Marisa Sartori, 25 anni, parrucchiera. Uccisa con una coltellata al cuore dall’ex marito
Curno (Bergamo), 3 Febbraio 2019
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Marisa, 25 anni, vuole separarsi, lui l’accoltella al cuore e la uccide nel garage. Grave la sorella. Fermato il marito. «L’aveva minacciata più volte» (Leggo – 3 febbrao 2019)
Dai primi accertamenti sembra che la donna sia stata uccisa con una coltellata al cuore. L’uomo l’avrebbe aspettata sotto casa, nel garage, per poi colpirla a morte. Sul posto i carabinieri di Curno e del reparto operativo di Bergamo.
L’episodio è avvenuto in un complesso residenziale di una quarantina di appartamenti comunali di via IV Novembre, al civico 23. L’uomo avrebbe atteso la donna, dalla quale si era ormai separato, e l’avrebbe affrontata nel garage sotto casa. Con lei c’era la sorella, ora grave all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, dov’è stata portata con l’ambulanza del 118.
Vani invece i soccorsi per la 25enne. Un agguato, dunque, pare dettato da motivi passionali: l’uomo non accettava la fine della relazione con la donna. Secondo quanto riferito da un parente della giovane donna uccisa «Arjoun l’aveva minacciata più volte e lei l’aveva denunciato. Sapevo che sarebbe finita così». Sul posto è giunto anche il sindaco Luisa Gamba. Si tratta della seconda donna uccisa in un garage in provincia di Bergamo in due settimane: giovedì 17 gennaio, in un box di Gorlago, era stata ammazzata Stefania Crotti, 42 anni, presa a martellate da Chiara Alessandri, 43, ex compagna di suo marito ora in carcere a Brescia.
Agguato nel garage di casa: uccisa con una coltellata al cuore dall’ex marito (Today – 3 febbraio 2019)
La vittima è Marisa Sartori, 25enne di Curno (Bergamo). Grave la sorella
Una nuova tragedia scuote la provincia di Bergamo, a distanza di due settimane dal terribile delitto di Stefania Crotti avvenuto tra Gorlago ed Erbusco. Un uomo ha ucciso la ex moglie, una ragazza di 25 anni. Teatro dell’omicidio è il paese di Curno, nell’hinterland bergamasco. La vittima è Marisa Sartori, che nel 2012 aveva sposato il suo assassino, Ezzedine Arjoun, 35enne tunisino. Il matrimonio era naufragato da tempo. I rapporti tra i due erano tesi, tanto che uno zio della vittima ha parlato di “tragedia annunciata”: in passato la vittima avrebbe denunciato l’ex marito, che l’avrebbe ripetutamente minacciata.
Secondo una prima ricostruzione, l’uomo ha atteso nei pressi del garage della palazzina dei genitori di Marisa Sartori l’arrivo della ex moglie, prelevata sul luogo di lavoro (un salone di parrucchiera) dalla sorella. Una volta arrivata l’auto delle donne, attorno alle 20 di ieri, il tunisino l’ha bloccata ed è iniziato un litigio. Dalle parole si è passati ai fatti: il 35enne ha sferrato un fendente al cuore di Marisa, dopodiché con un altro colpo ha ferito gravemente la sorella. Due le ambulanze giunte sul posto: una ha trasportato all’ospedale Papa Giovanni di Bergamo la sorella della vittima, sottoposta ad intervento chirurgico, in prognosi riservata, l’altra ha prelevato il corpo senza vita di Marisa. Dopo l’aggressione l’assassino ha atteso sul posto l’arrivo delle forze dell’ordine. In tarda serata hanno formalizzato il fermo e le accuse di omicidio e tentato omicidio.
Si sveglia dal coma la sorella di Marisa Sartori, uccisa dall’ex a Curno: “Devo sopravvivere per i miei genitori” (HuffPost – 4 febbraio 2019)
La sorella di Marisa Sartori, uccisa con una coltellata sabato sera dall’ex marito a Curno, si è svegliata stamattina dal coma. Deborha, pure accoltellata dal cognato (ora in carcere), era stata sottoposta a un delicato intervento nella notte tra sabato e domenica per frenare una emorragia.
“Devo sopravvivere per i miei genitori”, ha detto Deborha questa mattina, dopo che la mamma le ha comunicato la morte della sorella. Nelle prossime ore Deborha verrà sentita dai carabinieri di Bergamo che stanno conducendo le indagini. Sarà sentita probabilmente domani: oggi i medici hanno chiesto per lei ancora un giorno di riposo assoluto.
Secondo gli inquirenti, sarebbe stata proprio una frase pronunciata da Deborha davanti al cognato a far scattare la furia omicida dell’uomo: una reazione che sarebbe stata comunque premeditata, visto che il tunisino si è presentato sotto casa dei genitori di moglie e cognata già armato. Dettagli che potranno essere chiariti dai carabinieri di Bergamo nelle prossime ore, quando Deborha sarà appunto sentita. La giovane resta per il momento in prognosi riservata nella Terapia intensiva dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. Sabato sera le due sorelle erano arrivate assieme a casa dei genitori, su una Chevrolet Matiz rossa con la quale erano scese nei box, dove poi è avvenuta l’aggressione
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In memoria di
«Prima ha ucciso mia sorella Mari davanti ai miei occhi, poi ha accoltellato anche me» (Corriere della Sera – 15 gennaio 2022)
Deborha Sartori non lasciava mai sola Marisa, perseguitata dal marito con il quale stava per firmare la separazione. Fino a quella sera: «Lui ci aspettava in garage, prima ha assalito lei, poi mi ha colpito tre volte»
S’infila un paio di guanti blu, di quelli senza dita, e così le punte delle mani restano arrossate dal freddo. Deborha Sartori è una che ti viene incontro sorridendo, a testa alta, che non si fa tanti problemi a dire come stanno le cose, anche quando la verità non è delle più comode e magari c’è da parlare di sbagli, di difficoltà economiche, di un’adolescenza non esattamente perfetta, spesso al fianco di quelli da cui le “brave” ragazze si tenevano lontane: «Ai tunisini portavamo cibo e coperte, insegnavamo noi l’italiano, ci piaceva».
Giocherella con un cane che non va per niente d’accordo coi suoi quattro. Tiene un sacco, ai suoi cani. Il 29 dicembre ha compiuto 26 anni e ora è più grande della sua Mari, la sorella maggiore che fino all’ultimo ha tentato di proteggere e che invece le hanno ucciso davanti agli occhi. Ne culla la fotografia seduta sullo schienale di una panchina che ha tinteggiato di rosso subito dopo il delitto, quando è uscita dall’ospedale, perché anche lei, quella sera, ha rischiato di morire.
Le botte. Il 2 febbraio 2019, poco dopo le 19, alla caserma di Curno, nell’hinterland di Bergamo, i carabinieri hanno trovato alla porta un uomo con le mani insanguinate. Era Ezzedine Arjoun, tunisino che da allora non ha più lasciato il carcere. Oggi ha 38 anni e a Opera sta scontando l’ergastolo dopo che la Cassazione ha reso definitiva la condanna per l’omicidio della moglie 25enne Marisa Sartori, anche maltrattata e in un caso obbligata con un coltello a subire un rapporto sessuale, e per il tentato omicidio di Deborha, sua cognata. Tese a entrambe un agguato nei garage della casa dei loro genitori, dove Marisa si era trasferita, stanca di sentirsi vessata e di mantenere un uomo che, tra alcol e cocaina, perdeva ogni lavoro che lei gli rimediava.
Si erano sposati in Tunisia quando la ragazza aveva solo 19 anni. Due settimane prima della fine, avrebbero dovuto firmare la separazione. Marisa è crollata dopo 7 coltellate. Deborha, che era andata a prenderla al lavoro per non lasciarla sola, è stata salvata in ospedale. Nella sentenza d’Appello, colpisce il passaggio in cui i giudici spiegano perché, dal loro punto di vista, sussista l’aggravante dei futili motivi (è stata riconosciuta anche la premeditazione). La ragione «che indusse l’imputato a sopprimere, in quel modo così feroce, la moglie deve considerarsi spregevole e vile perché espressione di un modo di intendere il rapporto coniugale davvero inaccettabile nella società odierna». Davvero. «Arjoun uccise la moglie per negarle il diritto di allontanarsi da lui e di sottrarsi in tal modo a un regime di vita, dominato dallo sfruttamento e dalla sopraffazione, divenuto per lei insopportabile». Nella visione dell’imputato, la moglie era di sua proprietà, dunque non andavano tollerati momenti di insubordinazione né aspirazioni di libertà.
I ricordi. Seduta sulla panchina rossa, che sta a pochi passi da quel garage, Deborha si protegge con il cappuccio e i suoi guanti blu. Ricorda quando con Marisa da bambine rubavano pannocchie, e ride. Ricorda quando le confidò di sentirsi sperduta, e allora non ce la fa a trattenere le lacrime. Ricorda tutto, anche dell’aggressione, e sa di essere stata fortunata. «Di solito scendevo io dall’auto ad aprire il cancello. Invece quella sera lo ha fatto Marisa. Dopo la curva della rampa, l’ho sentita urlare, ha urlato con tutta la voce che aveva in corpo».
Prima ha chiesto aiuto, poi erano urla di dolore. «Ho tirato il freno a mano, sono scesa. Non riuscivo a vedere Mari, ma ho visto lui che la colpiva». Mima il gesto delle coltellate dall’alto verso il basso. «Mi sono avvicinata e ha preso anche me, dal basso verso l’alto, tre volte. Poi è andato via e io ho detto: “Tranquilla, Mari, chiamo i soccorsi”. Sono corsa a prendere il telefono e sono andata all’ascensore, ma non era al piano e ho pensato che ci avrei messo troppo. Allora sono salita per le scale. Mio papà era già uscito sul pianerottolo. Gli ho detto di correre giù». Ferita al polmone sinistro, alla milza e al diaframma, sul pianerottolo Deborha non ha più retto. «Ho iniziato ad avere caldo, un caldo atroce. Se parlavo senza tenermi la ferita (spinge la mano sotto il cuore, ndr ), sentivo come il polmone sfiatare». Eppure, i ricordi vanno avanti. «Ricordo che in ambulanza mi dicevano di restare sveglia. Ricordo quando mi hanno addormentato e poi la voce di un’infermiera sussurrare: “Si sta svegliando”. Vicino al letto c’erano mia mamma, mio papà e il mio ragazzo, e io lo sapevo già. Ho chiesto: “La Mari è morta, vero?”». Al “Papa Giovanni”, la ragazza è rimasta 12 giorni. «Mi scrivevo i sogni che facevo, la sogno tanto, Marisa». Il primo è stato un incubo: Arjoun la sorprendeva alle spalle. In un altro, invece, lei e la sorella si abbracciavano «fortissimo, come se ci stessimo salutando».
Nella sua drammaticità, la vicenda è quasi un manuale sul femminicidio. Un aspetto, allora, scosse profondamente. Marisa aveva chiesto aiuto più volte in caserma e più volte i carabinieri erano intervenuti a calmare Arjoun, ma senza mai fare una segnalazione in Procura. Il caso era arrivato in mano a un pm il 29 gennaio, 4 giorni prima dell’omicidio, attraverso l’associazione Aiuto Donna: «Marisa» spiega la sorella «aveva scoperto che esisteva questa associazione per caso, da un’assistente sociale con cui aveva parlato quando era andata in municipio a separarsi e Arjoun non si era presentato. È assurdo che nessuno ce l’avesse mai consigliata prima».
Come spesso accade, la storia si trascinava da tempo: «Ad aprile 2018, Arjoun aveva spaccato il naso al suo padrone di casa, poi aveva sfondato la porta dei miei. Alla fine, si era presentato dal mio ragazzo, dove Marisa si era rifugiata. Lo sentivamo urlare: “Marisa ti ammazzo, so che sei qui”. Noi eravamo barricate dentro, terrorizzate». I carabinieri intervennero tre volte, quella notte, per ciascun episodio.
«Per due mesi non l’aveva più visto, poi avevano ricominciato a frequentarsi. La verità è che mia sorella si sentiva sola, non aveva più amicizie, lui le stava sempre addosso». Ed era sempre peggio. «Il giorno prima del mio compleanno, a fine 2018, l’aveva seguita al centro commerciale. In mezzo alla gente, ubriaco, si era messo a urlare: “Sei una puttana”. Marisa me lo confidò piangendo, perché nessuno si era degnato di aiutarla, si era sentita umiliata». Poi, gli appostamenti fuori dal negozio di acconciature dove lei lavorava. Poi, le minacce urlate sotto la sua finestra.
Poi, le scenate al bar. La sera in cui decise che era finita, in tv c’era Titanic «e lui continuava: chiamate, chiamate, chiamate». È stato anche un processo di donne, con la difficile difesa sostenuta dall’avvocata Daniela Serughetti, insultata sul web per avere accettato l’incarico. Nell’unica intervista concessa al Dubbio, dopo l’Appello, Serughetti sottolinea lo sforzo fatto, da avvocata, per garantire «anche a chi è etichettato come il peggiore dei mostri il diritto alla difesa e ad un giusto processo, come la Costituzione prevede». La collega Marcella Micheletti, da 20 anni legale di Aiuto Donna, non si separa mai da due ciondoli a stella che le hanno regalato i Sartori. Per lei rappresentano Deborha e Marisa, conosciute 10 giorni prima del delitto: «Il pericolo era evidente, consigliai di muoverci subito con una querela. La sera dell’omicidio» ricorda Micheletti «mi chiama la volontaria dell’associazione che le aveva ricevute per prima. Aveva letto online di un agguato a due sorelle di Curno. Ho contattato i carabinieri e non mi dimenticherò mai, mai, la loro risposta. Mi si è gelato il sangue, ero sotto choc. Le avevo appena incontrate e avevo raccomandato a Deborha di non lasciare mai sola Marisa. Il giorno dopo fu l’allora comandante provinciale dei carabinieri Paolo Storoni a telefonarmi. Con intelligenza, mi disse che avrebbe messo a disposizione una sala per un incontro con i suoi uomini, in cui avrei potuto spiegare ciò che andava migliorato». Fu organizzato tre giorni dopo.
Il dolore. «Io sono viva», ha detto Deborha guardando negli occhi Arjoun il giorno della prima sentenza, un ergastolo in abbreviato con il pm Fabrizio Gaverini. «Ogni tanto mi sembra che Marisa sia dappertutto, in un fiore o in una farfalla, altre volte mi dico che non c’è più. I miei genitori portano dentro, in modo diverso, lo stesso dolore. Mio papà l’ha presa tra le braccia morta, non la supererà mai questa cosa. Con mia mamma erano tanto legate. Però la cosa bella è che tra noi siamo più uniti: siamo anche tornati al mare, dove andavamo da piccole. E ora sulla violenza di genere c’è molta più informazione». Sul finire dell’intervista, Bergamo traballa per una scossa di terremoto, ma la panchina è salda. Deborha non sente nulla. «Sarà stata Marisa».