Manuela Petilli Marchelli, 14 anni, studentessa. Rapita, uccisa e carbonizzata
Ivrea (Torino), 2 Agosto 1993
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Aspettava l’autobus, è scomparsa
“Manuela vieni con me”
“L’ ho visto avvicinarsi a Manuela. Era in sella al motorino, una specie di vespino. Il suo amico era sceso poco prima. L’ ha salutata poi le ha offerto un passaggio. Lei non voleva salire ma lui ha insistito…”. La voce della giovane “supertestimone” è poco più di un soffio quando rievoca per i carabinieri l’ incontro di Manuela Petilli Marchelli, la ragazza di 15 anni scomparsa il 2 agosto scorso di fronte alla stazione di Ivrea e ritrovata cadavere diciassette giorni dopo nella “casa del mostro”, un casolare abbandonato nella campagna eporediese, con Pietro Ballarin, detto “Ringo”, lo zingaro “sinto” arrestato lunedì pomeriggio perchè sospettato dell’ omicidio della giovane.
“Il 2 agosto ero sul piazzale della stazione. Aspettavo una persona. Accanto a me c’ era quella ragazza, Manuela…”. Così inizia la testimonianza della ragazza, definita dagli investigatori “un testimone possente, in grado di ricostruire nel dettaglio l’ incontro di Manuela con lo zingaro”. Sono le 15 del 2 agosto. Manuela ha appena saputo che il treno per Strambino delle 15,20 è stato soppresso per il periodo estivo. Ha deciso di prendere il pullman ma deve aspettare sino alle 15,30. Nell’ attesa chiede un passaggio ad una signora di mezza età che però è diretta a Bollengo, nella direzione opposta. E’ in quel momento che, secondo il racconto della “supertestimone”, le si avvicina “Ringo” in sella ad uno scooter Piaggio. Di fronte alla stazione di Ivrea c’ è anche Giovanni Lagaren, detto “Cico”, il cognato di “Ringo”. Secondo la testimone era anche lui sulla motoretta, è sceso quando Ringo ha notato Manuela alla fermata del pullman. Cico, interrogato dai carabinieri, ha negato. Per questo è stato arrestato con l’ accusa di reticenza.
“Vuoi un passaggio per Strambino, dài sali, ti porto io…” esordisce Ringo quando abborda Manuela. La testimone è accanto alla ragazza, ascolta il rapido dialogo con il nomade e nota l’ esitazione di Manuela. “Non è il caso, aspetto il pullman…” risponde la giovane a “Ringo” che però insiste: “Con me arrivi prima…”.
Manuela cerca ancora di rifiutare: “E’ un motorino senza targa quello, non si può andare in due…”. Ringo ribatte: “Non ci sono problemi. Passeremo per una scorciatoia, in mezzo ai campi, così non corriamo il rischio di essere visti dai carabinieri o dai vigili. Vieni che non ci vedrà nessuno…”. Manuela accetta il passaggio. Nello specchietto retrovisore la vede salire sul motorino anche la signora di mezz’ età diretta a Bollengo, bloccata ad un semaforo rosso.
“Ringo” invece continua a negare. “Conoscevo Manuela perchè in questa zona tutti conoscono tutti – ha ripetuto al magistrato, il sostituto procuratore Lorenzo Fornace che lo ha accusato di omicidio volontario aggravato e di occultamento di cadavere – Quel giorno ero da un’ altra parte e non avevo ancora comprato il ciclomotore della Piaggio. Ve la prendete con me perchè sono uno zingaro e perchè sono stato in galera…”. La moglie Loredana e gli altri nomadi dell’ accampamento della frazione San Giovanni, a dieci chilometri da Ivrea, lo difendono a spada tratta. “Non è stato mio marito ad uccidere quella ragazza. E’ stato tutto il giorno al campo…” grida Loredana, moglie di Ringo e sorella di Cico, l’ altro zingaro arrestato.
Sono però almeno tre le testimonianze che inchiodano Ringo. Oltre alla ragazza e alla signora, c’ è un negoziante che lo smentisce sulla data dell’ acquisto del ciclomotore. E la polizia ha trovato un ragazzo che quel giorno ha visto il nomade in sella a quel tipo di motorino in giro per Ivrea. Inoltre il medico legale, il professor Lazzari, ha scoperto sulle braccia di Ringo dei graffi profondi. “Vecchie ferite” ha spiegato lo zingaro. “Segni della lotta con Manuela” dicono gli investigatori, che intanto hanno scoperto che il nomade conosceva la ragazza dal gennaio dello scorso anno.
“Probabilmente aveva incontrato lui e Cico ad una delle tante feste di paese. Comunque Paolo il fidanzato conosceva bene il campo dei nomadi…” spiegano i carabinieri che anche ieri hanno scoperto otto giovani di Strambino nell’ accampamento. “Cercavamo una raccomandazione per evitare il servizio militare” si sono giustificati gli otto.
Figlio di un alcolizzato soprannominato “il Gamba” e di Ida Alafleur, una “sinti”, Ringo è finito in carcere a 18 anni, dopo aver tentato di massacrare e violentare due nomadi di 10 anni, insieme al fratello Luigino. Condannato a dodici anni ne ha scontati otto. Ha lasciato il carcere nei primi mesi del ‘ 92 per farvi ritorno nel novembre dello stesso anno per scontare otto mesi per furto. Torna in libertà lo scorso luglio. All’ inizio del ‘ 92 ha già conosciuto Manuela.
Si dice che Paolo, il “fidanzatino” della giovane, sia stato infastidito dalle pesanti attenzioni dello zingaro per la ragazza. “I carabinieri mi hanno fatto vedere una lettera di un amico di Manuela. Le scrive ‘ E’ vero che hai dei problemi con Ringo? Che quello non ti lascia in pace?’ – racconta Paolo Lombardi – Non sono stato io a presentarglielo. Lo conosceva come lo conoscevano tutti nella zona.
A lei faceva paura Ringo, con quella faccia tutta tagliata...”. I carabinieri smentiscono la storia della lettera. “C’ è solo un messaggio di un amico che rimprovera Manuela di frequentare compagnie che la trattano male…” spiegano gli investigatori. Ieri mattina nella parrocchia di Strambino, dove il sindaco ha decretato il lutto cittadino, si sono svolti i funerali di Manuela. Le campane, per esplicito desidero dei familiari, hanno suonato a festa.
Nella casa del mostro Manuela non c’era
LE CERTEZZE Manuela conosceva il suo assassino. Lo ha seguito volontariamente nella “casa del mostro”, scomparendo nel primo pomeriggio del 2 agosto. Le altre scarse certezze degli investigatori sono fondate sulle poche testimonianze raccolte alla stazione di Ivrea. “Voleva ritornare a Strambino in treno. Quando ha saputo che il convoglio era stato soppresso ha deciso di prendere l’ autobus” ha spiegato il bigliettario della stazione eporediese. Una donna però ha raccontato di aver visto Manuela mentre chiedeva un passaggio in auto.
I MISTERI L’ autopsia effettuata venerdì sui resti trovati al primo piano della “casa del mostro” non ha permesso di capire se la quindicenne sia stata strangolata o uccisa in altro modo. Altrettanto incerta è l’ ipotesi che la giovane possa essere stata violentata dal suo assassino. Eppure l’ aggressione sessuale è, secondo gli investigatori, la causa dell’ omicidio. Avvolto nel mistero anche il motivo che ha spinto la giovane a seguire il suo assassino nella cascina di frazione Cerone. Ancor più difficile è capire se sull’ auto che le ha dato un passaggio c’ era una o più persone.
IVREA – “Ho molte cose da dire sulla morte di Manuela. Cose importanti. Ma parlerò solo dopo il funerale”. Gli inquirenti lo hanno definito un “personaggio marginale”. Ma lui, Alfonso Petilli, un impiegato dell’ azienda telefoni di 40 anni, non vuole più recitare quel ruolo. Petilli è il padre di Manuela, la ragazza di 15 anni scomparsa il 2 agosto alla stazione di Ivrea e ritrovata giovedì scorso in un casolare abbandonato: uccisa, il corpo semicarbonizzato. Da tredici anni, da quando si separò dalla madre, e il Tribunale dei minori concesse a lei l’ affidamento della piccola, Petilli non viveva più con la figlia. Quella separazione fu un trauma per l’ impiegato di Strambino, un paese di settemila abitanti, a pochi chilometri da Ivrea. “Ho sofferto troppo tempo e sono sempre stato in silenzio – dice ora – Ma non sarà più così. Vedevo di rado Manuela, ma lei mi voleva molto bene. Io sapevo che frequentava una compagnia ambigua, che tra i suoi amici gli stinchi di santo erano ben pochi. Era già fuggita, un anno fa. La ritrovarono dopo due giorni in un bar di Torino”.
E’ una storia di contraddizioni, quella di Manuela Petilli Marchelli. Segnata dalle guerre familiari tra i parenti della madre e quelli del padre. L’ ultima risale a cinque anni fa, quando Alfonso Petilli si appellò ancora una volta al tribunale per ottenere l’ affidamento che gli era stato negato nell’ 80. “Manuela non usciva mai – dice la famiglia del fidanzato diciassettenne, Paolo Lombardi – era sempre a casa con noi o con la madre”. In questo giallo piemontese, i riflettori sono puntati su due scene. La prima resta la “casa del mostro”, il cascinale di Cerone, una frazione a pochi chilometri da Strambino e quindi da Ivrea, dove il corpo di Manuela è stato ritrovato. Ieri pomeriggio il sostituto procuratore della Repubblica di Ivrea, Lorenzo Fornace, ha ordinato un altro sopralluogo. “Stiamo cercando nuovi indizi. Sono emerse novità che potrebbero chiarire molti punti oscuri…” si lascia sfuggire il magistrato.
All’ ispezione era presente anche una testimone, un’ entomologa che, in cerca di insetti, era passata di fronte alla “casa del mostro”, prima e dopo il 2 agosto, e che avrebbe notato qualcosa di strano nella recinzione. “Il cancello era aperto la prima volta che l’ ho visto – avrebbe raccontato la teste – Successivamente era stato chiuso con un catenaccio e poi nuovamente divelto…”. La polizia insiste sull’ ipotesi che si tratti di un omicidio a sfondo sessuale.
“Molto probabilmente, Manuela è morta perchè ha cercato di evitare con tutte le sue forze un’ umiliazione feroce…” dice con una smorfia indignata il vicequestore Maurizio Celia, responsabile del commissariato di Ivrea. “Forse ha chiesto un passaggio verso la sua casa di Strambino – continua il vicequestore – ed ha incontrato qualcuno che l’ ha convinta o costretta a seguirlo in quella casa maledetta…”. Gli investigatori però pensano di trovare indizi più concreti dall’ analisi degli oggetti ritrovati accanto al cadavere di Manuela Petilli. E’ su un biglietto ferroviario della linea Ivrea- Strambino che si è appuntata l’ attenzione degli esperti della Scientifica. La scoperta di impronte digitali sul cartoncino potrebbe rivelare se apparteneva a Manuela o al suo assassino.
“E’ un caso difficile. Per questo lo seguo in primissima persona”, ha spiegato il questore di Torino Carlo Ferrigno che, ieri pomeriggio, ha presieduto un vertice degli investigatori a Ivrea. Ma il vero centro dell’ indagine sembra essersi spostato sulla seconda scena: l’ ambiente familiare di Manuela e le numerose amicizie della ragazza uccisa. Che potrebbe addirittura essere stata uccisa per una vendetta nei confronti dei familiari. Ieri sera sono stati interrogati nuovamente dal capitano dei carabinieri Casale, Raffaella Marchelli, madre di Manuela, il fidanzatino Paolo Lombardi, Rino Dufour, compagno della madre di Lombardi e Claudio Nogara, il convivente della Marchelli.
“Manuela non è stata uccisa il 2 agosto”, ha detto quest’ ultimo. “Due giorni dopo la scomparsa, io e Paolo siamo stati alla casa del mostro. Il cliente di un ristorante ci ha indicato la strada per quel posto dimenticato da Dio. Ci siamo andati. Se Manuela fosse già stata laggiù avremmo trovato qualche traccia, sentito l’ odore del corpo carbonizzato. Sono certo, lei era ancora viva. Chi l’ ha uccisa l’ ha tenuta con sé per qualche giorno”.
Questa giustizia malata fa uscire il killer di mia figlia
A distanza di più di 20 anni non ha dimenticato nulla. Non una virgola, non un istante. I ricordi, impietosi e terribili, tornano ogni giorno a quel 2 agosto del 1993, quando sua figlia Manuela Petilli, all’epoca quattordicenne, fu rapita, portata in un casolare nelle campagne di Ivrea e qui uccisa e bruciata.
Ringo il nomade. L’uomo accusato dell’omicidio, Pietro Ballarin, il nomade sinto che tutti chiamavano Ringo, era stato condannato all’ergastolo. Pochi mesi fa, dal carcere di Torino dove è tuttora rinchiuso, ha chiesto di poter accedere alla semilibertà. Una mazzata per R.M., la mamma di Manuela. Che chiede che il suo nome non venga scritto sul giornale: «Ho due figli. Devo tutelarli e non è giusto che una storia di 20 anni fa li coinvolga». E poi si sfoga: «In tutti questi anni sono morta e rinata migliaia di volte. Sapere che quell’uomo potrebbe tornare libero mi ucciderebbe definitivamente».
Questa, però, è un’altra storia. Una storia che si lega ad un’altra battaglia che oggi R.M. sta combattendo. Quando Ringo le portò via Manuela in quella maniera orribile aveva poco più di 30 anni, ma ha saputo reagire. Con un nuovo compagno e altri due figli.
Breve felicità Uno sprazzo di felicità durato poco, però. Perché nel frattempo la sua vita è risprofondata in un abisso. La nuova relazione andata in frantumi e la necessità di crescere da sola i due bambini dovendo cambiare decine di lavori. Oggi è quasi sul lastrico. «Anche perché, in 15 anni, il mio ex convivente non ha versato un euro di alimenti per i due ragazzi».
La protesta Ieri mattina la donna si è incatenata minacciando di darsi fuoco davanti al Tribunale di Ivrea. Ha voluto sfogare tutta la rabbia covata in questi mesi. «Il mio gesto, istintivo, è contro questa giustizia malata» spiega. «Sapere che Ringo ha chiesto la semilibertà l’ha sconvolta, probabilmente ha anche influito sulla decisione di incatenarsi, ma la sua protesta riguarda tutt’altra vicenda» precisano Patricia Proschwitz Cester e Maria Rosa Barolo, i due avvocati che seguono la causa di R.M. contro l’ex convivente.
La mamma di Manuela, infatti, chiede di ottenere risposte dal Tribunale nella causa contro l’ex compagno. Un processo che continua ad essere rimbalzato da un anno all’altro. Da quando, nell’aprile 2011, aveva denunciato l’uomo per il mancato versamento degli alimenti. Era stata fissata la prima udienza pochi mesi dopo, il primo novembre, ma tutto fu rinviato prima al 5 novembre 2013, poi al 18 dicembre 2014. «Oggi i miei figli hanno 17 e 19 anni, li ho tirati su da sola perché aspetto dal ’98 che loro padre ottemperi ai suoi obblighi. E i giudici che fanno? Se ne infischiano. Chiedo soltanto di essere ascoltata, voglio soltanto udienza». Sono parole che escono di getto, le sue: «Pretendo vengano applicati i nostri diritti, i diritti di una famiglia senza aspettare altri rinvii. Dopo anni di sofferenza merito il mio risarcimento»