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Gli stampini dei giornalisti

di Emanuela Valente

Quando arriva in redazione la notizia di una donna uccisa, il giornalista incaricato di scrivere il pezzo apre il cassetto, tira fuori la mascherina (lo stencil, il format, lo stampino: insomma, avete presente quelle sagome di plastica utili per riprodurre disegni in serie?), sceglie un soggetto e inizia la riproduzione.

Questa è l’immagine che compare nella mia mente quando leggo la maggior parte degli articoli – non tutti – che riportano notizie di femminicidi.

Una delle mascherine più abusate è quella del “raptus”: un attimo incalcolabile ed imprevedibile durante il quale può accadere di tutto. Il raptus è un po’ come il prezzemolo, si adatta a qualunque storia, non impegna poiché intangibile e dunque incontestabile. Inoltre fornisce all’evento quell’aura di straordinario necessaria ad eluderlo dalla banale consuetudine. Il “raptus” arriva di solito “dopo l’ennesimo litigio” e provoca quell’alterazione tale per cui il soggetto “non ci ha visto più” ma riesce a centrare benissimo la vittima.

Il termine “gelosia” sembra avere nella considerazione sociale molte più varianti di quelle che si trovano sul dizionario. La gelosia viene utilizzata sia come movente che come attenuante di un delitto, gli assassini stessi  la invocano per giustificarsi dalle prime pagine dei giornali.

La gelosia dunque – secondo il comune sentire –  non è inclusa negli “abietti e futili motivi” che la vorrebbero come aggravante nell’art.61 del codice penale, bensì negli eventi imprevedibili ed incontrastabili, alla stregua di una calamità naturale contro cui non c’è assicurazione che tenga.

Il “dramma della famiglia come tante” che spesso è composta da una “coppia modello” è la fotografia comune a tutte le vicende che coinvolgono nuclei apparentemente stabili, stravolgendo una quotidianità fino a quel momento simile alla vita nel Mulino Bianco.

Lui. L’articolo verte sempre su di lui, con nome e cognome inscindibili dalla professione, che nella maggior parte dei casi è vivo e vegeto, spesso senza neppure un graffio anche dopo che l’appartamento è esploso. Le prime descrizioni a caldo lo vogliono di solito come un insospettabile. A volte questo ritratto regge all’usura delle inchieste e, soprattutto se poi lui ha l’accortezza di suicidarsi, finisce col diventare la vittima paradossale di un dolore catartico.

Lei. Dovrebbe essere la vittima, ma si cercano delle colpe che possano giustificarne l’esecuzione. Se è straniera è più facile. Se era incinta quando è stata massacrata si tenta il test di paternità sui brandelli del feto. Se è uscita di casa dopo aver sporto una denuncia per stalking, beh, se l’è cercata.

Sono rari gli articoli in cui si parla di lei, ardue le ricerche per sapere se lavorava e che lavoro faceva. Spesso non compare la sua foto, a volte non viene riportato il nome, ancor più spesso non c’è neppure un trafiletto.

“Sei un uomo ridicolo”: questa frase pare l’abbiano detta almeno cinque o sei  donne uccise dai mariti, sembra sia l’ultima frase che siano state in grado di pronunciare. Si ipotizza che sia proprio questa affermazione a scatenare nei maschi una rabbia incontrollabile che porta ad un omicidio preterintenzionale. State attente a non dirlo mai.