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Ziadi Moncef, 38 anni, operaio disoccupato, padre. Uccide la moglie con 33 coltellate e getta il corpo nel fiume, poi finge di cercarla. Continua a negare, ma viene condannato a 30 anni

Canneto sull'Oglio (Mantova), 13 Febbraio 2007


Titoli & Articoli

Morte Jessica Poli, il marito nega le accuse (Corriere della Sera – 11 marzo 2007)

Il marito di Jessica tradito dal fiume”Ecco perchè l’abbiamo accusato” (Gazzetta di Mantova – 19 marzo 2007)
Omicidio di Jessica Poli: ecco perchè i pm accusano il marito, il tunisino Ziadi Moncef
Il fiume, lo ha tradito. Le acque placide dell’Oglio, che accarezzano la pianura, acque che lavano via la menzogna, hanno restituito il corpo di Jessica Poli. Il fiume non nasconde mai bugie a lungo. Quando gli uomini ci gettano veleni i pesci muoiono, e i corpi che non vi appartengono tornano a galla. O s’impigliano tra i rovi. In Tunisia, dove è nato, Ziadi Moncef di fiumi non ne aveva mai visti. e non poteva sapere che un corpo gettato nel fiume prima o poi riaffiora. Non come il mare, che se vai al largo i pesci affamati non conoscono la pietà e le correnti fanno impazzire le bussole umane. E’ stato questo, a tradirlo. O, come direbbe lui, lancia in mano, ad incastrarlo. E’ l’uomo dall’alibi perfetto, il marito di Jessica Poli, in carcere con l’accusa di averla uccisa. Scontrini, orari, spiegazioni: aveva studiato tutto. Ma non il fiume. E l’Oglio non glielo ha perdonato. O ha salvato l’assassino. «Fregando me», sempre come direbbe lui.
MEMORIA DA ELEFANTE. L’uomo che non sbaglia mai, che si ricorda a menadito ogni spostamento, ogni telefonata, ogni starnuto dal 13 febbraio in poi, e ti sbatte in faccia le sue certezze come schiaffi, le sue parole come lame, dopo che il corpo violentato da venti coltellate è riemerso a pochi metri dalla riva, è rimasto muto. Basta parole, basta appelli, basta insulti. Basta accuse. E’ stato questo, a portare i sospetti su di lui. La precisione ostentata in ogni occasione, e la memoria. I marescialli dei paesi sull’Oglio, Canneto, Bozzolo, gli investigatori del nucleo operativo di Mantova, i carabinieri di Castiglione, all’inizio lo ascoltavano come fosse un extraterrestre. Per loro, abituati a far sera tra pattuglie, scartoffie, cittadini che si lamentano, topi d’appartamento inafferrabili, rapinatori veloci come il fulmine, mogli che sbuffano perché a casa non li vedono mai, note sui diari dei figli mai lette, cercare un biglietto della spesa è come cercare un ago in un pagliaio. Ricordarsi le scadenze è un miracolo. E ricostruire a che ora sono usciti una settimana fa impossibile. Lui no, ha tutto. Anche se disperato per la scomparsa della moglie, ha schedato tutto; conserva perfino lo scontrino del bar, diavolo d’un uomo. La loro sorpresa, la loro incredulità, la loro diversità sono state le armi «per incastrarlo», come dirà lui, se e quando deciderà di parlare e di difendersi, finalmente.
L’INDAGINE. La storia di quest’indagine è così la storia di un gruppo di uomini che non si sono fatti incantare dalla perfezione, che hanno sentito puzza di bruciato e che hanno voluto grattare via la buccia per scoprire se c’era un incendio o se quel tipo era solo antipatico e loro stavano sbagliando tutto. O, come dirà lui il 6 marzo, davanti al maresciallo Claudio Zanon, sono tutti «razzisti e pasticcioni». Grattano per arrivare alla verità e tremano ad ogni unghiata. «Più i nostri sospetti prendevano corpo, più ci auguravamo di sbagliare» racconta uno di loro. Dopo ogni interrogatorio, dopo ogni giornata sfangata a cercare Jessica nei campi, ostinati come muli, pregavano che fosse scappata con un amante. Di vederla ricomparire e di poterle gridare in faccia la loro rabbia. Per 25 giorni hanno sperato che avesse ragione l’abitante di Casalmoro che segnalava la donna seduta su un ponticello della stretta strada tra Casalmoro a Castelnuovo di Asola. Che quello che l’aveva intravista dietro un cimitero non fosse un visionario.
LE ACCUSE. Ma più Ziadi Moncef inveisce, grida e punta l’indice contro vendette, rappresaglie, amanti, tossicodipendenti, più quel dito assomiglia ad un boomerang che torna verso di lui. Che sembra l’uomo più collaborativo che si possa desiderare. «Voglio solo che mia moglie torni a casa» supplica un giorno sì e l’altro pure davanti alle telecamere. Dimenticando, l’uomo dalla memoria di ferro, di dire che da quella casa Jessica lo aveva cacciato. Il 20 febbraio si presenta spontaneamente in caserma, per ovviare a una dimenticanza, pardon: lei non raddrizza mai le ruote dopo il parcheggio e azzera il contatore. Stavolta non l’ha fatto, quindi c’è qualcosa che non quadra. «Indagate, mon Dieu, cosa aspettate». Purtroppo, nella foga di trovare qualcosa, Moncef compromette le tracce nella vettura. E’ il 20 la giornata chiave. «Ci siamo messi a lavorare pensando che Jessica non fosse fuggita».
I RIS. E il 22 gli inquirenti, per lavorare tranquilli, fanno trapelare l’indiscrezione che si tratti di una fuga premeditata. Nel frattempo, la Fiesta di Jessica finisce in strada Farnese, a Parma, tra le mani dei Ris. Lui plaude, e s’informa. Vuole sapere tutto. «Mandava segnali non verbali che ci rimanevano addosso – ricorda un investigatore – Troppo esuberante, collaborativo, vicino, sempre presente. Voleva controllare tutto. E si muoveva a scatti». Nervoso come un gatto. Un dettaglio che, racconta oggi Renza Volpini, la madre di Jessica, lascia sconcertata anche lei. «Anziché essere abbattuto per la sparizione di Jessica, triste per il bambino che cercava la mamma, o chiedersi il motivo per cui sua moglie era scomparsa, visto che diceva di credere questo, era nervoso, agitato». E accusava: Jessica, una specie di errore ambulante, e le sue amicizie, sbagliate pure quelle. «Per lui era un’ossessione. Era come se desse la colpa a lei». La signora Renza ne parla con i carabinieri, e loro le chiedono di stare tranquilla. Anzi, di fare l’indiana, e di invitarlo pure a pranzo con il bimbo. «Sono stati bravissimi, mi hanno tenuto calma, e intanto potevo tenerlo sotto controllo. Io avevo una paura folle che volesse portare via il bambino».
LA FORZA. Andava e veniva da casa, iperattivo. Strana, tutta quest’energia, «per uno che sta vivendo un dramma del genere – commenta un investigatore – Una persona quando soffre tanto si affloscia, davanti a sè vede solo il vuoto. Un tunisino, poi, ancora di più. Nella loro cultura la donna è una presenza molto forte, soprattutto in casa. Quando manca, un uomo si sente perso. Ma lui era tutto meno che perso. Orientatissimo». Come le apparizioni televisive, gli appelli strappalacrime. Da una parte i manifesti, che Moncef appiccica ovunque con gli occhi lucidi e i movimenti febbrili, dall’altra un manipolo di uomini che non gli credono, come direbbe lui, e fanno i turni ad alzarsi alle tre di mattina per tallonarlo senza farsi smascherare. «Ormai avevamo gli orari dei pasticceri». Al posto di cannoli e brioches però inghiottono sconfitte e giorni che passano senza che si cavi un ragno dal buco. E subiscono i suoi insulti: «siete razzisti e buoni a nulla». «Ci attaccava frontalmente perché non corrispondevamo ai suoi standard di polizia». Il manipolo di tupamaros, come direbbe lui, va a chiacchierare coi tunisini della zona, le sole persone degne di essere frequentate da Jessica, secondo il vangelo di Moncef.
LA GELOSIA. Non emerge nulla, se non il ritratto di un uomo iperpossessivo e geloso fino alla paranoia, uno che non ha esitato a inginocchiarsi e a baciarle i piedi quando nel 2005 lei voleva mollarlo, e di una donna profondamente legata al suo bimbo. «Una che non avrebbe mai comprato un giocattolo per poi lasciarlo in auto». Sono sensazioni, flash, niente che possa reggere un faccia a faccia. «Dovevamo muoverci con i piedi di piombo. Se avesse preso il bambino e fosse scappato non ce lo saremmo perdonati. E non potevamo cercare conferme ai nostri sospetti nella madre di Jessica per non toglierle la speranza». Moncef, con la mano ferita, si sfoga con la suocera, per la scomparsa della moglie. «Anche la mia famiglia, in Tunisia, è distrutta». L’unica a rispondergli per le rime è nonna Maria, con un sano «Se fossero tanto addolorati si farebbero sentire, quindi non dire balle». Le balle: un evergreen, per Moncef, secondo i familiari di Jessica. «Quando l’abbiamo conosciuto ci ha detto che era orfano di madre, poi un giorno l’ha fatta risorgere». Solo uno scivolone, «problemi di lingua».
IL SANGUE. Il 6 marzo le tracce di sangue, ‘profilo misto’, trovate dai Ris nell’auto di Jessica sono l’inchiostro con cui scrivono le accuse: omicidio volontario e occultamento di cadavere. Moncef sbiella, minaccia di denunciare i carabinieri alla corte di Strasburgo, ma invece di spaventarli aggiunge un tassello in più: quando gli si dà torto impazzisce, perde il controllo e, forte com’è, «potrebbe fare qualsiasi cosa». Pregiudizi, dirà lui, quando si difenderà. «La tecnologia supera la bugia» insegnava Ziadi Moncef ai carabinieri, con l’indice alzato a fine febbraio, per spronarli a lavorare. «E’ stato il nostro faro».

Ziadi in carcere per trent’anniLa madre di Jessica: “Sono soddisfatta” (Gazzetta di Modena – 7 maggio 2008)
E’ stato condannato a trent’anni di carcere Ziadi Moncef, 39 anni, ritenuto responsabile dell’uccisione della moglie Jessica Poli. E’ una condanna giusta?
Trent’anni di carcere, interdizione perpetua dai pubblici uffici e interdizione legale con decadenza della potestà di genitore per lo stesso periodo della pena. Questa la condanna inflitta ieri a Ziadi Moncef, 39 anni, il tunisino processato per l’assassinio della moglie.
Jessica Poli fu assassinata il 13 febbraio dello scorso anno con 33 coltellate, poi il suo corpo dopo essere rimasto una notte nascosto, pare, sotto in cespuglio, è stata gettato nel fiueme Oglio nei pressi di Bozzolo. Il movente sarebbe riconducibile alla gelosia. La moglie non voleva più vivere con lui. Gli aveva dato lo sfratto. Entro il 15 dello stesso mese, infatti, avrebbe dovuto lasciare la casa. In un diario scritto di suo pugno, alcune frasi di Moncef lasciano intuire il movente. Ziadi, piuttosto nervoso, è rimasto in aula solo metà processo.
Il tempo di ascoltare la requisitoria e la pesantissima richiesta della pubblica accusa e di fare alcune dichiarazioni spontanee, nel corso delle quali ha ribadito la sua estraneità ai fatti, dicendo anche che lui amava Jessica, che se avesse voluto ucciderla avrebbe avuto tante altre occasioni. Ha aggiunto anche che si doveva indagare in altre direzioni. Insomma, una serrata autodifesa. Poi ha chiesto di tornare in cella. Appena giunto nel cortile del tribunale, incrociando i parenti di Jessica, avrebbe accennato ad uno sputo in segno di disprezzo, scatenando la loro reazione. La sentenza della pesante condanna a Ziadi Moncef è stata letta alle 19,30 di ieri dopo un’ora e mezza di camera di consiglio. Soddisfazione è stata espressa dal Pm Marco Martani: «E’ stato confermato in pieno – ha detto – l’impianto accusatorio, quindi mi ritengo contento».
Delusione è stata espressa invece dai difensori Tarchini e Somenzi. «Gli indizi – hanno detto – sono molto labili, comprese le tracce ematiche. Non è stato provato che si tratti di sangue. E poi bisognava indagare a fondo sulla personalità della vittima. Riteniamo che questo sia un processo destinata finire in Cassazione».
«Sono soddisfatta – ha sottolineato tra le lacrime la madre di Jessica, Enza Volpini – perchè 30 anni non sono pochi. Felice anche perchè il giudice ha ritenuto decaduta la patria potestà. E ciò mi dà un po’ di sollievo, anche se nessuno può restituirmi mia figlia. Ora tutte le mie attenzioni sono rivolte al piccolo Omar. Speriamo che crescendo, possa superare questo trauma. Intanto cerchiamo di aiutarlo attraverso una psicologa».
Il giudice Gianfranco Villani ha anche disposto una provvisionale di 25 mila euro ciascuno per Enza Volpini ed Enrico Poli, genitori della vittima, Jessica, 33 anni, crivellata di coltellate il 13 debbraio 2007, che si erano costituiti parte civile con il nipotino Omar, 5 anni, per il quale la provvisionale è stata fissata in 30 mila euro. Il pubblico ministero Marco Martani aveva chiesto invece l’ergastolo mentre i difensori Cristina Tarchini e Sandro Somenzi avevano concluso chiedendo in principalità l’assoluzione per non aver commesso il fatto e in subordine la derubricazione del reato di soppressione in occultamento di cadavere, la concessione delle attenuanti generiche, quindi il minimo della pena. I legali di parte civile, Bianca Maria Momoli per i genitori di Jessica e Chiara Magalini per il piccolo Omar hanno chiesto, infine, una provvisionale di 25 e 100 mila.
Il giudice – il processo è stato celebrato col rito abbreviato – ha accolto in pieno l’assunto accusatorio. Nonostante ciò, Ziadi Moncef è riuscito ad evitare l’ergastolo perchè il dottor Villani ha evidentemente ritenuto che gli altri due reati contestati al tunisino – la soppressione di cadavere e il porto abusivo di coltello – non fossero tali da determinare una pena superiore ai 5 anni, che avrebbe fatto scattare, appunto, il carcere a vita.
Il Pm ha sostenuto che gli indizi erano più che sufficienti per dimostrare la colpevolezza di Ziadi essendo certi, precisi e concordanti. Ha poi insistito sulle tracce ematiche, una delle quali mista, trovate sull’auto di Jessica. I difensori hanno invece insistito su due elementi di un processo «del tutto indiziario». Indizi che – hanno detto – non erano nè certi, n’è precisi e tantomeno concordanti. Somenzi ha evidenziato il fatto che la sera della scomparsa, Jessica aveva detto di dover uscire con un’amica. Ciò che non è avvenuto, mentre la Tarchini, si è soffermata soprattutto sulla tempistica, affermando che Ziadi non aveva il tempo per uccidere.

 

L’uxoricida in cella: non mi hanno capito (Gazzetta di Mantova – 15 ottobre 2014)
«Ero caduto in depressione, ho cominciato a prendere psicofarmaci, a bere e a drogarmi. Ho tentato il suicidio. Ho perso il controllo fino a compiere quel gesto terribile di uccidere mia moglie». Sono le parole di Ziadi Moncef, il tunisino condannato a 30 anni per l’omicidio della moglie Jessica Poli, accoltellata e poi gettata nelle acque dell’Oglio nel marzo del 2007. L’uomo in carcere a Pavia collabora con la redazione di “Ristretti orizzonti” e la sua lettera è stata pubblicata su un blog di condannati all’ergastolo, “Urla dal silenzio”.
Ziadi, che prima del ritrovamento del cadavere sotto il ponte tra Bozzolo e Marcaria, aveva cercato di portare gli investigatori sulla falsa pista della fuga volontaria, ora torna all’attacco, puntando il dito contro la situazione familiare complicata e in particolare contro la suocera, a cui attribuisce un comportamento invadente e addirittura seducente nei suo confronti.
«Io provavo un forte imbarazzo, era una situazione insostenibile e non riuscivo a spiegarlo a mia moglie. Non sono stato capito». Ziadi racconta che ad un certo punto Jessica aveva cominciato ad accusarlo di essere cambiato, «pensava che avessi trovato un’altra donna e che volevo allontanarla da sua madre. A volte mi diceva che ero sempre legato alla mentalità araba, che volevo dominare tutto. Non capivo più nulla. Una sera stavo per fare un incidente mortale con il mio camion così arrivo anche a perdere il lavoro e vado in crisi totale». Dalle indagini dei carabinieri era emerso invece che l’uomo aveva ucciso la moglie perché lei voleva lasciarlo e gli aveva chiesto di uscire di casa.


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