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Femminicidio è la parola del 2023 per la Treccani

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Un termine comparso nella nostra lingua nel 2001, segnalato come neologismo nel 2008, registrato dal vocabolario Devoto-Oli nel 2009 e dallo Zingarelli nel 2010. Ma se il termine «Femminicidio» è stato scelto dalla Treccani come parola del 2023, una ragione seria c’è, ed è la sua attualità persistente e anzi crescente se non allarmante.

Ieri, proprio qualche ora dopo l’annuncio della Treccani, il procuratore di Benevento ha descritto il tentato femminicidio ordinato l’11 novembre scorso da un detenuto del carcere di Augusta contro una donna, raggiunta quel giorno da un colpo di pistola. «Motivi strettamente passionali ed economici», si precisava, ma forse la parola «motivi» è la meno appropriata visto che nella violenza di genere è impossibile, con tutta la buona volontà, intravedere una ragione riconoscibile come giustificazione. E tanto meno questa ragione è ravvisabile in qualcosa che abbia a che fare con la passione o comunque con la sfera dei sentimenti.

Fatto sta che non passa giorno senza che si parli di un «femminicidio» o «femmicidio», la sua variante più rara. Dieci anni fa, l’Accademia della Crusca rispondeva alla domanda di un parlante sulla necessità di adottare una parola nuova (in alternativa a «uxoricidio»), quasi si trattasse di un vezzo o di una delle tante mode linguistiche. In realtà, si spiegava nella nota tecnica, quella parola segnalava un «rovesciamento di prospettiva»: non esclusivamente l’assassinio di una donna, ma l’eliminazione di una donna in quanto donna, cioè nel contesto di una visione discriminatoria, di una prospettiva sessuale prevaricante o se vogliamo «patriarcale». Oggi, se sul «femminicidio» non ci sono più obiezioni, sul concetto di «cultura patriarcale» si sollevano dei dubbi, com’è accaduto di recente a proposito dell’assassinio di Giulia Cecchettin. Ma non è escluso che si tratti di dubbi provenienti da un residuo resistente di mentalità patriarcale.

(Paolo Di Stefano su Corriere della Sera)