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Massimo Vicentini, 43 anni, giocatore di hockey. Ucciso a colpi di pistola dal padre, che ammazza anche la mamma e la sorella (strage di Tempera)

Tempera (L'Aquila), 30 Marzo 2023


Titoli & Articoli

L’Aquila, un uomo stermina la sua famiglia, ma i media ignorano patriarcato e abilismo (Informare un’H – 3 aprile 2023)

Strage a l’Aquila. Un uomo stermina la sua famiglia – la moglie, una figlia ed un figlio con grave disabilità –, poi si suicida. Nei media la narrazione prevalentemente collega gli omicidi alla disabilità del figlio. In realtà se un uomo dispone arbitrariamente della vita della propria moglie e di quella dei suoi figli e figlie, il problema non sono la disabilità, la depressione, il pensionamento o i lutti, come vorrebbero farci credere i media. Il fenomeno è più antico, e si chiama patriarcato. Mentre la propensione a vedere nella presenza della disabilità la causa scatenante di omicidi, altri crimini e varie forme di violenza, si chiama abilismo. Chiamare le cose col loro nome aiuterebbe a fare chiarezza.

Risale solo a pochi giorni fa il tentativo di provare a conteggiare gli episodi di omicidio (tentato o riuscito) ai danni di persone con disabilità attuati negli ultimi anni, qui in Italia, dai loro familiari (se ne legga a questo link), ma il testo appare già superato. Infatti è accaduto ancora, questa volta con una “modalità allargata”. In una villetta a Tempera, frazione de L’Aquila, Carlo Vicentini, 70 anni, primario di urologia nell’Ospedale di Teramo in pensione da circa un mese e docente universitario, ha ucciso il figlio Massimo, una persona con una grave disabilità di 43 anni, la figlia più piccola Alessandra, di 36 anni, nutrizionista nel reparto di oncologia dell’Ospedale di Teramo, e la moglie Carla Pasqua, di 63 anni, un’ex funzionaria amministrativa della ASL del capoluogo abruzzese. Dopo aver ucciso tutti i componenti della sua famiglia, Vicentini si è suicidato. L’uomo avrebbe usato una pistola regolarmente posseduta e denunciata per via della sua grande passione per la caccia. La scoperta dei cadaveri è avvenuta alle 13.30 del 31 marzo, ma la strage risalirebbe a diverse ore prima. Pare anche che abbia lasciato sul tavolo di cucina un biglietto di scuse con pensieri farneticanti.

La notizia rimbalza sui media. Questi alcuni lanci: Medico uccide moglie e figli all’Aquila e poi si suicida, «ANSA», 31 marzo 2023; Chi era Carlo Vicentini, l’urologo che ha ucciso la moglie e i due figli a L’Aquila poi si è suicidato, «Fanpage», 31 marzo 2023; L’Aquila, ex primario uccide la moglie e i due figli. Poi si suicida, «TGCOM24», 1 aprile 2023; Il medico Carlo Vicentini ha lasciato un biglietto «farneticante» prima di uccidere la famiglia: i sospetti sulla disperazione per il figlio disabile, «Open Online», 31 marzo 2023; Il peggioramento del figlio, le frasi farneticanti, i lutti: chi era Carlo Vicentini e perché ha ucciso la sua famiglia, «Open Online», 1 aprile 2023; Alessandra Ziniti, L’Aquila, l’urologo Carlo Vicentini uccide la moglie e i due figli, poi si suicida, «la Repubblica», 31 marzo 2023; Maurizio Di Biagio, Carlo Vicentini, colleghi del primario che ha ucciso moglie e figli sotto choc: «Non ha retto alla sofferenza del figlio», «Il Gazzettino», 2 aprile 2023; Susanna Picone, L’Aquila, Vicentini ha scritto un biglietto con frasi farneticanti: il figlio ucciso sotto le coperte, «Fanpage», 1 aprile 2023.

Molte le parole spese per descrivere l’autore della strage – per lo più di elogio per la vita professionale –, poche, molto poche, per le due donne uccise (la moglie e la figlia), mentre riguardo al figlio è messa in risalto la gravità della disabilità motoria conseguente ad una forma di distrofia muscolare in fase avanzata (che rendeva necessario l’uso di un respiratore). La disabilità di Massimo è presentata come elemento connesso alla strage, qualche volta come unico elemento, nella maggioranza dei casi in combinazione col pensionamento, su alcune testate in concorrenza anche con diversi lutti in famiglia.

Questi sono tre passaggi di un servizio pubblicato su «TGCOM24», ma concetti analoghi si trovano ovunque: «L’ex primario si trovava in uno stato depressivo. Secondo chi lo conosceva bene proprio la gravità delle condizioni del figlio e la paura di non saper gestire la sua fine, insieme al fatto che il pensionamento è stato vissuto da Vicentini come la perdita del lavoro, avrebbero portato il settantenne, un medico di lunga data e a detta di molti con straordinarie capacità e persona sensibile, in uno stato di depressione tale da fargli decidere di cancellare ogni sofferenza per lui e i suoi cari. Una tragedia comunque assurda e inspiegabile che ha gettato nello sconforto e nella disperazione una intera comunità e soprattutto familiari, amici e colleghi del professore dell’Università dell’Aquila ed ex primario urologo all’Ospedale di Teramo» (grassetti nostri, in questa citazione).

«Era un professionista straordinario – ha ricordato il legale della famiglia Emilio Bafile -. Ha sofferto sicuramente per la situazione clinica del figlio che stava poco bene e questa vicenda lo ha segnato. Ovviamente, la sofferenza è arrivata all’estremo e ha maturato questa idea. Le condizioni del figlio hanno pesato molto sulla sua esistenza» (grassetto nel testo originale). «Con l’omicidio del 43enne ad opera del padre, sono tre i disabili uccisi in tre mesi in Abruzzo, con il successivo suicidio o il tentato suicidio del familiare, un disagio crescente tra chi vive una situazione di disabilità in famiglia, come dimostrerebbe anche l’ultimo episodio» (grassetti nostri nella citazione).

Su «Open Online», dopo aver ricordato che l’omicida avrebbe lasciato un biglietto con frasi farneticanti per spiegare il gesto, è narrato che «alla base [ci sarebbe] in primo luogo la condizione, grave, del figlio Massimo. Malato di una dna [i.e.: DMD, distrofia muscolare di Duchenne N.d.R.] distrofia progressivamente invalidante che lo costringeva sulla sedia a rotelle, con l’ausilio di un respiratore e tutto il corollario della complessa assistenza necessaria. Nonostante questo Massimo conduceva, soprattutto grazie ai genitori, una vita molto attiva. Tanto che era riuscito a laurearsi ed era impegnato in molti ambiticompreso quello sportivo» (grassetti nostri). Quindi è introdotto l’elemento del peggioramento delle condizioni del figlio («Le sue condizioni, però, erano peggiorate: a gennaio c’era stato un lungo ricovero. E, a detta delle persone più vicine alla famiglia, suo padre era terrorizzato dall’idea di poterlo perdere»), l’aspetto professionale (il recente pensionamento), ed i numerosi lutti familiari («Prima era morta la cognata sotto le macerie del sisma [del] 2009. Poi i fratelli Gaspare e Alfonso, quest’ultimo in un incidente stradale»), dunque la strage sarebbe la conseguenza di un logoramento connesso a quest’insieme di circostanze.

Questi invece sono due passaggi di un articolo pubblicato sul sito di «la Repubblica»: «L’ex primario di urologia nell’ospedale di Teramo, in pensione da circa un mese, sopraffatto dalla malattia degenerativa del figlio Massimo» (nell’occhiello); «Massimo avrebbe voluto tanto terminare il suo percorso di studi e laurearsi in biologia. Ma la sindrome di Duchenne, una rara forma genetica di distrofia muscolare, lo aveva ormai inchiodato al letto, costretto a dipendere ad un respiratore a 43 anni»; «[Carlo Vicentini], per vent’anni stimatissimo primario di urologia dell’ospedale di Teramo, da quando era andato in pensione, a dicembre, si occupava a tempo pieno di lui [del figlio Massimo, N.d.R.]. Lo accompagnava in tutte le terapie, gli stava accanto giorno e notte nella villetta di famiglia in contrada Tempere, alle porte de L’Aquila. Ma la malattia degenerativa che avanzava inesorabilmente, la prospettiva di assistere ad una chissà quanto lunga agonia di quel figlio così amato destinato a rimanere prigioniero del suo corpo, la paura di non essere in grado di gestire le fasi sempre più complicate della malattia, lo avevano sopraffatto. Come qualsiasi familiare di chi lotta contro una malattia neurodegenerativa. Anche se lui era un medico. Era depresso Carlo Vicentini e giovedì ha deciso che sarebbe stato meglio per tutti finirla così. Un gesto meditato, le scuse al resto della famiglia affidate a un bigliettino lasciato sul tavolo: “Perdonatemi”» (grassetti nostri nella citazione).

Oltre alla narrazione prevalentemente tragica e pietistica della disabilità e di chi ne è interessato, sui media il messaggio prevalente è stato quello che collega gli omicidi alla disabilità di un componete della famiglia.

In realtà se un uomo dispone arbitrariamente della vita della propria moglie e di quella dei suoi figli e figlie, il problema non sono la disabilità, la depressione, il pensionamento o i lutti, come vorrebbero farci credere i media. Il fenomeno è più antico, e si chiama patriarcato. Mentre la propensione a vedere nella presenza della disabilità la causa scatenante di omicidi, altri crimini e varie forme di violenza, si chiama abilismo. Chiamare le cose col loro nome aiuterebbe a fare chiarezza.

Lo scorso febbraio il centro Informare un’h ha lanciato una “Proposta di regolamentazione delle comunicazioni pubbliche sui casi di omicidio-suicidio attuati dai caregiver e dalle caregiver ai danni di sé stessi e della persona con disabilità di cui si curano” (visibile a questo link). Essa è finalizzata a proporre un’interpretazione di questi tragici eventi tesa a prevenire la violenza. La proposta è aperta alla sottoscrizione di chiunque ne condivida la finalità. In calce alla stessa è disponibile l’elenco degli Enti e delle persone che l’hanno sottoscritta sinora.

Simona Lancioni
Responsabile di Informare un’h – Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli di Peccioli (Pisa)

La storia di Massimo Vicentini, ucciso dal padre con tutta la famiglia, e l’epilogo della sua vita: non doveva finire così (la Repubblica – 11 aprile 2023)
Questa settimana, prima della consueta lettera, voglio aprire con una breve introduzione. Purtroppo è avvenuto di recente un fatto di cronaca tragico: un padre ha ucciso tutta la famiglia, compreso il figlio disabile, e poi si è suicidato. Da molta stampa è stato riportato il dramma, tracciando, però, un ritratto scorretto di Massimo Vicentini, il ragazzo disabile ucciso. Per questo mi è sembrato giusto ricordare chi fosse lui realmente. Riporto l’intervista a un suo caro amico ed ex allenatore della squadra di hockey in carrozzina in cui giocava.

Ciao Mattia, se dovessi raccontare chi era Massimo, direi che prima di tutto era un amico e una persona fantastica, come anche la sua famiglia. Veniva da L’Aquila e aveva il desiderio di creare una squadra di hockey in carrozzina, ma nella sua zona era molto complicato. Alla fine, abbiamo fondato una squadra ad Ascoli, che si chiama i Mirmidoni Piceni. Per allenarsi ogni settimana veniva avanti e indietro da L’Aquila. Massimo non era di molte parole, ma ci teneva tanto ai rapporti umani, infatti, quando all’interno della squadra avveniva qualche discussione oppure un litigio, cercava sempre di chiarire la situazione e di trovare una soluzione. Quando mi sono dovuto trasferire a Modena, Massimo aveva paura che la squadra potesse sciogliersi, invece, grazie alla sua determinazione, ha continuato a partecipare ad alcuni campionati e la sua squadra ad oggi è ancora attiva. Noi eravamo legati da una bella amicizia e mi confidava quello che pensava, ad esempio, se c’era qualche ragazza che gli piaceva, mi chiedeva consigli. Non è che un disabile non possa avere amici e magari una fidanzata, invece passa spesso quest’idea che i disabili non possano avere una vita come gli altri.
Era anche una persona molto simpatica e insieme avevamo lavorato a un progetto per la creazione di un fumetto con un protagonista in carrozzina politicamente scorretto, proprio per sdoganare quelle idee sbagliate sulla disabilità. Alla fine, non siamo riusciti a creare il fumetto per motivi economici e perché era difficile trovare un fumettista. Durante il periodo della pandemia, per tenere unita la squadra, Massimo faceva tanti video e meme ironici, per far sorridere e scherzare i compagni di squadra in un momento così difficile. Purtroppo, su alcuni giornali è stato scritto che era una persona depressa e che la famiglia era devastata dalla disabilità del figlio. Tutte cose che non sono assolutamente vere e ciò che più mi è dispiaciuto è che nessuno si sia soffermato a raccontare chi fosse davvero Massimo, quindi ti ringrazio per avermi dato questa opportunità, ricordarlo come merita. Michele

Quando capitano queste tragedie, ci si concentra soprattutto sul fatto di cronaca e, quando in una famiglia c’è una persona disabile, è fin troppo facile dedurre che compiere questi gesti sia quasi inevitabile. Ogni volta dovremmo approfondire le storie di cui stiamo parlando, sicuramente ci sono persone disabili depresse e con famiglie in grave difficoltà, ma non bisogna generalizzare. Bisogna sempre avere molto rispetto delle persone nella loro complessità, invece, quando si parla di qualcuno con una disabilità, la persona passa sempre in secondo piano. Per esperienza personale, contribuire alla creazione di una squadra di hockey carrozzina, come mi è capitato di recente con la mia squadra, i Wolves di Bareggio, non è una cosa semplice. Ci vuole grande passione e determinazione, che Massimo aveva, così come aveva una grande serenità e una vita piena e realizzata, come ci racconta il suo ex allenatore. Un altro aspetto importante evidenziato nell’intervista è che una persona disabile può avere amici, fidanzarsi e sposarsi come qualsiasi altra persona.
Noi disabili non siamo entità astratte e la nostra malattia è solo una parte della nostra vita, non è la nostra vita stessa. Come sempre siamo noi che scegliamo come vivere e quali aspirazioni o inclinazioni seguire, come comportarci nel bene e nel male. Bisognerebbe rovesciare il modo di vedere la disabilità: ad esempio, anziché vedere la carrozzina come un impedimento, andrebbe vista come uno strumento per acquisire autonomia, oppure i macchinari per respirare, non come un fastidio, ma come strumenti per vivere più a lungo. Perché, se continuiamo a raccontare la disabilità come qualcosa che impedisce di vivere, sarà più facile anche arrivare frettolosamente alla conclusione che, se un padre compie un gesto del genere, esso sia quasi un epilogo giustificato.
Purtroppo, in questa vicenda la disabilità c’entra ben poco. E’ stato un gesto terribile e inspiegabile e tale rimane, ma per rispetto di Massimo e della sua famiglia dobbiamo raccontare la verità. Il lavoro dei giornalisti non è facile, ma secondo me rimane fondamentale dire la verità e ricordare le persone come meritano di essere ricordate, altrimenti è meglio dedicarsi ad altri mestieri. Voglio concludere ringraziando Michele, perché immagino che per lui non sia stato facile, ma il suo racconto mi ha aiutato a far conoscere veramente chi era Massimo, disabilità a parte.
Mattia Abbate, l’autore di questa rubrica, è affetto da distrofia muscolare di Duchenne. “Questo spazio – dice – è nato per aiutare chi convive con difficoltà di vario genere ad affrontarle e offre alle persone sane un punto di vista diverso sulla realtà che le circonda”. Segnalate un problema o raccontate una storia positiva di disabilità all’indirizzo e-mail postacelere.mi@repubblica.it o scrivete a Mattia su Instagram www.instagram.com/abbate_mattia/

 

 


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