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Michele Montagnoli, 34 anni, imprenditore, padre. Strangola la compagna, carica il corpo in macchina e dà fuoco a tutto, simulando un incidente. Condannato a 20 anni di reclusione, patteggia e la pena scende a 14, ma la Cassazione la aumenta nuovamente a 18. Dopo 12 è fuori e fonda una cooperativa per i detenuti (ne scrive Vanity Fair)

Cancello di Montorio (Verona), 20 Novembre 2005


Titoli & Articoli

Donna carbonizzata, il convivente arrestato per mancato soccorso. (Asaps – 21 novembre 2005)
Un’auto in fiamme, un corpo di donna carbonizzato, il conducente illeso che viene visto scappare verso casa:
fotogrammi e circostanze che inizialmente avevano indotto gli investigatori a pensare al peggio, a un possibile omicidio nascosto con un falso incidente, ma ci sono volute diverse ore per verificare che si trattava effettivamente di un incidente conclusosi con una incredibile omissione di soccorso.
Tutto è accaduto oggi a Cancello di Montorio, dove alcuni abitanti segnalano al 118 un’auto incendiata: dentro, più tardi, si scoprirà il corpo ormai carbonizzato di Federica Corsi, 32 anni, dipendente di un’azienda privata. Alcuni testimoni vedono scendere dal lato guida della vettura un uomo, il convivente della vittima, Michele Montagnoli, 34 anni, che si rifugia nella casa vacanza che la coppia utilizzava nei week end.
L’uomo viene subito rintracciato dalla polizia e spiega che l’auto, una citron C3, ha sbandato ed è finita contro un paracarro, incendiandosi. Lui, aggiunge, è scappato ed è rimasto paralizzato dallo shock. Dai primi accertamenti, però, non emergono tracce evidenti dell’incidente e pare che il decesso della giovane non sia da attribuire a un sinistro. L’uomo, interrogato dalla polizia, resta fermo nella sua versione ma comincia a manifestare problemi respiratori.
Viene accompagnato all’ospedale Borgo Trento, dove gli sono diagnosticati un enfisema polmonare e una rachide cervicale, causata dal classico “colpo di frusta”. I sanitari ritengono opportuno il ricovero.
La diagnosi cambia tutto, rendendo attendibile la versione dell’incidente, ma a Montagnoli la squadra mobile di Verona non risparmia l’arresto per omissione di soccorso e ulteriori indagini per approfondire la circostanza. Ora l’uomo, impresario edile, si trova quindi nel reparto detenuti del nosocomio. I due vivevano a Verona e avevano una casetta anche in località Caio, a circa mille metri di altitudine sulle montagne scaligere, dove si erano recati per trascorrere il week end. Domani verrà affidato l’incarico per l’autopsia.

 

 

La prigione del ricordo (Vanity Fair – 6 febbraio 2022)
Dopo 12 anni di carcere, la nuova vita di Michele Montagnoli: una cooperativa che ridà lavoro e dignità ai detenuti
L’autostrada è immersa nella nebbia. Al casello di Verona Sud intravedo una macchina ferma sulla destra e lì accanto un uomo in piedi, dritto, che fissa la strada. Immagino sia la persona con cui ho appuntamento. Accosto, respiro. Mi chiedo se me la sento davvero. Non riesco a rispondermi, ma scendo dall’auto. L’uomo mi viene incontro con la mano tesa: «Michele, piacere».
Salgo sulla sua macchina, direzione Padova. Quando studiavo Giurisprudenza, uno dei miei cavalli di battaglia era la funzione rieducativa della pena e ora la richiamo alla mente, perché la mia agitazione faccia un passo indietro.Michele Montagnoli ha ucciso la sua compagna nel 2005 ed è uscito di prigione nel 2017, dopo aver scontato dodici anni di carcere.
Siamo diretti alla sede della cooperativa All’Opera, l’impresa di cui lui è socio fondatore e che si occupa del reinserimento lavorativo e sociale dei detenuti. L’altro socio è Massimiliano Miele: i due si sono conosciuti anni fa all’interno del carcere Due Palazzi, nella cooperativa Giotto. «Ci occupiamo di detenuti, è vero, ma non solo». La voce di Michele mi stana dai pensieri. «Abbiamo contrattualizzato anche richiedenti asilo, persone appartenenti alle categorie protette e più in generale svantaggiate, che faticano a cercare un’occupazione».
Facciamo tappa a Vigonza, sede della Fralex, azienda specializzata nell’assemblaggio industriale di piccoli elettrodomestici. Alla cooperativa hanno affidato lo smontaggio delle macchine del caffè e l’inscatolamento delle cialde. Mi avvicino ai ragazzi che stanno lavorando in magazzino, scambio qualche parola con loro. Hu ha 32 anni, mi racconta che fuori dal carcere non c’era nessuno ad aspettarlo e lo fa in un italiano incerto. Viene qui in bici. «Abiti lontano?», gli chiedo. Scuote la testa. «Gli abbiamo trovato una stanza in paese», si inserisce Massimiliano, l’altro socio. «Cerchiamo di dar loro una mano anche sulle questioni pratiche, i colloqui con l’assistente sociale, i documenti. Sappiamo cosa significa». «D’altronde», continua Michele, «le anime di All’Opera sono due, quella imprenditoriale e quella sociale, e una non può vivere senza l’altra».
Risalgo in macchina con lui, la seconda tappa è il loro ufficio di Padova dove ci aspetta Tommaso Bedin, rappresentante legale della cooperativa. Quando Michele parla di nuovo, guarda la strada. «In cella puoi mentire a tutti ma non a te stesso. Hai tanto tempo per pensare a quello che hai fatto e alla vita che ti ha portato lì. Il carcere mi ha salvato. Prima correvo i rally e avevo tra le mani sempre troppi soldi e troppa cocaina. A trent’anni lavoravo nell’impresa di famiglia e un giorno mio padre mi ha proposto di affidare un’attività a dei detenuti. Gli ho risposto che era un matto e che non avrei mai voluto avere a che fare con quella gente lì. Poi sono diventato io, quella gente lì. E ora lo sono i ragazzi che aiutiamo».
Ragazzi come Hu, appunto. O come Giovanni, che ha 42 anni e mi compare sorridente nello schermo, collegato da Bari, dove ha raggiunto la famiglia per un permesso premio. È quello che si dice un «articolo 21»: esce dal carcere solo per lavorare, coordina la squadra del magazzino di Vigonza e la sera rientra in cella. «La mattina mi sveglio e sono contento di avere un impegno da affrontare», mi spiega, «a volte non è facile far andare d’accordo tante persone di nazionalità diverse, ma mi impegno perché tutti lavorino bene insieme». Mi parla del suo percorso, del ruolo fondamentale che hanno avuto gli educatori. E conclude lapidario: «Oggi senza lavoro non so stare».
Una delle prime domande che facciamo a una persona sconosciuta è: «Di cosa ti occupi?». In quest’ottica, dare un lavoro a chi è stato in carcere e ha scontato una condanna significa fornire una nuova e concreta possibilità di identificazione, per evitare il più possibile il perpetuarsi di comportamenti devianti e criminali.
«Non voglio dimenticare il male che ho fatto», mi dice Massimiliano, «perché dimenticare porta gli eventi a ripetersi. Se fossi rimasto negli altri istituti avrei continuato a essere quello che ero. È stato un educatore che veniva dai Due Palazzi a raccontarmi cosa si faceva a Padova, quando io stavo a Palermo. Ho voluto subito venire qui».
«Il lavoro è al centro del mio progetto di cambiamento», mi racconta Giuseppe, un uomo di 46 anni che lavora con All’Opera da un anno e mezzo. «Mi occupo della finitura delle impronte auricolari per GN Hearing, che produce protesi acustiche. È un lavoro delicato, penso sempre che dall’altra parte c’è una persona che ha necessità di un apparecchio per poter sentire. Quando sono arrivato avevo paura, non sai mai come gli altri possano reagire. Ma ho pensato soltanto a svolgere il mio compito al meglio, il resto è venuto da sé».
«Siamo stati in assoluto il primo cliente di All’Opera», ammette con orgoglio Giulio Sartori, customer care manager Italia della multinazionale GN Hearing. «L’azienda aveva una necessità operativa e ne è stata affiancata una sociale: la sensibilità già c’era, i nostri pasti sono gestiti dalla cooperativa Work Crossing che opera nel carcere di Padova… ma tra l’avere addetti esterni o interni la percezione cambia». «E com’è andata?», gli chiedo. Fa un attimo di pausa. «Di fronte a questi temi ci sono due visioni, una è quella che ritiene impossibile il cambiamento e allora non rimane altro che la pena di morte. L’altra è quella che non identifica un detenuto con il suo reato e pensa ci possa essere un recupero della persona. In quest’ultimo caso, più delle parole contano i fatti. Siamo stati dei facilitatori, abbiamo mostrato di crederci».
«Il lavoro è il primo passo per il reinserimento nella società», mi spiega Melania Russo, psicologa che ha un ruolo fondamentale nella cooperativa All’Opera. «Chi esce dal carcere è spesso senza punti di riferimento e capita che incappi di nuovo in situazioni disfunzionali. Avere un’occupazione è determinante per evitarlo. Molti hanno difficoltà relazionali, difficoltà a seguire le regole del lavoro; la cooperativa si fa carico di questo aspetto e io li seguo nel processo: non si tratta solo di insegnare un mestiere ma di costruire un percorso di cambiamento, una nuova vita». «L’unico modo per sviluppare il senso di responsabilità nelle persone è affidare loro delle responsabilità», si legge nella sede di Italchimica, azienda italiana di detergenza e sanificazione professionale. Stefano Belloni, responsabile risorse umane e affari legali, ha le idee chiare in proposito. «Abbiamo raggiunto molti obiettivi in questi due anni così difficili per tutti. Ora vogliamo restituire valore alla comunità con progetti sociali. Ci interessa essere uno dei contesti dove attività come quelle di All’Opera siano recepite e valorizzate, stiamo ragionando con loro in termini di collaborazione per il nuovo anno».
Mentre torniamo verso Verona, Michele mi fa sentire alcuni dei tanti messaggi vocali che riceve. «Se hai un lavoro per me, io vengo». «Sono bravo nelle attività manuali, avete qualcosa?». Lui e Massimiliano sono una speranza per chi sta ancora dentro, la dimostrazione che esiste la possibilità di una vita diversa. Nell’aprile 2020, in una Piazza San Pietro deserta, Michele ha partecipato alla Via Crucis con papa Francesco insieme a don Marco Pozza, cappellano del carcere di Padova. «Il Papa mi ha detto che sono un vivo che è resuscitato. Io non sono più l’uomo che ero, l’unico mio desiderio sarebbe tornare indietro per riparare, ma non si può. Anche se per la legge sono libero, in realtà non lo sarò mai, perché ogni giorno ho con me la consapevolezza di ciò che ho fatto, del dolore che ho causato».
Lo saluto, risalgo in macchina. Mentre guido lungo un’autostrada senza più nebbia penso che sarebbe stato più facile per me non conoscere il reato compiuto da Michele. Ci sono abissi personali in cui è meglio non immergersi. Ma credere davvero che la pena abbia una funzione rieducativa, come è scritto nella nostra Costituzione, significa anche comprendere l’importanza di raccontare una storia come quella di All’Opera. Il senso di quest’impresa sta tutto nelle parole che il presidente di una grossa fondazione padovana ha rivolto un giorno a Michele e a Massimiliano: «Il vostro progetto mi fa stare tranquillo. Soprattutto per i miei nipoti».


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