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Massimo Bossetti, 44 anni, muratore, sposato, padre. Sequestra e sevizia una tredicenne, la tramortisce, tenta una violenza sessuale e la lascia morire di freddo in un campo. Viene rintracciato attraverso il DNA. Condannato all’ergastolo confermato in Cassazione

Brembate di Sopra (Bergamo), 26 Novembre 2010


Titoli & Articoli

Yara Gambirasio fu uccisa “vigliaccamente”: le motivazioni con cui è stato confermato l’ergastolo per Bossetti (Huffington Post – 16 ottobre 2017)
I guidici: “Una ragazzina debole e indifesa, aggredita per motivi sicuramente spregevoli e dai contorni sessuali”. Annunciato ricorso in Cassazione
L’inaudita gravità del fatto”, commesso “vigliaccamente” ai danni di “una ragazzina debole e indifesa, aggredita per motivi sicuramente spregevoli”, la “notevole intensità” del dolo e la “condotta contemporanea e susseguente al reato” fanno sì che Massimo Bossetti debba essere condannato all’ergastolo per l’omicidio della tredicenne Yara Gambirasio e che al muratore non debbano nemmeno essere concesse le attenuanti generiche. I giudici della Corte d’assise d’appello di Brescia, presieduti da Enrico Fischetti, usano parole di una durezza inusitata per confermare la sentenza emessa dai loro colleghi bergamaschi che avevano deciso il carcere a vita per Bossetti che continua a proclamarsi innocente e i cui difensori, Claudio Salvagni e Paolo Camporini, ricorreranno in Cassazione.
Le finalità dell’aggressione di Yara, che sparì dalla palestra di Brembate di Sopra il 26 novembre del 2010, a poca distanza da casa, per essere poi ritrovata morta tre mesi dopo in un campo di Cignolo d’Isola, furono “dai contorni sessuali” secondo i giudici perché Yara respinse le sue avances. Lo dimostrano la dinamica dell’omicidio, il fatto che Bossetti si aggirò con il proprio autocarro “in attesa di qualcuno” nei pressi della palestra, mentre dalle analisi dei suoi computer si deduce “un insistente e perdurante interesse” per “adolescenti in età puberale” e perché, infine, anche il contenuto delle lettere con la detenuta Gina nel carcere di Bergamo “dimostrano come Bossetti avesse pulsioni sessuali così intense da manifestarle a una persona mai vista prima né contattata personalmente”.
Al di là di questo, per la Corte “non solo l’imputato è raggiunto dalla prova generica granitica” del Dna “diretta in quanto rappresentativa direttamente del fatto da provare, collocandolo sul luogo dell’omicidio” – una “firma” dell’assassino – ma anche “da una serie di elementi indiretti che uniti consentono di giungere a una sicura affermazione di responsabilità”. Prova del Dna valida perché “non sono stati violati i principi del contraddittorio e delle ragioni difensive” e “si deve ribadire quindi ancora una volta e con chiarezza che un’eventuale perizia, chiesta a gran voce dalla difesa e dall’ imputato, consentirebbe un mero controllo tecnico sul materiale documentale e sull’operato del Ris”, perché “non vi sono più campioni di materiale genetico in misura idonea a consentire nuove amplificazioni e tipizzazioni”.
Se i giudici non lesinano critiche all’atteggiamento processuale di Bossetti, non meno stigmatizzano la tentata spettacolarizzazione del dibattimento che, “oltre a svolgersi nelle aule di giustizia si è svolto parallelamente sui media, alimentandosi di notizie vere e false, senza peraltro in alcun modo influenzare la regolarità e serenità del processo giudiziario”. Un passaggio delle motivazioni è stato dedicato all’immagine satellitare del 24 gennaio 2011 che i difensori hanno cercato di fare entrare nel processo per mettere in dubbio che la tredicenne fosse stata uccisa nel campo dove fu trovato il corpo. Per i giudici, in quell’immagine “non si distingue assolutamente nulla” e anche l’ingrandimento al computer la rende sgranata “rendendola indecifrabile”.

Omicidio Yara, Massimo Bossetti oggi: “Sono un prigioniero di Stato” (TPI News – 25 ottobre 2018)
“Sono due giorni che sto qui disteso, due giorni che non mangio, solo frutta”. A parlare dal carcere di Bergamo è Massimo Bossetti, condannato in via definitiva dalla Cassazione per l’omicidio di Yara Gambirasio. L’ex muratore di Mapello si è sempre proclamato innocente. E continua a gridare la sua estraneità ai fatti: “Vivo solo il presente. Mi è crollato tutto, non credo più nella giustizia. Sono stato condannato senza avere la possibilità di difendermi. Ogni sera speravo che i giudici mi dessero la perizia. Adesso mi sento addosso un peso enorme. Mi sento un prigioniero di Stato” si sfoga Bossetti, così come riportato da Il Giorno dopo la visita di un politico.
Il quotidiano scrive: «Sono in vita per la mia famiglia. Grazie a Dio la mia famiglia mi è rimasta vicino». È a questo punto che Massimo Bossetti scoppia in pianto. Parla dei tre figli che non smettono di interrogarlo sul ritorno a casa. Per questo non si è ancora sentito di rivederli dopo il pronunciamento della Suprema Corte” Venerdì 12 ottobre 2018 la Corte di Cassazione ha confermato l’ergastolo per Massimo Bossetti, unico imputato per l’omicidio di Yara Gambirasio.

 

Omicidio Yara: “Chi crede ancora che Bossetti sia innocente ha le idee confuse” (il Giornale – 21 luglio 2023)
Roberta Bruzzone e Laura Marinaro hanno scritto un libro molto esaustivo sulla vicenda criminale e giudiziaria relativa all’omicidio di Yara Gambirasio.
La ricostruzione di un giallo ma senza mai perdere di vista la vittima. Yara – Autopsia di un’indagine di Roberta

YARA. AUTOPSIA DI UN’INDAGINE

Bruzzone e Laura Marinaro è un libro che, come si evince dal titolo, parla dell’omicidio di Yara Gambirasio. Per tutte le pagine, la giovanissima vittima resta al centro di queste pagine che sono a lei dedicate. È stato scritto molto sulla vicenda, ma esiste in questo volume un innegabile punto di forza: raccontare le testimonianze così come sono avvenute in tribunale, tentare di spiegare il fenomeno per cui molte persone sono convinte oggi dell’innocenza di Massimo Giuseppe Bossetti – condannato in tre gradi di giudizio all’ergastolo – chiarire cosa abbia motivato la condanna allo stesso Bossetti.
Yara Gambirario scomparve nel pomeriggio del 26 novembre 2010 da Brembate di Sopra, dopo una breve visita nella palestra in cui era solita allenarsi. Nonostante le capillari ricerche, il suo corpo fu trovato il 26 febbraio 2011 in un campo di Chignolo d’Isola. Bossetti divenne indagato, imputato e condannato per via del suo Dna, rintracciato a seguito di una complessa ricerca genetica che seguì l’isolamento del profilo di Ignoto 1 su alcuni vestiti della ragazzina.
“Continuiamo a raccontare questa storia – spiega la criminologa Bruzzone a IlGiornale.it – perché ancora ci sono persone convinte che la vicenda giudiziaria abbia prodotto un errore, cosa che assolutamente non ha fatto. E ancora stiamo qui a discutere di reperti da riesaminare, ma in realtà la difesa non è mai riuscita a mettere in discussione le perizie sul Dna e ha avuto tutte le opportunità per farlo, perché 45 udienze di processo di primo grado, in larga parte dedicate al Dna, hanno ampiamente dimostrato che forse la difesa non aveva strumenti per mettere in discussione quella traccia. Abbiamo voluto raccontare questa storia attraverso le carte, attraverso i processi e attraverso anche le parole dette dai protagonisti di questa vicenda, per dare a chiunque ne abbia volontà l’opportunità di affidarsi a una fonte decisamente affidabile”.
Dottoressa Bruzzone, perché molte persone credono all’innocenza di Bossetti?
“Perché non hanno idea di quello di cui parlano, semplicemente, e si sono fatti convincere da una narrazione assolutamente priva di fondamento. Gli innocentisti sono soggetti che non posseggono strumenti culturali per affacciarsi a questo tipo di argomentazioni, che non conoscono nello specifico quello che il caso ha prodotto sia in termini di consulenze tecniche che di udienze processuali. Di conseguenza è facile convincerli di una narrazione completamente priva di fondamenti. Per credere all’innocenza di Bossetti bisogna avere poche idee molto confuse sul caso”.
Sotto il profilo criminologico, nel libro si spiega che Bossetti potrebbe rientrare tra i child molester situazionali, nella sottocategoria child molester regressivi. Di cosa si tratta?
“Si tratta di soggetti che non hanno un interesse sessuale esclusivo nei confronti dei minori, ma che conservano anche quella parte di fantasie che può emergere quando il soggetto affronta momenti di particolare criticità della sua vita normale, soprattutto quando affronta periodi di gravi problematiche a carico delle relazioni più significative. Perché io mi sono orientata in questa direzione? Perché Bossetti, proprio nella settimana in cui è maturato l’omicidio di Yara Gambirasio, aveva un problema, una criticità enorme con la moglie. Non si parlavano praticamente, c’era un problema molto serio. Circostanza confermata anche dalla moglie di Bossetti: proprio in quella settimana avevano interrotto qualunque tipo di comunicazione. Questo è certificato anche dai tabulati telefonici. Quella settimana Bossetti era particolarmente, diciamo, in difficoltà anche dal punto di vista emotivo. E a quel punto questa parte delle sue fantasie parafiliche è emersa prepotentemente”.
Avete dedicato molto spazio dettagliato a Yara Gambirasio e alla sua famiglia.
“Abbiamo voluto fortemente rimettere Yara al centro della narrazione. Sia lei, che la sua famiglia. Perché in questi anni Yara si è un po’ persa di vista, è stata fagocitata da Bossetti fondamentalmente, dai racconti su di lui, dall’attenzione su di lui. È per questo che il libro è dedicato a lei”.
Perché è stato fondamentale nelle indagini il Dna misto di vittima e aggressore e su quali indumenti è stato trovato?
“Il Dna è stato isolato in particolare sulle mutandine di Yara e sui leggings, è un profilo completo, con tutti gli indicatori, sia quelli sessuali che autosomici, e ha consentito l’individuazione di un profilo perfettamente comparabile in tutte le sue componenti. E questo non accade quasi mai dal punto di vista investigativo, perché c’era una sovrabbondanza di traccia riconducibile all’aggressore, ossia Massimo Giuseppe Bossetti. Questo ha consentito una profilazione genetica assolutamente affidabile e che infatti la difesa non è mai riuscita, neppure in maniera minimale, a scalfire”.
La copertura mediatica, talvolta non esaustiva, di indagini e processi incide sulla polarizzazione dell’opinione pubblica?
“Sicuramente sì, perché alcune storie vengono raccontate in maniera parziale, giocoforza, perché chiaramente i tempi televisivi non sono gli stessi né dell’inchiesta né del processo, perciò è evidente che alcune informazioni, alcuni passaggi importanti spesso vengono in qualche modo diluiti nel racconto mediatico. E questo può far sì che qualcuno generi delle suggestioni in grado di manipolare l’opinione pubblica. Ma solitamente chi conosce i fatti, chi ha studiato approfonditamente le carte dell’inchiesta e le carte processuali, a queste suggestioni sfugge senza difficoltà”.
Una parte del libro si concentra su Marita Comi, moglie di Bossetti. Perché è importante questa figura ai fini dell’indagine e del processo?
“La figura di Marita Comi è sicuramente importante, noi l’abbiamo tratteggiata in base alle informazioni disponibili agli atti, perché ci hanno colpito alcune sue informazioni e anche alcuni suoi dubbi sul marito. Ricordo un’intercettazione in carcere, dopo l’arresto di Bossetti, in cui Marita pone domande degne di un pm incalzante. Ci è sembrata quindi una figura centrale, anche perché effettivamente la vita emotiva, psicologica, affettiva di Bossetti ruotava intorno a questa donna, che ci è parsa la figura più forte all’interno di quel nucleo famigliare. Quindi la crisi con Marita, purtroppo, ha creato, a nostro modo di vedere, i presupposti per il delitto Gambirasio”.


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