Antonio Vena, 48 anni, ex guardia venatoria poi operaio in una ditta di serramenti. Uccide la compagna con un fucile a pompa. L’ex moglie lo aveva denunciato due volte
Truccazzano (Milano), 19 Aprile 2020
Titoli & Articoli
Femminicidio nel Milanese: già denunciato dalla ex moglie (Ansa – 19 aprile 2020)
Per aggressioni avvenute in Alto Adige nel 2009 e 2012
In passato Antonio Vena, il 47enne arrestato per aver ucciso la sua compagna a Truccazzano, era già stato denunciato due volte per violenza dalla donna con cui all’epoca era sposato. I fatti risalgono al 2009 e al 2012 a Chiusa, in Alto Adige, dove i due vivevano.
Nel 2012, secondo la denuncia, Vena aveva inseguito la donna in macchina e l’aveva tamponata fino a farla uscire di strada. La coppia si era poi separata e l’uomo aveva intrapreso una nuova relazione. Vena lavora per un’azienda di Bressanone, ma, a causa dell’emergenza coronavirus, era in ferie forzate.
Nessuna pietà per Alessandra Cità: stavano insieme da 9 anni (MeteoWeek – 19 aprile 2020)
Ennesimo femminicidio, questa volta in provincia di Milano: Alessandra Cità è stata massacrata dal compagno, che lei stava ospitando per la quarantena.
Uccisa con un fucile a pompa: un colpo alla testa. Una morte atroce ed inattesa, quella di Alessandra Cità, 47enne di origini siciliane e residente ad Albignano, frazione di Truccazzano. Siamo nella provincia di Milano: a massacrarla è stato il compagno, Antonio Vena, coetaneo e legato alla donna da 9 anni. Era un rapporto a distanza, il loro: Alessandra viveva nel milanese, era dipendente dell’ Atm (Azienda Trasporti Milanes) e guidava il tram numero 27. Il compagno invece viveva e lavorava a Bressanone, provincia di Bolzano. Meccanico, aveva precedenti penali. La coppia gestiva una relazione a distanza: Antonio Vena raggiungeva la donna tutti i fine settimana. Da due settimane circa però l’uomo viveva nella casa di lei, per trascorrere insieme la quarantena.
All’arrivo dei carabinieri l’assassino è apparso lucido nella ricostruzione: ha raccontato di essere geloso, e di aver trasformato questo pensiero in una ossessione. Ieri notte, durante un litigio, avrebbe afferrato il fucile a pompa sparando alla compagna. Una ipotesi di indagine è proprio quella della convivenza forzata imposta dalla quarantena: forse la causa dell’esplosione di follia omicida dell’uomo.
L’idea che si possa essere trattato di un raptus potrebbe venire confermata dall’assenza di denunce sporte dalla donna o segnalazioni di violenze pregresse. Il fucile a pompa calibro 12 – rinvenuto sul luogo del delitto – è stato sequestrato: la donna aveva un regolare porto d’armi ma i carabinieri non escludono che l’arma potesse appartenere ad Antonio Vena . L’uomo si trova in caserma: è stato interrogato dal pm Giovanni Tarzia, assistito dal suo avvocato d’ufficio. Per ora l’accusa è quella di omicidio. Sarà da valutare la possibilità che fosse premeditato.
(di Alessio Ramaccioni)
Femminicidio nel Milanese, Antonio Vena si dice pentito e distrutto (Alto Adige – 21 aprile 2020)
Il giudice ha convalidato il fermo ed emesso la misura cautelare in carcere
«Ormai non posso più tornare indietro, ma sono disperato. La amo ancora e sono distrutto». Sono state queste, stamane davanti al giudice di Milano Manuela Cannavale, le parole di Antonio Vena, 47enne ex guardia venatoria e operaio della Duka di Bressanone, che nella notte tra sabato e domenica ha ucciso nel sonno, sparandole alla testa con un fucile, la sua compagna Alessandra Cità.
L’uomo, che è difeso dall’avvocato Giuseppina Marciano e che si è detto «pentito» del suo gesto, era collegato in videoconferenza dal carcere di San Vittore, dove si trova dopo essersi costituito ai carabinieri domenica mattina.
Il giudice ha convalidato il fermo ed emesso la misura cautelare in carcere, come chiesto dal pm di Milano Giovanni Tarzia, che ha coordinato l’indagine insieme ai procuratori aggiunti Maria Letizia Mannella e Laura Pedio. Vena è accusato di omicidio volontario pluriaggravato.
“Mi prenderò le mie soddisfazioni”. E dopo l’sms, le sparò nel sonno (il Giorno – 22 luglio 2021)
Antonio Vena, condannato all’ ergastolo per l’omicidio di Alessandra Cità, agì con premeditazione
Io aspetterò con pazienza, come ho fatto con Ivana (la ex moglie, ndr.) a prendermi le mie soddisfazioni”. Un messaggio “agghiacciante” secondo i giudici, visto il trattamento che l’uomo aveva riservato all’ex consorte, una volta mandata in ospedale a calci, pugni e morsi, un’altra tamponata con il suv in modo che l’auto di lei si cappottasse. Ma per Alessandra Cità, 47enne tranviera Atm, l’attuale compagna che dopo dieci anni aveva però deciso di lasciarlo, il coetaneo Antonio Vena aveva in mente di prendersi una “soddisfazione” anche maggiore. Infatti una sera di aprile del 2020 aspettò che lei s’addormentasse, imbracciò un fucile a pompa e le sparò nel letto uccidendola. È stato condannato all’ergastolo tre settimane fa, l’uomo di origini palermitane che dopo l’omicidio avvenuto nella villetta a schiera di lei, a Truccazzano, andò a consegnarsi ai carabinieri. Ma nelle motivazioni della condanna appena depositate, i giudici della Corte d’assise (presidente Ilio Mannucci Pacini, estensore Ilaria Simi), spiegano perché non hanno creduto alla versione del delitto d’impeto e non hanno concesso a Vena le attenuanti generiche, sposando invece la tesi della premeditazione dell’omicidio. Già quel messaggio whatsapp spedito alla vittima appena pochi giorni prima (“io aspetterò con pazienza”) è un indizio, per la Corte. E poi i giudici non hanno creduto affatto alla versione di lui, che ha detto di aver preso il fucile custodito insieme ad altre armi in un armadietto blindato, mentre la casa era già al buio. “Non è credibile che avesse recuperato le armi al buio quella sera (…) del tutto implausibile che Vena avesse contato di poter aprire al buio quella serratura dell’armadietto blindato”. Molto più probabile, per la Corte, “che Vena avesse prelevato le armi in precedenza e le avesse nascoste in preparazione del delitto”. E ci sono inoltre quella porta finestra che dava sull’esterno e il basculante del garage che Vena “sigillò“ con del fil di ferro quella sera, offrendo poi strane e confuse spiegazioni del suo gesto, che invece per la Corte aveva un motivo preciso: evitare che la sorella della vittima e il fidanzato, che abitavano a cento metri e sapevano delle tensioni fra i due , “fossero avvisati dalla vittima nel caso di un probabile litigio (come in effetti avvenuto) e potessero decidere di intervenire senza preavviso per garantire la sicurezza di Alessandra”. Omicidio premeditato, dunque, “compiuto come punizione estrema , in tutti i sensi devastante, per una ingiustificata pretesa di possesso esercitata con violenza, ovvero per ragioni che possono considerarsi abbiette”. Quanto alla mancata concessione delle attenuanti generiche, anche se Vena non aveva mai aggredito Alessandra in precedenza, però “l’aveva più volte minacciata e più volte pervicacemente infastidita”. E per di più aveva “già tenuto comportamenti estremamente gravi di prevaricazione ed offesa nei confronti della ex moglie”.
(di Mario Consani)
Non voleva più vivere con lui: il compagno la uccide, ergastolo (Affari Italiani – 24 marzo 2022)
L’uomo si era costituito dopo l’omicidio spiegando di avere ucciso la donna con un colpo di fucile al viso mentre questa dormiva
Femminicidio nel Milanese: ergastolo anche in appello
In appello e’ caduta la premeditazione ma e’ rimasta la pena dell’ergastolo per Antonio Vena, il 48enne a processo per l’omicidio volontario pluriaggravato di Alessandra Cità’ nella notte tra il 18 e il 19 aprile 2020 nell’abitazione di lei a Truccazzano (MI). E’ la pronuncia della corte d’assise di appello in parziale riforma della sentenza dei giudici di primo grado che avevano riconosciuto l’aggravante.
Era stato lo stesso Vena, difeso dall’avvocato Paolo Tosoni, a far scoprire l’omicidio costituendosi alla caserma dei Carabinieri di Cassano d’Adda (Mi) la domenica mattina del 19 aprile 2020, in pieno lockdown, spiegando ai militari di avere ucciso la donna con un colpo di fucile al viso mentre questa dormiva. Un racconto confermato anche durante il suo esame nel corso del processo.
“Sono sceso nel seminterrato dove dormiva e ho preso dall’armadietto due fucili e un caricatore. E poi ho fatto quello che non avrei dovuto fare”, aveva detto Vena in aula. La coppia conviveva da due settimane a casa di Cità, tranviera dell’Atm, a causa delle restrizioni previste dalle norme sul contenimento sul coronavirus. Durante la convivenza forzata la donna avrebbe piu’ volte manifestato a Vena, prima dell’emergenza sanitaria impiegato come guardia venatoria a Bressanone (Bolzano), la volonta’ di interrompere la loro relazione. Il pm Giovanni Tarzia aveva contestato l’aggravante della premeditazione che pero’ non ha retto nel giudizio di secondo grado.