Omicidio Petaloso. Lettera al Direttore del Corriere
Egregio Direttore Luciano Fontana,
Quando, il 19 gennaio 2013, Gian Antonio Stella scrisse in prima pagina sul Corriere un articolo dedicato al mio sito InQuantoDonna, utilizzò correttamente la parola “femminicidio”, sebbene preceduta da un cauto “cosiddetto” ben cogliendo che i tempi non fossero ancora pienamente maturi per chiamare le cose esattamente con il proprio nome.
Il titolista, però, non usò termini ambigui: “Uomini che uccidono le donne”.
Sono passati poco più di tre anni, e la resistenza ad utilizzare un termine certamente spietato – perché così è il delitto che descrive – si è fatta più forte. Forse anche a causa del ripetersi pressoché quotidiano di un crimine che, se individuato con un proprio nome specifico, potrebbe evidenziare una seria problematica socioculturale da fronteggiare, o la necessità di misure di intervento specifiche. Ma non siamo ancora pronti: la parola “femminicidio” racconta una realtà che non vogliamo vedere, che neghiamo come il termine che la rappresenta.
La parola “femminicidio” rimane dunque relegata ad ambienti “estremisti” e sostituita in quelli borghesi o moderati con surrogati più digeribili: raptus, follia, tragedia familiare, non voleva ucciderla (ma l’ha fatto), dopo averla uccisa tenta il suicidio (ma non ci riesce), fino al gettonatissimo ed attualissimo “omicidio-suicidio”.
È di pochi minuti fa l’ultima notizia di un uomo che, lasciato dalla compagna, decide di ucciderla: la aspetta dentro casa, le spara 4 volte silenziando i colpi con un cuscino, poi scrive sul gruppo Whattsapp quello che ha fatto, e si uccide.
Questo, secondo il vostro titolista di oggi, è un reato individuabile penalmente come “omicidio-suicidio”.
Mi permetto di far notare che questo binomio, per la sua semantica, insinua una presunta parità tra la decisione di mettere fine alla vita di un’altra persona come alla propria: unisce le due azioni come fossero una sola, le illumina della medesima gravità, attenuando l’entità del crimine commesso ai danni di un’altra persona grazie all’estrema punizione personale che il criminale si autoinfligge.
L’emozione che suscita leggere “omicidio-suicidio” è un immediato senso di pietà e compassione, quasi più per il suicida che per la sua vittima. È dunque solo una versione più sintetica dell’ “omicidio a causa di onore”, una crasi dell’obsoleto “dramma della gelosia”, una sostituzione subdola dell’ “omicidio passionale” , che si traduce in una nuova forma di giustificazione o perdono immediato per chi uccide la propria donna.
Solo quando saremo in grado di comprendere il profondo significato del termine “femminicidio” e riusciremo ad utilizzarlo correttamente, per raccogliere sotto questa voce tutte le tragiche storie che hanno una matrice comune, solo allora saremo in grado di individuarlo e quindi di prevenirlo, di fronteggiarlo, di punirlo adeguatamente e dunque limitarlo.
Continuare a mistificare il femminicidio definendolo “raptus”, “strage della gelosia” o “omicidio-suicidio” è come scrivere “omicidio petaloso”.
Grazie per l’attenzione, un caro saluto
Emanuela Valente
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