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Mohamed Aziz el Mountassir detto Simone, 52 anni, giardiniere, padre. Uccide l’ex moglie davanti alla figlia tredicenne. Non era in carcere nonostante tre denunce per tentato omicidio

Albenga (Genova), 2 Giugno 2015

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Il delitto di Loredana Colucci e gli arresti negati all’ex marito: quando la Giustizia non valuta adeguatamente i rischi in ballo

I magistrati litigano su Loredana Colucci uccisa dal marito: “Il GiPp Filippo Maffeo rifiutò per tre volte di arrestare l’ex”
Quella di Loredana Colucci, accoltellata ferocemente dall’ex marito, era una morte annunciata. E sulla vicenda ora si accapigliano i magistrati della Procura di Savona, dove il gip Filippo Maffeo rifiutò per tre volte di arrestare l’uomo che perseguitava Loredana, Mohamed El Mountassir, perché non accettava la fine del matrimonio.
Il femminicidio è avvenuto il 2 giugno nella casa di Albenga, El Montassir ha ucciso la Colucci davanti alla figlia di 13 anni. Al quotidiano La Repubblica il procuratore capo di Savona si sfoga contro Maffeo, il quale era stato trasferito nel 2009 in Toscana dopo una denuncia per stalking da parte di una collega: “Io, rispetto a quanto accaduto ad Albenga, mi sono fatto una convinzione, che tanti colleghi del mio ufficio condividono, ma penso che quando uno fa il magistrato, sia che si occupi di penale che di civile, deve dimostrare di avere i coglioni. Quando invece fa vedere che lui non c’entra nulla e cerca di scaricare la responsabilità sugli altri, a me non piace”, ha detto Francantonio Granero riferendosi alle interviste che Maffeo ha concesso in questi giorni alla stampa per spiegare le ragioni per le quali non ha mai acconsentito all’arresto di El Mountassir. Dal ministero della Giustizia sono già stati inviati gli ispettori, mentre del caso si occuperà il Csm.
Rimane il fatto che Loredana, nonostante le continue denunce a carico dell’ex marito, non ha ricevuto la protezione adeguata dalla magistratura.
L’ultimo esposto risale allo scorso dicembre per maltrattamenti e violenze, i carabinieri di Albenga arrestarono il 51enne che dopo la scarcerazione tornò a tormentare la donna. A marzo l’avvocato dell’uomo di origine marocchina chiese il patteggiamento, il pm si oppose perché preoccupato di quanto sarebbe potuto accadere. A quel punto arrivò Maffeo nella veste di gip, che si oppose continuamente alle richieste di un nuovo arresto di El Mountassir e, anzi, all’ultima udienza concesse la decadenza della pregiudiziale sulla condizionale: l’ex marito di Loredana in questo modo ha avuto anche la libertà di avvicinarsi alla casa della donna e della figlia, senza che nessuno potesse fare nulla per fermarlo.

“Non sono Frate Indovino: ho solo applicato la legge”
«Come vuole che ci si senta, quando ci sono stati due morti? Uno ci pensa tutta la notte, si chiede se ha sbagliato qualcosa. Però non ho sbagliato, ho fatto il massimo che la legge mi permettesse». Filippo Maffeo, 65 anni, è giudice del tribunale di Savona. È il magistrato che, il 28 aprile, ha accettato il patteggiamento a due anni di Mohamed Aziz el Mountassir, il marocchino che ad Albenga ha ucciso a coltellate la moglie Loredana Colucci davanti agli occhi della figlia di 13 anni, per poi togliersi la vita. Dopo il patteggiamento per maltrattamenti in famiglia Mohamed, incensurato, è tornato in libertà per la condizionale. Era finito sotto processo, dopo poco meno di due mesi di carcere, per aver aggredito e messo le mani al collo alla moglie, dopo che quest’ultima aveva deciso di andarsene di casa. Prima del processo gli era stato ordinato di non avvicinarsi a meno di 100 metri da Loredana. Dopo, nemmeno più quel vincolo.
Dottor Maffeo, non poteva almeno decidere qualche limitazione in più, rispetto a una totale libertà di movimento per quell’uomo?
«Non potevo. Bisogna conoscere le cose, prima di parlare. Il giudice applica la legge e la legge, stavolta, è chiara» . Sfoglia, Maffeo, il codice di procedura penale, articolo 300: “Le misure perdono efficacia se la pena irrogata è condizionalmente sospesa”.
Vuol dire che, anche in questa situazione, la giustizia aveva le mani legate?
«Dico che il giudice dell’udienza preliminare si trova ad affrontare un caso di cui sa i dettagli quella mattina stessa. Era un caso singolo, il reato applicato, quello di maltrattamenti in famiglia, è un reato grave. E una pena di due anni con il patteggiamento è una pena alta, se si tiene conto dello sconto».
Non poteva, sostiene lei, essere più severo.
«Il giudice deve giudicare su quel che si sa, su quel che è stato chiarito. Non su quello che potrebbe essere oppure che sarà. Non è Frate Indovino. Diciamo la verità: nemmeno ora si conosce, con esattezza, che cos’è accaduto in quella casa, quella della tragedia».
Pensa che la legge non tuteli abbastanza le vittime?
«In generale, temo che contro la follia umana anche la giustizia possa far poco. Ragionassi da “sbirro”,potrei dire: lo arresto e lo metto dentro comunque. Ma poi? Per quanto? Per tutta la vita? E sulla base di quale legge? E poi, siamo sicuri che un divieto di avvicinamento possa davvero servire a qualcosa?».
Il rammarico?
«Il rammarico è umano. Ma io sono un uomo di legge e di giustizia e queste sono le armi che ho e che rispetto. Anche se la giustizia mi ha maltrattato».
Qui il discorso prende un’altra piega. Perché Filippo Maffeo è il magistrato che, nel 2009, è stato protagonista di un caso finito al centro delle cronache. Trasferito d’ufficio in Toscana dalla procura di Imperia dopo una querelle con un’altra collega. Lui puntò il dito contro la sua incompatibilità, perché aveva una sorella avvocato che esercitava nello stesso distretto giudiziario. Lei reagì sostenendo che si trattava di una reazione di stizza. E parlò di una lunga serie di sms ricevuti da Maffeo, un tambureggiamento quotidiano che aveva turbato la sua serenità. Il testo di quei messaggi non è mai stato rivelato. Lo è oggi, almeno secondo la denuncia presentata allora dalla pm ai superiori gerarchici: «Sei una donna di intelligenza superiore, di cultura, di splendido intelletto»; «Dimmi dove vai a correre oggi e ti raggiungo»; «Se devi andare a Genova ti accompagno io, devo parlarti di una cosa importante»; «Non mi merito il tuo silenzio»; «Allora sparisco per sempre». Lei parlò di una situazione di grave imbarazzo. Il Csm decise per un doppio trasferimento. Lei a Sanremo. Lui in Toscana. E’ tornato a Savona lo scorso 23 marzo.
Dottor Maffeo, come qualificò il Csm il suo comportamento?
«Come stalking».
Lo fu?
«Dico solo una cosa: ritengo di non aver mai travalicato un semplice rapporto di confidenza tra colleghi. E’ stato preso per oro colato quel che è stato detto. Secondo lei sono mai stato esaudito, nella mia richiesta di controllare i tabulati e i telefonini per sapere quando avrei scritto quei messaggi? No. Preso e trasferito, perché “la vicenda era finita sui giornali”. Sono stato anche accusato di “identificarmi con l’ufficio”. È una colpa?».
Ritiene che la giustizia sia stata ingiusta con lei?
«So che un’indagine che stavo conducendo, culminata nel sequestro della discarica di Ponticelli, è finita nel nulla quando sono stato trasferito. Quasi tutti i reati sono ormai prescritti. Lì vedo l’origine dei miei guai».
La vicenda di stalking di cui è stato accusato, sia pure in sede disciplinare, evidentemente le pesa se ne parla ancora. Lei è stato sereno nel giudicare un episodio come quest’ultimo?
«Sereno, sulla base di quello che ho conosciuto e ho potuto appurare. Ho fatto quello che un giudice poteva fare».

IL SOSTITUTO PROCURATORE DEL TRIBUNALE DI IMPERIA FILIPPO MAFFEO

Stalking nei confronti dell’ex collega di Imperia: Filippo Maffeo punito anche dalla Corte di Cassazione
Due mesi di anzianità perduti e il trasferimento in Toscana che è diventato definitivo. E’ il provvedimento discplinare adottato contro l’ex magistrato della Procura di Imperia Filippo Maffeo, provvedimento che è stato confermato dalla sezione Unite Civili della Cassazione a cui si era rivolto Maffeo con un ricorso, e che fotocopia dunque il primo verdetto punitivo della sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura che aveva incolpato Maffeo di stalking nei confronti della collega Paola Marrali, ora in servizio alla Procura di Sanremo dopo esserci andata su sua richiesta.
All’epoca dei fatti, si parla di più di due anni fa ormai, la dottoressa Marrali si era rivolta ai propri superiori segnalando una serie di comportamenti, da parte del collega Maffeo, sconfinati in veri e propri atti persecutori: Maffeo le avrebbe mandato sms dal contenuto ambiguo, si sarebbe fiondato nel suo ufficio senza che ci fossero motivi di carattere professionale, avrebbe chiesto continuamente di incontrarla anche fuori dall’ambito lavorativo. Alla fine il Csm, dopo una lunga e delicata indagine interna, aveva deciso di trasferire Maffeo togliendogli due mesi di anzianità per tutta una serie di incolpazioni rientranti in una sospetta condotta assillante e molesta. Alcune contestazioni sono state fatte cadere dalla Cassazione ma non l’accusa più grave, quella di stalking che, stando alle parole dei giudici della Cassazione, “ha causato profondo turbamento alla vita personale e familiare della dottoressa Marrali, con lesione del prestigio della magistratura in considerazione della notorietà che detta condotta aveva ricevuto”. 
Con riferimento al secondo illecito, prosegue il provvedimento della Cassazione nel motivare il verdetto, conta “il fatto di avere, con la condotta ossessiva di cui al primo, creato pregiudizio allo svolgimento del lavoro della collega Marrali, entrando continuamente nel suo ufficio per sollecitare incontri, trattenendovisi ogni volta a lungo nonostante le chiare manifestazioni di insofferenza oppostegli, nonché di avere inviato alla collega, a seguito del netto rifiuto dalla stessa oppostogli, una lettera con la quale segnalava la situazione di incompatibilità in cui la medesima collega si sarebbe trovata a causa dell’esercizio della professione legale da parte della sorella, e di avere poi segnalato la detta incompatibilità al Consiglio superiore della magistratura”.
La Sezione disciplinare dopo avere riportato il contenuto delle dichiarazioni rese dalla donna ‘vittima’ delle attenzioni e quelle dell’ufficio difensivo del sostituto procuratore, ha preso in esame le risultanze dell’indagine disciplinare e delle asserzioni esposte nel corso dell’udienza disciplinare, giungendo alla conclusione che le condotte riferite dalla collega “avevano trovato riscontro nelle risultanze istruttorie”. La stessa Sezione ha dunque valutato  le condotte contestate pienamente integranti il reato di cui all’art. 612-bis del Codice Penale,”essendosi una parte della condotta e il momento finale della consumazione del reato, di natura abituale, verificatisi dopo l’entrata in vigore del D.L. n. 11 del 2009 (25 febbraio 2009), con conseguente assoggettamento delle condotte stesse alla nuova fattispecie di reato”.
Con attinenza agli elementi costitutivi del reato, la Sezione ha ritenuto comprovato che la condotta dell’uomo avesse procurato nella collega “una forma ansiosa evidente”. La Sezione disciplinare ha reputato provato anche il secondo degli illeciti contestati, attestato che il comportamento sotto accusa, oltre ad integrare la fattispecie di cui all’art. 612-bis cod. pen., veniva a costituire un “comportamento abitualmente e gravemente scorretto nei confronti di un altro magistrato”, condotta, questa, prevista dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. d). Quanto alla determinazione della sanzione, la Sezione, tenendo in considerazione le caratteristiche dei fatti contestati, la situazione di disagio complessivo provocato nell’ufficio di appartenenza nonché la grave lesione al prestigio dell’ordine giudiziario e dell’immagine del magistrato incolpato, ha optato per l’inflizione della “sanzione della perdita di anzianità di mesi due, con applicazione della sanzione accessoria del trasferimento d’ufficio, confermando la destinazione dell’incriminato alla funzione di magistrato distrettuale requirente presso la Corte d’appello di Firenze”.


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