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Jessica Valentina Faoro, 19 anni, mamma. Massacrata con 85 coltellate da un maniaco

Milano, 7 Febbraio 2018


Titoli & Articoli

Milano, delitto di via Brioschi: L’allarme di Jessica sette giorni prima. «Mi ha molestata mentre dormivo» (Corriere della Sera – 8 febbraio 2018)
A inizio mese Jessica aveva chiamato i carabinieri: «Portatemi via». Ma poi era tornata. Il tranviere ha deciso di avvalersi della facoltà di non rispondere nell’interrogatorio di garanzia davanti al gip.
La richiesta d’aiuto di Jessica Valentina Faoro, una settimana prima di venir uccisa, non era rimasta inascoltata. Come emerge dalle indagini della squadra Mobile, all’una di notte del primo febbraio la 19enne aveva chiamato i carabinieri, aveva raccontato che, mentre dormiva, l’uomo dal quale viveva aveva tentato un approccio e aveva fornito l’indirizzo per l’intervento: via Brioschi 93. Nello stesso bilocale dove tra martedì e mercoledì il tranviere 39enne Alessandro Garlaschi l’ha colpita almeno cinque-sei volte con un coltello da cucina, riposto nel suo contenitore senza che venissero completamente cancellate le macchie di sangue. Venerdì l’uomo ha deciso di avvalersi della facoltà di non rispondere nell’interrogatorio di garanzia davanti al gip, come aveva fatto anche davanti al pm quando è stato fermato.
Una pattuglia aveva trovato la ragazza in strada. «Devo tornare di sopra a prendere i mie due zaini, non voglio rimanere più in quella casa». I carabinieri erano saliti, nell’appartamento c’era soltanto Garlaschi e non la moglie (Jessica Valentina credeva che anziché coniugi fossero fratello e sorella). La situazione, esaminata con scrupolo e attenzione, non aveva presentato anomalie. I carabinieri avevano chiesto a Jessica Valentina se avesse bisogno di una soluzione abitativa, lei aveva risposto che andava da un’amica; l’avevano invitata a telefonare di nuovo in caso di necessità e, se lo riteneva opportuno, a presentare formale denuncia; alla domanda finale sull’eventualità di chiamare un’ambulanza per i controlli al pronto soccorso, poiché aveva una febbre di 37,5 gradi, la 19enne aveva spiegato che avrebbe raggiunto da sola l’ospedale San Paolo. In bicicletta. L’avrebbe fatto subito, giusto il tempo di ottenere da Garlaschi il «permesso» di lasciare in custodia i due zaini più il pitbull di proprietà della ragazza e venduto nei giorni seguenti.
Quella notte, Jessica Valentina non era tornata in via Brioschi. Ma era tornata i giorni seguenti. E aveva ripreso il suo posto nel bilocale di 50 metri scarsi, composto da ingresso, cucinino, soggiorno, bagno e camera da letto. Nel cucinino c’era un divano-letto, la «stanza» della 19enne. Garlaschi, dopo averla uccisa, ha nascosto il cadavere proprio sotto quel letto: il corpo era per metà in un borsone e per metà avvolto nel cellophane. Ha cercato di disfarsi della vittima, cospargendola di alcol. Ha atteso. Alle 6 ha avvisato l’Atm che non sarebbe andato al lavoro per motivi di salute. Ha atteso ancora. Alle 11 ha informato il 118 della presenza di una ragazza ferita. Alle 16.50, fra le urla dei vicini («Mostro», «Maniaco», «Devi crepare in galera»), è uscito scortato da due poliziotti per il trasferimento in Questura.

 

In memoria di una ragazzina coraggiosa (il Sole 24 ore – 14 febbraio 2018)
Una molestia sessuale non è altro che un ricatto operato da qualcuno che, trovandosi in una posizione di potere sceglie deliberatamente di esercitare questa sua forza per ottenere qualcosa che, diversamente, non potrebbe avere. Sottrarsi a una molestia sessuale, se ne discute da mesi, non è sempre facile, non è immediato e, in certi casi, potrebbe perfino essere impossibile. In altri la ribellione, il ‘no’ piantato sulla faccia del molestatore, ha un prezzo altissimo, il più alto possibile: la vita.

Jessica Valentina Faoro aveva 19 anni di vita faticosa: case famiglia (che non sono e non potranno mai essere famiglia), affidi andati più o meno bene, due genitori ai quali era stata tolta quando era ancora una bambina. Jessica a 19 anni era sola, di quella solitudine che si circonda di amici e messaggi su Whatsapp ma che non può contare sulla presenza rassicurante di un adulto che ti protegge standosene un passo indietro, pronto a puntellarti il sedere se stai per cadere.
Jessica aveva una figlia che, come da prevedibile copione, non viveva con lei. Per averla, per trascorrere decentemente il periodo della gravidanza e quello appena successivo, Jessica era stata accolta in una comunità per ragazze madri. Un’istituzione da memorie del Ventennio, triste nel suo stesso esistere, ma – a quanto pare – ancora necessaria. Della bambina di questa ragazza non si sa niente a parte che le hanno ammazzato la mamma e ora rientrerà nei registri degli adottabili e chissà se mai qualcuno le racconterà che aveva per mamma una giovane donna coraggiosa. Che Jessica, è stata un’eroina prima ancora di essere diventata la vittima di un maschio perverso e impudente, un maschio che, nel suo presente, era l’assicurazione di un posto letto e di un pasto caldo (tradotto: il minimo per la sopravvivenza in un Paese civile) e alle cui pretese sessuali si è ribellata. Non importa che quell’uomo fosse lombrosianamente ripugnante, non importa che avesse 20 anni più di lei, non importa che fosse quanto di più lontano una ragazzina possa pensare sia il principe azzurro. Importa che a fronte di un implicito ricatto sessuale in cui la posta in gioco erano un divano letto e un piatto di minestra, necessari a vivere, lei ha detto: no.
Difficile immaginare dove Jessica, nella situazione di assoluta precarietà esistenziale in cui si trovava, abbia scovato il coraggio
. Difficile, se si pensa che il contesto culturale in cui è cresciuta, suo malgrado, non è stato certo quello di “Memorie di una ragazza per bene” di Simone de Beauvoir. Difficile, ma, evidentemente, possibile.
L’epilogo feroce che l’ha lasciata per terra con dieci coltellate dovrebbe farne un simbolo di quanto coraggio sia necessario a ribellarsi. Eppure di Jessica si parla come dell’ennesima vittima di un porco qualunque. E non è giusto. Perché questa ragazzina che dalla vita non ha avuto altro che delusioni e fregature, merita qualcosa di più di un’etichetta che ne fa un numero nella statistica dei feminicidi. Merita il rispetto che si deve agli eroi tragici, a quelli che restano sul campo della battaglia dopo avere lottato per vincere un’impossibile guerra.
Non possiamo fare altro che questo per lei, ma almeno questo glielo dobbiamo, dopo averla lasciata sola per tutta la vita,
a maggior ragione quando è diventata grande e dunque, legalmente, in grado di badare a se stessa. Perché a 18 anni, è vero che puoi votare, ma non è altrettanto vero che hai tutti gli strumenti necessari per vivere senza cacciarti nei guai. Che magari mica te li cerchi tu i guai, alla fine quello che cerchi quando sei sempre stata da sola, e sei troppo giovane per riconoscere il male, è solo qualcuno di cui fidarti, qualcuno a cui stare a cuore. Non parlo di un fidanzato ragazzino, parlo di qualcuno che provi ad aiutarti a crescere spiegandoti cosa è giusto e cosa non lo è, di chi ti puoi fidare e di chi no, come funzionano le cose nel mondo degli adulti nel quale hai preso a muoverti con la goffaggine di una bambina che prova a essere donna.
Jessica ha provato a cavarsela da sola, lo ha fatto seguendo un codice etico che si era autodata e che le impediva di andare a letto con qualcuno che non le piacesse, fosse anche stato, quel qualcuno, il suo ‘presunto’ salvatore. Jessica, morendo, ha mostrato al mondo che discute intorno alla necessità e alla difficoltà del coraggio di sottrarsi alle molestie sessuali resta una questione di lana caprina. Ha dimostrato che chiunque può farlo. Nessuno le ha detto che doveva farlo, che era moralmente giusto farlo. Lei ha scelto la strada giusta, ma non è una vittima, tutt’al più è una martire alla quale non dobbiamo compassione, ma rispetto.
(di Deborah Dirani)

 

L’amaro addio a Jessica, lasciata sola anche al suo funerale (Globalist – 16 febbraio 2018)
Dopo 9 giorni dallʼomicidio della 19enne nessun conoscente si è fatto avanti per sostenere le spese delle esequie. Dopo lʼofferta di don Gino Rigoldi, sarà il comune di Milano a provvedere
E’ terribile morire a 19 anni, ma lo è di più quando la tua vita è stata seminata di abbandoni. Genitori assenti, una gravidanza da giovanissima terminata con l’affido ad altri (più consoni di te) della tua creatura. Mai una casa, solo una esistenza randagia dove ogni volta c’è una porta nuova da varcare, dove mendicare un po’ di pace e rispetto e poi ancora un’altro alloggio, altre facce, altre voci da cui tornare la notte, a cui stirare camice e pulire cessi. E mai una radice, un abbraccio che non chiede nulla in cambio. Un letto, sempre lo stesso, dove dormire i sogni che a 19 anni si dovrebbero sognare. Fino all’incontro con il tuo aguzzino. Quel 39enne Alessandro Garlaschi che ti scriveva ossessivi biglietti pieni di attenzioni morbose e che tu nonostante la tua vita terribile hai saputo respingere, perché avevi imparato a volerti bene, a chiedere di più a quella vita meschina che il caso ti aveva marchiato addosso. Questo rispetto di te stessa ti è costata la morte con 40 coltellate.
A oggi, dopo nove giorni dall’omicidio, nessun familiare si è fatto avanti per sostenere le spese del funerale della ragazza. Così dopo aver vissuto sola, dopo essere morta sola, nessuno si è preso carico del tuo Addio.  Lo farà il comune di Milano. In un’accorata intervista sul Corriere della Sera don Rigoldi si era offerto di pagare lui i funerali della ragazza: cappellano del carcere minorile milanese Cesare Beccaria che nella Comunità Nuova, da lui presieduta, aveva accolto la ragazza. La conosceva bene. Così come conosce anche il fidanzato Alessandro, 19enne anche lui, detenuto a Busto Arsizio. Ma il comune meneghino ha deciso di intervenire nella vicenda: “Ringraziando tantissimo Don Gino, ancora una volta esemplare – sottolinea su Facebook l’assessore alle Politiche sociali Pierfrancesco Majorino – ribadiamo quanto deciso. Saremo noi tutti, il Comune di Milano, a farci carico dei costi dei funerali. E confermiamo – aggiunge – la nostra volontà di costituzione del Comune come parte civile.
La storia di Jessica non parla solo di un terrificante carnefice e di una giovane vita spezzata ma di tanti tentativi fatti per aiutarla che sono andati a vuoto”. “Tentativi – conclude l’assessore Majorino – su cui dobbiamo interrogarci”. Sì, forse il Comune a nome di tutte le istituzione, che con ragazze come Jessica falliscono ogni giorno, almeno questa volta non la lascerà sola.  E’ figlia di tutti i genitori di Milano, di tutti i genitori d’Italia.  Forse per evitare morti così, dovremmo occuparci di vite così. Jessica dovevamo ricordarla prima. I femminicidi si estirpano se arriviamo prima.
(di Claudia Sarritzu)


La storia di Jessica Faoro, uccisa a Milano (il Post – 19 febbraio 2018)
Quella della sua famiglia, dell’uomo che l’ha accoltellata e dei ragazzi e delle ragazze che i servizi sociali non riescono ad aiutare
I funerali di Jessica Faoro, la ragazza di 19 anni uccisa a coltellate il 7 febbraio a Milano in un appartamento di via Brioschi, sono stati rinviati: si terranno sabato 24 febbraio alle 11 nella parrocchia di San Protaso. Li pagheranno i genitori grazie alle donazioni ricevute e il comune si costituirà parte civile nel processo: «D’ora in poi lo faremo per ogni femminicidio», ha detto l’assessore ai servizi sociali del comune, Pierfrancesco Majorino. Faoro è stata uccisa nell’appartamento di un autista dell’ATM, Alessandro Garlaschi, che è accusato di omicidio.
La storia di Jessica Faoro ha a che fare con la storia dei suoi genitori e con un progetto di assistenza familiare che è fallito. L’assessore Majorino ne ha ricostruito la vicenda all’interno dei servizi sociali di Milano. Fin dalla nascita, nel 1998, Jessica Faoro aveva vissuto in comunità per un provvedimento dell’autorità giudiziaria. I genitori, Stefano Faoro e Annamaria Natella, con storie complicate alle spalle, non avevano una casa. Jessica era stata riportata in famiglia quando aveva circa due anni, perché Stefano Faoro aveva comprato una piccola casa di cui paga ancora il mutuo, come ci ha raccontato lui stesso. I genitori però litigavano e il padre aveva patteggiato una condanna per maltrattamenti contro la moglie. Nel frattempo i due avevano avuto un altro figlio, Andrea, diciotto mesi più piccolo di Jessica. Entrambi erano stati messi di nuovo in comunità dopo circa sei anni. Secondo il padre di Jessica Faoro, i servizi sociali avevano garantito che i bambini non sarebbero stati separati, cosa che invece era successa. Nel 2008, infine, Jessica era stata definitivamente affidata al comune di Milano dal Tribunale dei Minori: aveva dieci anni. La madre aveva perso la responsabilità genitoriale e quella del padre era stata limitata.
Dopo parecchi affidamenti familiari falliti, Jessica Faoro era stata sistemata presso l’associazione Fraternità e lì era rimasta fino al 2013. A quindici anni aveva iniziato a scappare, nel 2014 – a sedici anni – aveva partorito una bambina che era stata data in adozione.
Quando aveva compiuto 18 anni, sempre secondo l’assessore Majorino, si era rifiutata «di proseguire con la presa in carico da parte nostra, poi aveva accettato un mese di ospitalità in un centro di accoglienza temporanea per adulti». Nel frattempo viveva per strada, faceva qualche lavoro saltuario e si era innamorata di Alessandro, un suo coetaneo. Don Rigoldi, un prete molto attivo nel sociale, come si dice, aveva ospitato entrambi nella Comunità Nuova; e ha raccontato che quando Alessandro a 18 anni era andato in prigione per una serie di piccoli furti «Jessica era impazzita: trascorreva intere giornate sotto la finestra della cella di lui, comunicando a gesti. Era straziante».
In quel periodo, sul suo profilo Facebook, Jessica Faoro pubblicava un’infinità di appelli per cani abbandonati e smarriti. Finché, il 28 dicembre dell’anno scorso, aveva pubblicato una sua foto abbracciata a un giovane pitbull, con la scritta “mio” affiancata da un cuore. Il cane si chiamava Zen ed era il suo compagno, ma per chi vive in simbiosi con un cane – come molte persone senza fissa dimora – è difficile trovare un ricovero per la notte. Ci sono alcuni posti al centro di via Graf, a Quarto Oggiaro, ma è raro trovarne uno libero. Forse per questo motivo – era inverno e aveva bisogno di un posto dove stare con il cane – Faoro aveva risposto all’annuncio di Garlaschi, un autista dell’ATM che diceva di offrire vitto e alloggio in cambio di qualche lavoro domestico. L’alloggio consisteva in un piccolo divano messo in cucina, dove lei poteva coricarsi quando Garlaschi spegneva la tv.
Garlaschi non viveva solo ma con la moglie. Con Jessica fingeva che la moglie fosse sua sorella; non è chiaro invece come la moglie si spiegasse la presenza di Jessica in casa. Garlaschi era stato denunciato per stalking da una collega e quindi trasferito: stando agli atti giudiziari aveva un’ossessione per le ragazzine e ne aveva adescate altre, prima di Jessica. Si vantava e mostrava ai colleghi le foto di una di loro che faceva le faccende domestiche in topless. La sera in cui ha ucciso Faoro, dopo aver accompagnato la moglie a casa di sua madre, Garlaschi si era vantato via chat con un collega della notte di sesso che lo aspettava.
Una settimana prima di essere uccisa, Jessica Faoro aveva chiamato i carabinieri perché Garlaschi l’aveva molestata nel sonno. Gli agenti, una volta arrivati, l’avevano trovata per strada. Faoro aveva detto che Garlaschi aveva un rapporto strano e ambiguo con la sorella (che in realtà, infatti, era sua moglie), aveva spiegato che doveva tornare in casa a prendere gli zaini e il cane e che non voleva più restare lì. I carabinieri erano saliti con lei senza trovare niente che li allarmasse. Lei aveva rifiutato di denunciare Garlaschi. Faoro aveva la febbre e quella stessa notte era andata al Pronto Soccorso dell’ospedale San Paolo, dove le avevano detto che non sarebbe potuta restare con il cane. Da quel momento in poi non è ancora chiaro che cosa sia successo: soprattutto quando e perché Jessica fosse tornata a casa di Garlaschi, dove è morta dopo sette giorni.
Diversi giornali hanno raccontato la cronaca di quell’ultimo giorno: il 6 febbraio Alessandro Garlaschi e Jessica Faoro erano entrati un negozio di ottica vicino al Castello Sforzesco intorno alle 18.32. Lui le aveva regalato delle lenti a contatto, come in altre occasioni in cui, sfruttando la convenzione di quel negozio con l’ATM per cui lavorava, aveva regalato ad altre ragazzine montature e occhiali. Dopodiché i due sarebbero rientrati nell’appartamento di lui, in via Brioschi. Secondo le prime indagini, l’omicidio è avvenuto intorno alle 3.30 della notte tra il 6 e il 7 febbraio. Alle 6 del mattino Garlaschi aveva chiamato l’ATM per dire che non sarebbe andato al lavoro: non sapeva cosa fare con il corpo di Jessica, ha cercato di darle fuoco con dell’alcol, quindi di metterlo dentro una borsa. Alle 11 ha chiamato il 118 parlando della presenza di una ragazza ferita in casa sua; poi è stato arrestato.
Cristina De Michele, presidente della Cooperativa sociale Comunità Progetto, da vent’anni attiva a Milano, docente a contratto di scienze pedagogiche alla Bicocca dove insegna Progettazione e valutazione dei servizi e degli interventi educativi, dice: «É evidente che quindici anni di lavoro dei servizi non hanno prodotto un risultato che permettesse a Jessica di vivere, invece di finire in via Brioschi. I giovani in condizione di fragilità, di estrema precarietà sono tantissimi. Se non hanno famiglia sono completamente allo sbando».
Jessica Faoro aveva un padre e una madre, ma non aveva cercato aiuto da loro. «Quasi non la conoscevo», ha detto il padre, Stefano Faoro. «Quando era piccola potevo vederla una volta ogni due mesi, un’ora in una stanza di quattro metri per quattro. Negli ultimi tempi comunicavamo attraverso la chat di Facebook. Per un po’ era tornata qui, ma non ce la facevo. Sono un incapace. Non sono stato aiutato. Ho chiesto aiuto per imparare a fare il padre, non è arrivato». La madre, Annamaria Natella, negli ultimi giorni ha detto ai giornali che lei e la figlia erano molto vicine, ma è certo che Jessica, pur nel bisogno, non è andata da lei.
L’assessore Majorino con onestà ha ammesso: «Certo, qui c’è un fallimento. E non sta tanto nel fatto che questa ragazza ha bussato alla nostra porta e non le abbiamo aperto, piuttosto che non ci percepiva come utili. Se una ragazza cresce in comunità, poi esce e finisce in questa tragedia, c’è una debolezza nel suo percorso educativo. É motivo di dolore e di riflessione per tutti noi». Non è vero, garantisce Majorino, che quando Jessica Faoro ha compiuto 18 anni i servizi sociali se ne sono disinteressati. «Abbiamo forme di sostegno, lei ha le ha rifiutate. Poi, un mese fa, si è fatta viva con i servizi sociali chiedendo aiuto. Le hanno fissato un appuntamento con l’assistente sociale per il giorno successivo, ma non si è presentata. Come dimostra la vicenda del fratello Andrea, che ha 19 anni ed è ancora in carico ai servizi nonostante la maggiore età, eravamo ben lontani dall’abbandonarla. Però non siamo proprio riusciti ad agganciarla».
Quelli come Jessica sono ragazzi e ragazze invisibili, racconta Cristina De Michele. I servizi non li intercettano. Vivono in posti occupati, sovraffollati, degradati. «A Milano un pezzo di periferia è infilata nel centro. È la zona di Stadera, Meda, Brioschi, al limitare dei Navigli. I ragazzi e le ragazze come Jessica Faoro vivono lì, fra legalità e illegalità». Lei valuta che la fascia d’età a rischio sia fra i 18 e i 30 anni: «Sono persone che non fanno parte della società, della sfera pubblica. Non sono cittadini, sono abbandonati alla loro disperazione personale, alla loro povertà. Si muovono fra lavori miserabili e precari, un mese non hanno reddito, quello dopo prendono 250 euro. Perdono la speranza. Mi dicono: non ce la farò mai, sarà così per sempre. A vent’anni sono stanchi, rassegnati, senza competenze, senza desideri. Non sono nemmeno in grado di formulare una domanda ai servizi. Una ragazzina in quella situazione è carne da macello, le può succedere qualunque cosa. Potrei dire che a Milano ce ne sono almeno mille come Jessica, è una stima realistica. Non è una categoria sociale, è una condizione esistenziale dove l’eroina dilaga».
Ma Jessica Faoro non si faceva e non si prostituiva, come ha insinuato invece subito dopo la sua morte il Corriere della Sera. Il padre, Stefano Faoro, anche lui dipendente dell’ATM, lo dice con rabbia: «Se si fosse venduta non sarebbe morta. Se fosse stata una prostituta avrebbe ceduto a Garlaschi e sarebbe ancora viva». Il padre ha anche fatto un appello a Chi l’ha visto per sapere che fine abbia fatto il cane Zen, «che era parte di Jessica». Poi dagli amici della figlia ha scoperto che Jessica lo aveva affidato a una famiglia. «Ha messo al sicuro il cane e non è riuscita a mettere al sicuro se stessa».


I funerali di Jessica Faoro: la madre sviene e urla contro il fidanzato. “Ti ho amata, ti amo e ti amerò per sempre” (HuffPost – 24 febbraio 2018)
L’ultimo viaggio di Jessica Faoro è stato in una bara bianca ricoperta di gerbere
L’ultimo viaggio di Jessica Faoro, la ragazza di 19 anni uccisa a coltellate il 7 febbraio scorso dal tranviere Alessandro Garlaschi a Milano, è stato in una bara bianca ricoperta di gerbere. E in mezzo alle lacrime di decine di parenti, amici, semplici conoscenti che hanno riempito la chiesa di San Protaso per i funerali.
Funerali però tesi, non solo per il dolore provocato dall’assassinio di Jessica, ma anche per la freddezza, se non addirittura l’ostilità, fra i gruppi di conoscenti che avevano accompagnato la ragazza nelle diverse e difficili fasi della sua vita. Contro l’ex fidanzato di Jessica, che si chiama anch’egli Alessandro, scortato in chiesa dalla polizia penitenziaria (è in carcere a Busto Arsizio, ndr), ha urlato la madre Annamaria, dando sfogo alla convinzione di molti presenti che lui sia stato fra i maggiori responsabili dell’esistenza travagliata della figlia: “Devi morire, pezzo di m…”. Gli agenti lo hanno portato via subito da una porta laterale per evitare che le tensioni degenerassero.
Alla fine dei funerali la stessa madre di Jessica è svenuta in chiesa, prima di riprendersi. Solo un applauso corale e liberatorio sul sagrato ha spento le tensioni, a cerimonia ormai conclusa. Diversi mazzi di fiori sono stati adagiati sotto l’altare dagli amici di Jessica. Ce n’era uno proprio dell’ex fidanzato, con tanto di foto insieme alla ragazza e un messaggio: “Ti ho amata, ti amo e ti amerò per sempre”. Accanto, i fiori inviati dalla presidente della Camera, Laura Boldrini, e anche quelli della Squadra Mobile di Milano. In chiesa anche Pierfrancesco Majorino, l’assessore alle Politiche sociali del Comune di Milano.
Quella che ha tolto la vita a Jessica Faoro, “è una violenza senza senso, senza ragione, figlia della grave responsabilità personale per chi ha compiuto questo orrendo gesto, per il quale la giustizia farà il suo corso”, ha detto nella sua omelia don Paolo Zago, al fianco di don Gino Rigoldi, che ha concelebrato. Ma è anche “una violenza – ha aggiunto il sacerdote – frutto della cultura del nostro tempo che usa l’altro solo per ciò che gli serve e non dà valore alla persona umana. Jessica ha pagato con la vita il suo no a questa logica assurda: non è l’ennesimo tragico caso di femminicidio, perché Jessica in questo nostro mondo con il suo no è molto di più, è un grido di speranza”.


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