operatrici volontarie che abitualmente frequentano il carcere milanese. Signore della Milano bene, che spesso sono totalmente imprepatrate e poco formate ad affrontare un volontariato difficile come può essere quello svolto nelle carceri. Trascorrono giornate in compagnia dei detenuti per sentirsi utili e per lavarsi la coscenza, senza preoccuparsi minimamente del contributo che realmente possono apportare, con i mezzi che hanno, al reiserimento di queste persone nella società. Ho visto un Jucker, uomo di 38 anni, trattato come un bambino, protetto in tutti i modi dal carcere, quale mondo ostile nei riguardi di un ricco imprenditore che è abituato a frequentare altri ambienti, diversi dalla galera.
Ma signori miei, se Poppy fosse un extracomunitario, un disoccupato, un’anonimo cittadino milanese e non il Re delle Zuppe? Il caso sarebbe senz’altro chiuso. L’omicida non avrebbe i libri, i cioccolatini della suora che lo và a visitare ogni giorno, i dolcetti di fine pasticceria che gli porta la madre (e che tante volte mi ha fatto assaggiare) il computer portatile in cella, e le magliette firmate da sfoggiare mentre passeggia nel corridoio del terzo raggio; definito dall’ex direttore Luigi Pagano il reparto d’eccellenza (da www.ildue.it alla domanda della giornalista del Manifesto, l’attuale provveditore risponde infatti così:.”Dott.Pagano può citare qualche cambiamento significativo a San Vittore?”Il ridimensionamento del terzo raggio che ora, dopo sette anni, può considerarsi un reparto d’eccellenza, detto con pudore, perché un carcere è sempre un carcere.” E dove poteva essere sistemato Ruggero Jucker,mi permetto di commentare io, se non in un “reparto d’eccellenza?”) Lasciandomi i cancelli e le porte del carcere San Vittore alle spalle non c’è sera in cui, almeno per un minuto non abbia pensato ad Alenya, che non ho mai conosciuto … ed alla madre. Quanto grande può essere l’amore per un figlio?( io che figli non ne ho, me lo chiedo spesso) E quanto straziante deve essere la scomparsa di un figlio? E Milano non fa altro che infierire, torturando la famiglia della vittima a forza di puntare i riflettori sull’omicidia.
(Noemi Novelli)
Quando Ruggero Jucker uccise Alenya Bortolotto
Conoscevo Alenya Bortolotto. La conoscevo come si può conoscere una ragazza che lavora in un negozio dove si va ogni tanto, a comprare una camicia. Il negozio è ancora lì, a Milano, in corso Europa. Alenya ci lavorava ogni tanto, studiava Scienze Politiche.
Ruggero Jucker a Milano lo conoscevano in tanti. Lo conoscono in tanti. È il figlio di una famiglia della borghesia di Milano, solida e ricca. La buona borghesia milanese. Ruggero dava una mano alla mamma: lei fu la prima tra le signore eleganti a capire che la sua passione per la cucina si poteva trasformare in un’attività. Lo fece più di 25 anni fa, la chiamavano signora del catering. Poi Ruggero aprì un posto dove cucinava zuppe, zuppe di ogni tipo, buonissime. Aveva successo quel negozio, era il 2001.
Alenya e Ruggero stavano insieme. Poi accadde qualcosa. Anzi, accadde tutto.
Quella del 2002 era un’estate più o meno come questa, c’erano appena stati i Mondiali, per giorni si era parlato di un poveraccio ecuadoriano dal bel nome, Byron Moreno. Faceva l’arbitro, gli italiani gliene dissero di tutti i colori.
Una notte di quell’estate, in via Corridoni, in centro a Milano, i pochi che non erano via per il weekend furono svegliati da urla disumane. Ruggero Jucker nudo in strada urlava “Io sono Osama Bin Laden”. Una scena incongrua, grottesca. Però era sporco di sangue Jucker. Semplicemente, il suo cervello aveva fatto cortocircuito. Così, d’un botto, la coscienza era esplosa. Ruggero Jucker aveva fatto a pezzi Alenya. Non è un modo di dire, una frase fatta. L’aveva fatta davvero a pezzi, colpita ovunque con un coltello da sushi. Lei aveva provato a difendersi. Quaranta coltellate, e poi quelle urla: “Io sono Osama Bin Laden”. Trovarono un pezzo del fegato di Alenya in cortile.
Parlarono tanto di droghe, qualche giornale scrisse che Jucker aveva fumato un “superspinello”. Proprio così, un superspinello.Non c’entrava nulla nessuna droga. Semplicemente in quella notte d’estate a Ruggero Jucker era partito il cervello.
Ai funerali di Alenya c’era un sacco di gente, anche Marcello Dell’Utri, era amico del padre. La cerimonia si aprì con la voce di Battiato che recitava “Ti invito al viaggio, in quel paese che ti assomiglia tanto. I soli languidi dei suoi cieli annebbiati… Laggiù tutto è ordine e bellezza, calma e voluttà”. La bara uscì dalla cappella e Jobin cantava “La ragazza di Ipanema”. Anche questo era incongruo.
Il giudice Guido Salvini condannò Ruggero a Jucker a 30 anni con il rito abbreviato. Riconobbe la semi infermità mentale ma anche la grave crudeltà nell’agire. Ruggero è sempre stato a San Vittore, fin dall’arresto. Lì, regolarmante, è stato seguito da uno psichiatra : tre visite alla settimana pagate dalla famiglia. Al processo d’Appello ci fu un accordo: aggravanti e attenuanti furono bilanciate, la pena scese a 16 anni.
Sono passati dieci anni: metà della pena è stata scontata. Ruggero Jucker può chiedere di essere affidato ai servizi sociali, inizierà a uscire dal carcere. È così, è la legge, ci mancherebbe altro. È giusto così. È giusto così?
(Stefano Nazzi)
La madre della vittima: «Non perdonerò mai Jucker, scarcerato per ingiustizia»
Alenya fu uccisa con 22 coltellate dall’uomo condannato a 30 anni e liberato dopo 10 anni e mezzo
Non c’è nulla che possa lenire il dolore di una madre che ha perso la figlia, trucidata barbaramente e senza un motivo apparente dall’uomo con il quale stava progettando un futuro. Non può farlo certamente il tempo. Patrizia Rota è una donna riservata, come d’altronde tutta la famiglia, rappresentante della buona borghesia milanese. Ha sempre vissuto con dignitosa compostezza il suo dolore, sin dal 20 luglio 2002, quando sua figlia, Alenya Bortolotto, fu uccisa a 26 anni da Ruggero Jucker in un elegante appartamento nel centro di Milano. Ora quell’uomo ha pagato il suo debito con la giustizia, diventato negli anni sempre più magro: è uscito il 21 gennaio dal carcere, dopo appena 10 anni e mezzo di reclusione. Condannato nel 2003 in primo grado a 30 anni con il rito abbreviato, grazie al patteggiamento, ancora possibile in appello, e a un diverso bilanciamento tra attenuanti e aggravanti, nel 2005 si vide ridurre la pena a 16 anni di carcere e tre di casa di cura. L’indulto del 2006 e la «liberazione anticipata» (tre mesi ogni anno scontato) garantita a tutti i reclusi che non violano la buona condotta, hanno fatto precipitare il conto totale a soli 10 anni e mezzo, con il tribunale di sorveglianza che ha annullato il trattamento post carcere perché l’ex imprenditore del catering si è sottoposto a cure psichiatriche in cella. Ora Jucker, a 46 anni, ha tutto il tempo di ricostruirsi una vita.
L’assassino di sua figlia ora è libero. Si aspettava così presto?
«No, sinceramente no, ma la legge è quella che è».
Cosa avete provato in famiglia sapendo che è stato rimesso in libertà?
«Siamo attoniti. Purtroppo la legge è stata fatta così e, di fronte a questo epilogo infausto, non possiamo fare altro che restare, appunto, attoniti».
Potrebbe incontrarlo per strada, l’uomo. La turba? La preoccupa?
«Non mi preoccupa…».
Ritiene che non sia stata fatta giustizia fino in fondo?
«Io non credo che sia possibile fare giustizia per un atto tremendo come quello che è stato compiuto e nessun processo e nessuna condanna potrà mai colmare il nostro dolore. Avevamo auspicato una pena molto più pesante, almeno quanto quella del primo grado, purtroppo abbiamo dovuto accettare la riduzione in appello. Credo proprio che in questo caso la giustizia sia stata profondamente ingiusta. Sapevamo dalla sentenza d’appello quali dovevano essere i tempi, ma neanche quelli sono stati rispettati».
Prova sentimenti di vendetta o di odio?
«No. È tanto profondo e intenso l’amore per Alenya che questi sentimenti non trovano spazio in noi».
Una storia tragica. Ora è definitivamente chiusa?
«Non per noi che soffriamo per la mancanza di Alenya, anche se la portiamo per sempre dentro di noi. Lei ci dà la forza e ci guida. In ogni momento della vita la chiamiamo».
Lei, l’altra sua figlia Muriel e Alenya eravate molto legate.
«Un legame profondo la cui rottura, specie per Muriel, rappresenta un vuoto incolmabile. Tra loro c’era una grande unione e un grande amore».
Potrà mai perdonare chi le ha ucciso la figlia?
La voce della signora Patrizia diventa grave e detta le parole:
«Parlo come madre, questo è il mio pensiero: per l’orrore, per la disperazione, per la sofferenza, per il mancato profondo sentimento di Pietà e Misericordia, non avrà il mio perdono».