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Giuseppe Piccolomo, “il killer delle mani mozzate”, 56 anni, imbianchino, padre. Seda la moglie con un sonnifero, la cosparge di benzina e la arde viva. Simula un incidente, intasca l’assicurazione, sposa l’amante cameriera e patteggia un anno e 4 mesi per omicidio colposo. Sei anni dopo viene condannato all’ergastolo per la morte di una pensionata cui aveva mozzato le mani, è indagato anche per l’omicidio di Lidia Macchi. Solo 16 anni dopo le figlie riescono a farlo condannare anche per l’omicidio della propria mamma. Lui si presenta in tribunale con una maglietta in cui ha stampato la foto delle figlie e della moglie uccisa. Condannato nuovamente all’ergastolo, poi annullato per il principio del ne bis in idem

Caravate (Varese), 20 Febbraio 2003


Titoli & Articoli

Varese, il killer si sentiva al sicuro “Prenderanno il primo che passa” (la Repubblica – 30 novembre 2009)
Il giudice convalida il fermo dell’assassino della pensionata a cui amputò le mani. A un amico aveva detto di essere certo di farla franca. E in carcere dice: “Sono musulmano”
Era convinto di farla franca il killer delle mani mozze. Nei giorni successivi al delitto dell’anziana tipografa mutilata nella sua casa nel Varesotto, Giuseppe Piccolomo confidò ad un amico la sua spavalda sicurezza. “Vedrai che i carabinieri prenderanno il primo che passa, lo metteranno dentro e a quello non resterà che chiedere la clemenza della Corte”.
Non sapeva l’ex ristoratore, poi titolare di una piccola impresa edile sommersa dai debiti, che la squadra mobile lo stava intercettando. La frase è finita in un’annotazione della polizia portata sul tavolo del giudice per le indagini preliminari che stamane ha deciso di convalidare il fermo in carcere “in considerazione dei gravi indizi di colpevolezza”. Non sarà quindi scarcerato Giuseppe Piccolomo come voleva invece il suo legale. E non è servito che all’interrogatorio l’imputato abbia fatto scena muta: le prove raccolte dalla Procura sono sufficienti a sostenere l’incriminazione per omicidio premeditato.
La Procura di Varese è convinta che sia stato lui ad uccidere Carla Molinari, 82 anni, e a mozzarle entrambe le mani nel villino a Cocquio Trevisago il 5 novembre scorso. E le prove sembrano certe: il telefonino dell’indagato “agganciato” alla rete telefonica di Cocquio nell’ora del delitto; l’immagine della sua auto impressa nei filmati di una telecamera vicino alla casa dell’omicidio; i graffi in faccia, segno della disperata resistenza della vittima e, infine, quei quattro mozziconi di sigaretta rubati in un supermercato – una testimone lo ha visto rovistare nel portacenere – e abbandonati nell’appartamento della vittima per complicare le indagini.
Al bar del centro commerciale di Cocquio tutti conoscono Giuseppe Piccolomo. Seduto al tavolino, trascorreva interi pomeriggi con la Gazzetta dello Sport fra le mani.
Tifosissimo del Milan, aveva seguito la squadra anche a Vienna in occasione di una finale di Coppa dei Campioni e c’è chi lo ricorda vestito da diavolo con in mano il tridente in plastica. Si era convertito all’islam dopo il suo secondo matrimonio con una giovane marocchina con la quale gestiva la pizzeria non lontana dalla villetta dell’orrore. Non frequentava la moschea, ma nel carcere dei Miogni dove è rinchiuso da venerdì, Giuseppe Piccolomo ha subito informato gli agenti che è musulmano affinchè non gli cucinassero carne di maiale o gli servissero del vino vietato dalla fede religiosa.
Ieri Nunzia, primogenita dell’artigiano indagato, era stata dura con suo padre: “E’ un assassino”, ha detto. E’ convinta, insieme alla sorella Cinzia, che Giuseppe abbia ucciso anche sua madre morta cinque anni fa nel rogo dell’auto su cui viaggiava con il marito. Un incidente su cui ora la procura di Varese immagina di riaprire il fascicolo chiuso con una pena patteggiata ad un anno e 4 mesi per omicidio colposo. Ma le figlie raccontano un’altra verità: “Quando abbiamo saputo che mamma era arsa viva e lui non si era fatto nulla, abbiamo subito pensato che a ucciderla fosse stato lui”.
Il ritratto dell’imbianchino tracciato dalle figlie è quello di un uomo violento, capace di tutto. Per fare sapere chi sia veramente loro padre, hanno scelto le telecamere del Tg3: “Era un padre padrone, sempre irascibile”, ha detto in tv Nunzia, sposata con un agente di polizia penitenziaria in servizio proprio del carcere di Miogni in cui è rinchiuso il padre. “Dopo la morte di mamma lo abbiamo cancellato, ma ora vogliamo solo sapere cosa è successo davvero in quel febbraio 2003. Vogliamo la verità”.

 

«Il killer delle mani mozzate ha ucciso altre due donne» (il Giornale – 5 gennaio 2014)
Il giudice aveva promesso a Cinzia e Tina che avrebbe cercato di far luce sulla fine della madre e, dopo aver studiato il caso per mesi, è riuscita a convincere i colleghi di Varese a riaprire il caso di Marisa Maldera, bruciata viva nella sua auto nel 2003. Unico sospettato Giuseppe Piccolomo, marito della vittima e padre delle ragazze, già all’ergastolo per l’omicidio di Carla Molinari e indagato per l’uccisione di Lidia Macchi.
Piccolomo, imbianchino di 62 anni residente a Ispra in provincia di Varese, venne fermato nel novembre del 2009 per il delitto di Carla Molinari, 82 anni, sgozzata nella sua abitazione nella vicina Coquio Trevisago. L’uomo prima di lasciare la scena del crimine mozzò le mani alla vittima che aveva lottato disperatamente, per impedire agli investigatori di trovare sotto le unghie frammenti di pelle. Un trucco che non gli evitò prima l’arresto e poi la condanna all’ergastolo nel 2011 in Corte d’Assise a Varese. L’uomo si dichiarò sempre innocente: «la polizia mi ha incastrato con prove false» e il legale ricorse in appello. L’incartamento passò al sostituto procuratore generale Carmen Manfredda a cui si rivolsero le due figlie: «Guardi che quel mostro, oltre ad averci molestate da piccole, ha ucciso anche nostra madre, per sposarsi con una donna marocchina più giovane».
Il magistrato prese a cuore la vicenda, studiò la vita dell’imbianchino e riuscì a far riaprire ben due inchieste per altrettante donne uccise in provincia di Varese. La prima riguarda Lidia Macchi, scout ventenne uccisa nel 1987 fuori dall’ospedale di Cittiglio con venti coltellate alla schiena a all’addome. La seconda, ancora più raccapricciante, la moglie di Piccolomo, Marisa Maldera, bruciata viva nel febbraio del 2003 a Caravate. La coppia al tempo gestiva due ristoranti, a Caravate e a Coquio. Piccolomo era presente e raccontò poi quel che era accaduto: «Abbiamo fatto il pieno alla nostra Volvo Polar poi, come scorta, abbiamo riempito una tanica da 20 litri. Credo ci sia stata una perdita e poi l’innesco quando mia moglie si è accesa una sigaretta. Ho visto fumo e fuoco nell’abitacolo, mi sono fermato sono sceso e le fiamme hanno avvolto la vettura, senza lasciarmi modo di salvare mia moglie». Un comportamento che costò a Piccolomo una condanna a 15 mesi per omicidio colposo. Dopo poco tempo, superato senza traumi dolore e rimorso, sposò una giovane tunisina. Poi il delitto Molinari, l’arresto, la condanna in primo grado.
In febbraio la vicenda approdò alla Corte d’Assise d’Appello, trovando appunto il giudice Manfredda come pg. A lei si rivolsero subito le figlie, spiegando cosa avesse fatto loro da piccole: «lui ci portava nel letto, ci toccava e poi si masturbava», le botte alle madre e forti sospetti sulla sua fine. La pg ottenne la conferma della condanna all’ergastolo, poi la riapertura di due inchieste, grazie alle «raccomandazioni» spedite in procura a Varese. Prima la vicenda Macchi ora quella Maldera. Proprio nei giorni scorsi infatti pm Luca Petrucci ha chiesto la riapertura del caso, domanda prontamente accolta dal gip Stefano Sala. Altri due ergastoli potrebbero dunque attendere il «killer delle mani mozzate».

“Nostro padre, un mostro” (la Prealpina – 28 luglio 2014)
Per ventisette anni la morte di Lidia Macchi, la studentessa universitaria di Casbeno uccisa a coltellate e trovata cadavere nel 1987 nei boschi di Cittiglio, è rimasta un giallo irrisolto. Ora, però, uno “spiraglio di luce”, come lo definiscono gli stessi familiari della giovane, è comparso in mezzo al buio in cui sembravano immerse le indagini. La Procura Generale di Milano prima ha tolto l’inchiesta dalle mani dei pm di Varese e poi l’ha chiusa accusando di omicidio volontario aggravato Giuseppe Piccolomo, l’artigiano di 64 anni di fatto un presunto serial killer, dato che è già stato condannato all’ergastolo per il cosiddetto “delitto delle mani mozzate” del 2009 ed è sospettato anche di aver ucciso la moglie. E’ stata fatta “finalmente”, come spiega Alberto Macchi, fratello di Lidia, “un po’ di chiarezza, anche se noi attendiamo il lavoro della giustizia con discrezione, senza odio né voglia di rivalsa”. Alberto, che era un bimbo di pochi mesi quando venne trovato il corpo della sorella di 21 anni, racconta con garbo che le indagini della Procura di Varese sull’omicidio hanno avuto certamente “alcuni limiti che ora sono emersi in modo evidente, anche se poi non sta a noi della famiglia dirlo. Tra questi, oltre alla cattiva conservazione di alcune prove, anche la scelta degli inquirenti di non far uscire mai formalmente dall’inchiesta Don Antonio Costabile“, all’epoca responsabile del gruppo scout frequentato da Lidia. Il sacerdote, ora sessantenne, fu uno dei 4 religiosi sentiti come testi nelle prime fasi delle indagini. Era parroco nella zona e amico di Lidia, ma non c’era alcuna prova contro di lui e l’esame del Dna tolse ogni dubbio. Per 27 anni, tuttavia, il suo nome è rimasto nell’inchiesta: ci ha pensato il sostituto pg Manfredda a chiederne l’archiviazione e a chiudere le indagini, in vista della richiesta di processo, nei confronti di Piccolomo, anche accusato di presunti abusi sessuali sulla ragazza. Intanto, da questa anche per lui drammatica vicenda Don Antonio è uscito con grande dolore e amarezza. Da qualche anno è responsabile del servizio di catechesi della diocesi di Milano e tutta la sua attenzione è rivolta a progettare i percorsi più adatti per avvicinare i bambini alla vita cristiana. “Non ho mai detto nulla e continuerò a non parlare di quella storia”, ha risposto gentile ma deciso a chi ha tentato di avvicinarlo. Pacati anche i toni della famiglia Macchi, che valuterà nel corso del procedimento se costituirsi come parte civile. “Noi – ha spiegato Alberto – non dobbiamo trovare un colpevole a tutti i costi e attendiamo il lavoro dei magistrati. Per noi – ha aggiunto – Piccolomo è uno sconosciuto e da questo punto di vista, se un processo provasse che è stato davvero lui, l’unico sollievo nel dolore sarebbe che ad uccidere non è stata una persona che frequentava la nostra casa”.
Dure, invece, le parole delle figlie di Piccolomo contro il padre. “Lui è sempre stato un “mostro” di padre, un “mostro” di marito e un “mostro” di uomo”, spiega Tina Piccolomo. Le sue dichiarazioni a verbale, come quelle della sorella Cinzia, sono risultate decisive nelle nuove indagini assieme a una serie di altri elementi, tra cui un identikit. “Abbiamo sempre detto ai pm di Varese – aggiunge Tina – che lui aveva ucciso nostra madre e che ci ripeteva, quando io e mia sorella avevamo 15 e 12 anni, che aveva ammazzato Lidia. Intanto rideva e io pensavo che lo dicesse per spaventarci, ma mia sorella è sempre stata convinta che fosse lui l’assassino”.

Morte Marisa Maldera, tutto rinviato. «Vogliamo giustizia per nostra madre» (la Provincia di Varese – 27 maggio 2017)
Morte Marisa Maldera: tutto rinviato al 15 settembre. «Noi abbiamo paura», dicono Tina e Cinzia Piccolomo. Paura che quel «mostro esca e ci faccia del male». Il mostro per le ragazze è il loro padre: Giuseppe Pippo Piccolomo, 66 anni, già condannato all’ergastolo in via definitiva per l’omicidio di Carla Molinari, assassinata nella sua abitazione di Cocquio Trevisago nel 2009 (le furono mozzate entrambe le mani) oggi accusato di aver assassinato la prima moglie, Marisa Maldera, morta nel febbraio 2003 in uno strano incidente avvenuto a Caravate. Piccolomo e la moglie, dopo le 2 di notte, fecero un giro in auto. Auto che trasportava una tanica di benzina. Ci fu un incidente. Piccolomo ne uscì illeso, la moglie morì arsa viva.
«Ci disse – raccontano le figlie – di avere visto la sua pelle scollarsi dal viso». Dopo 14 anni le due ragazze ieri erano in aula: «abbiamo sempre detto che l’aveva uccisa lui – spiegano – ha patteggiato per omicidio colposo a un anno e 4 mesi. Abbiamo sempre detto che era stato lui. Che l’aveva uccisa per poter stare con la lavapiatti». La giovane marocchina sposata da Piccolomo due mesi dopo la morte della prima moglie. Per l’accusa fu un delitto passionale e non solo. C’era anche un’assicurazione «della quale non sapevamo niente sino alla morte di nostra madre», spiegano le figlie.
Ieri, davanti al gup Anna Giorgetti Piccolomo avrebbe dovuto andare incontro al proprio destino: rinvio a giudizio, oppure archiviazione in conseguenza del ne bis in idem, ovvero la norma che vieta che una persona sia processata due volte per lo stesso delitto: Piccolomo patteggiò a un anno e quattro mesi per la morte della prima moglie quattro anni fa. C’è stato un vizio di notifica: al figlio di Piccolomo e Maldera, possibile parte civile, non è stata notificata la convocazione per l’udienza. Tutto rinviato al 15 settembre dunque. «È un’angoscia – dice Tina Piccolomo – è stato lui, noi lo sappiamo. Questo rinvio non fa che angosciarci. Tuttavia ci sono voluti 14 anni: siamo al punto di poter aver giustizia per nostra madre. Quindi rispettiamo il lavoro degli inquirenti». Il 15 settembre il gup dovrà decidere se mandare a giudizio Piccolomo, che potrebbe trovarsi ad affrontare una seconda Corte d’Assise. «Noi sappiamo che è stato lui. E continuiamo a chiedere giustizia. Continueremo a farlo. A prescindere perchè nostra madre merita la verità».

«La guardò ardere viva. Un femminicidio ante litteram» (La Provincia di Varese – 17 settembre 2017)
«Quello di fu un femminicidio nel senso più stretto del termine. Molti anni prima che il termine venisse coniato. Fu un delitto dal movente passionale ed economico: il marito la uccise per poter sposare la giovane con la quale aveva una tresca e, contemporaneamente, incassare l’assicurazione stipulata sulla vita della donna. È tutto nell’indagine: documentato». , legale di e , le due figlie di Maldera che da 14 anni accusano il loro padre, , il killer delle mani mozzate, di aver assassinato la prima moglie, torna a parlare della storica decisione presa l’altro ieri dal gup che in ordinanza ha superato lo scoglio del “ne bis in idem”. Fatto mai accaduto nella giurisprudenza italiana.
Piccolomo, già condannato all’ergastolo in via definitiva per l’omicidio di , assassinata nel settembre 2009 a Cocquio Trevisago («è un uomo che odia le donne», commentarono le figlie all’epoca) , aveva già patteggiato una pena a un anno e 4 mesi per omicidio colposo della moglie. Marisa Maldera morì il 20 febbraio 2003 in uno “strano” incidente stradale. La vettura guidata dal marito, sulla quale Piccolomo aveva caricato una tanica di benzina, uscì di strada e prese fuoco. Maldera non cercò o non riuscì a scendere dalla macchina in fiamme e morì arsa viva. Piccolomo uscì praticamente illeso dal fatto. Che fu trattato come incidente stradale: omicidio colposo.
Quattro anni fa la procura generale di Milano, su input delle figlie di Marisa riaprì le indagini e «provò una storia completamente diversa» dice Gentile. Il “ne bis in idem” è il principio giuridico in base al quale una persona non può essere processata due volte per lo stesso fatto. «Ma qui il fatto è completamente diverso – dice Gentile – non fu un incidente stradale ma un omicidio volontario. Basta comparare i due capi di imputazione per capire che il ne bis in idem non c’è. Piccolomo non uscì di strada accidentalmente quella notte. Quello di Marisa fu un omicidio volontario premeditato e pianificato con cura».
Secondo quanto ricostruito dalla procura generale «il marito somministrò alla moglie in modo fraudolento dei farmaci per stordirla in modo non potesse lasciare l’auto in fiamme – dice Gentile – tracce di farmaci che, la donna non assumeva, sono state trovate nei nuovi tossicologici. Inoltre è stato identificato e sentito il netturbino che quella notte vide un uomo, presumibilmente Piccolomo, fumare tranquillamente una sigaretta accanto all’auto in fiamme dove Marisa moriva. Ribadisco: fu femminicidio. E aggiungo: uccidere qualcuno è abominevole. Uccidere qualcuno guardandolo bruciare vivo è disumano». Ora Piccolomo potrà essere processato per l’omicidio volontario della prima moglie. Il gup deciderà il 13 novembre. «Per noi – dicono Cinzia e Tina –è la speranza dare finalmente giustizia a nostra madre. Saremo sempre grate alla procura generale di Milano e ai giudici di Varese».

«Io il killer di Marisa? No, ho tentato di salvarla» (la Provincia di Varese – 14 novembre 2017)
«Non ho ucciso nessuno. Se ho una colpa è quella di averle tolto la sigaretta di mano in modo repentino, ma per salvarla. Non per ucciderla». , 67 anni, ieri ha rilasciato spontanee dichiarazioni davanti al gup che ha rinviato, dopo due ore di camera di consiglio, la decisione sul rinvio a giudizio o meno del killer delle mani mozzate (Piccolomo è già stato condannato in via definitiva all’ergastolo per l’omicidio di consumato nel novembre 2009 a Cocquio Trevisago alla quale tagliò le mani) per l’omicidio volontario di , prima moglie dell’uomo morta in un incidente stradale considerato anomalo dall’accusa nel febbraio 2003.
Piccolomo aveva patteggiato all’epoca una pena a un anno e 4 mesi per omicidio colposo. La procura di Varese non trovò nulla di anomalo nell’accaduto. e , figlie della coppia, da sempre sostengono che quell’incidente, in seguito al quale Maldera morì arsa viva nell’auto in fiamme, fu in realtà un omicidio volontario. La procura generale di Milano tre anni fa riaprì le indagini. Il gup a settembre rigettò l’eccezione sollevata da , difensore di Piccolomo superando il “ne bis in idem” (principio giuridico in base al quale una persona non può essere processata due volte per lo stesso fatto). Piccolomo, dunque, può essere rinviato a giudizio per l’omicidio della prima moglie.
Ieri avrebbe dovuto essere il giorno della verità: un processo, come speravano le figlie di Marisa, oppure il non luogo a procedere che avrebbe chiuso la vicenda. Il gup ha optato per una terza via, quella dell’approfondimento, chiedendo al perito che ha analizzato la dinamica dell’incidente di svolgere ulteriori approfondimenti il cui esito sarà esposto in aula il prossimo 19 gennaio.
«Finalmente – commenta Bruno – un magistrato che non si accontenta di ascoltare una sola voce». Bruno ieri ha discusso in aula: «Il perito ha sostanzialmente concluso che la dinamica dell’incidente è differente da quanto dichiarato da Piccolomo. Il mio assistito, in realtà, ha semplicemente spiegato che l’auto, uscendo fuori strada a velocità non elevata, si è ribaltata. La benzina contenuta nella tanica trasportata nell’abitacolo è schizzata ovunque e la sigaretta che la moglie stava fumando, e che lui ha cercato di levarle di mano proprio per eliminare il pericolo di un incendio. Piccolomo ha quindi spiegato di non ricordare niente, comprensibilmente, delle fasi più concitate dell’uscita di strada».
L’auto si sarebbe dunque ribaltata sfruttando come “leva” un muretto di pochi centimetri che costeggiava la strada finendo in un prato. «Si è quasi appoggiata, visto che la vettura non era lanciata a 100 all’ora – continua Bruno – questo giustificherebbe un danno alla portiera del lato passeggero, come dichiarato da Piccolomo, incastrata in conseguenza di questo. Il motivo per cui Piccolomo non riuscì ad aprire lo sportello». E Maldera restò intrappolata in mezzo al fuoco. Per l’accusa invece Piccolomo sedò la moglie per evitare che potesse fuggire e inscenò l’incidente per mascherare un omicidio premeditato.

«Ho visto la Volvo parcheggiata nel prato» (la Prealpina – 14 luglio 2018)
Un teste demolisce il racconto del presunto incidente. Ma è un pregiudicato. La testimonianza dell’assicuratore
Colpo di scena, con qualche dubbio subito dopo. Nel corso della quarta udienza del processo a Giuseppe Piccolomo, accusato davanti alla Corte d’Assise presieduta da Orazio Muscato di aver ucciso la prima moglie Marisa Maldera nel 2003, simulando un incidente stradale seguito dall’incendio dell’auto, c’è stata una testimonianza potenzialmente molto importante per il pm Maria Grazia Omboni. Ma subito dopo, quando a interrogare il teste è stato il difensore di Piccolomo, l’avvocato Stefano Bruno, è saltato fuori che l’uomo ha avuto guai con la giustizia per truffa e sequestro di persona, che è stato un informatore della polizia e che è stato prosciolto in un processo perché ritenuto incapace di intendere e di volere. Un testimone attendibile, dunque? Impossibile dirlo al momento: forse sarà dirimente l’esame della fidanzata del testimone, che era con lui quando entrò per caso in questa storia terribile.
L’uomo ha raccontato infatti che nella notte in cui Marisa morì nel rogo dell’auto dei Piccolomo stava tornando a casa dopo un turno di lavoro alla Whirlpool, appunto in compagnia della sua fidanzata dell’epoca. «Tra Gemonio e Caravate – ha riferito il teste – feci una curva e illuminai con i fari un’altra auto che era ferma a luci spente in un prato. Era una Volvo station wagon e sembrava parcheggiata: pensai che dentro ci fosse una coppietta che si era appartata. A fare la curva impiegai circa quattro secondi e anche nello specchietto retrovisore non vidi nulla di strano. Il giorno dopo seppi quello che era accaduto, dell’incendio e della morte di una donna in quel prato, e scoprii che la Volvo bruciata era nello stesso punto dove avevo visto la Volvo parcheggiata».
In base a questa testimonianza, dunque, il racconto di Piccolomo di un incidente stradale, della Volvo che va fuori strada e piroetta, della benzina sparsa nell’abitacolo che s’incendia a causa di una sigaretta fumata da Marisa, andrebbe totalmente in pezzi. «Ha visto quell’auto bruciare?», è stato chiesto ieri al testimone. «No – è stata la risposta – non ho visto nessun incendio e nessun bagliore: del resto, se avessi visto qualcosa del genere, mi sarei fermato immediatamente».
Poco dopo i fatti il testimone parlò con un maresciallo dei carabinieri di quello che aveva visto, ma il militare l’avrebbe invitato a «non dare ascolto alle voci: quello è stato un incidente».
E la circostanza riferita in aula sarebbe saltata fuori di nuovo, nel corso delle indagini bis sulla morte di Marisa Maldera, durante un colloquio dell’uomo con il comandante della Polizia locale del Medio Verbano Manuel Cinquarla. A favore della difesa di Piccolomo, invece, la testimonianza di un assicuratore che ha ricostruito la storia di una polizza sulla vita di Marisa, ritenuta dall’accusa un movente dell’omicidio insieme all’infatuazione di Pippo per la cameriera marocchina del ristorante, poi diventata sua moglie. Il testimone ha spiegato che l’assicurazione liquidò a Piccolomo, per tutti gli eredi, poco più di 116.000 euro dopo il decesso della moglie. La polizza fu stipulata nel gennaio 2002 e già allora prevedeva un capitale triplicato in caso di morte per sinistro stradale, mentre nel febbraio 2003, pochi giorni prima del presunto incidente, fu aumentato solo il premio mensile, con corrispondente aumento del capitale base da 32 a 38.000 euro. E non è nemmeno certo che si sia trattato di un’iniziativa di Piccolomo. Particolare singolare: evidentemente l’assicurazione rimase all’oscuro del patteggiamento del marito della defunta per omicidio colposo. «Se l’avessimo saputo, non ci sarebbe stata nessuna liquidazione», ha detto il testimone.

Marisa Maldera: c’era tranquillante nel sangue prima di morire (Varese News – 12 ottobre 2018)
La consulenza dell’accusa conferma la presenza di Lorazepam nel metabolismo della donna “che ha influito sul sistema nervoso centrale”. I rilievi tecnici sull’auto escludono il ribaltamento
Chi muore in un incendio può avere nel sangue tracce di carbossiemoglobina, la sostanza emessa dalla combustione che, se arriva ad alti livelli, può produrre svenimenti e perdita di coscienza: Marisa Maldera quella notte del febbraio del 2003 aveva una percentuale nel sangue vicina al 35%. Se fosse riuscita ad uscire dall’auto si sarebbe salvata quasi certamente: ossigeno ad alti flussi e il ricovero d’urgenza in ospedale e poi in camera iperbarica l’avrebbero rimessa in sesto. Ma nel metabolismo della moglie di Giuseppe Piccolomo deceduta orribilmente perché intrappolata nella Volvo Polar in fiamme in mezzo al prato di Caravate, c’era anche dell’altro.
La tossicologa forense dell’università di Pavia Cristiana Stramesi nei campioni prelevati dal cadavere e conservati per anni a -20 gradi ha trovato anche tracce di Lorazepam, il principio attivo di tranquillanti come Tavor o Control, medicinali per curare stati d’ansia o insonnia: poche gocce prese ogni giorno assicurano livelli terapeutici nel sangue ma anche nei tessuti (ma Marisa non l’assumeva). Lo stesso quantitativo preso una tantum, invece, provoca egualmente livelli elevati di torpore, in grado di «influire sul sistema nervoso centrale», anche se le tracce nel metabolismo risultano più tenui. Tradotto: intontimento, confusione e quella sensazione che ladri e rapinatori col pallino della chimica conoscono bene quando devono derubare qualcuno somministrando la sostanza in bevande comuni. Anche nel caffè, che non influisce come antagonista, tanto che spesso nelle case di riposo si utilizza proprio la classica tazza di caffè per somministrare il potente tranquillante.
Giuseppe Piccolomo, mentre la professionista parlava, non ha fatto neppure una piega. Anzi sembrava a suo agio nella gabbia, tanto da slacciarsi la felpa per mostrare una t-shirt con stampato il volto della moglie e dei due figli. Lo stesso clima che si è respirato quando l’altro consulente dell’accusa, l’ingegner Domenico Romaniello ha tratteggiato i diversi scenari legati alla traiettoria che l’auto avrebbe fatto per andarsi a trovare in mezzo al prato che costeggia la Provinciale. Qui le ipotesi sono due: o l’auto nel prato ci è arrivata da un viottolo appena tracciato per consentire il passaggio ai mezzi agricoli che 15 anni fa arrivavano nel campo per lavorare la terra (ma non nella stagione dell’incidente, era febbraio); oppure la Volvo in mezzo al campo c’è arrivata come sostiene l’uomo alla guida dell’auto quella gelida notte (-4,5 gradi), cioè uscendo di strada e cappottandosi, causando lo spargimento di benzina custodita in una tanica posta dietro al sedile anteriore del passeggero e responsabile dell’incendio. Ipotesi possibile, in almeno due scenari legati alla velocità e al conseguente tragitto compiuto dal mezzo, ma del tutto incongruente con le condizioni della carrozzeria: l’auto sulla quale in coniugi viaggiavano non presentava segni di schiacciamento soprattutto nei montanti anteriori, segni che il peso del veicolo lascerebbe a seguito di più carambole su di un terreno che presenta forte attrito. C’è poi da capire cosa sia successo alle portiere dell’auto: il mezzo, dopo che le fiamme vennero domate, fu trovato con tre portiere aperte (lato guida e le due posteriori) mentre quella lato passeggero dove trovava posto la povera Marisa risultava “come inchiodata”. Non necessariamente quella portiera era stata chiusa: i rilievi tecnici sul veicolo hanno difatti dimostrato che quand’anche la portiera fosse stata aperta al momento dell’incendio, nel giro di una trentina di secondi gli alti gradi sviluppati dalle fiamme sono in grado – su quel modello – di fondere la molla del nottolino della portiera così da trasformare l’abitacolo in una palla di fuoco che non dà scampo.

Secondo ergastolo per il «killer delle mani mozzate»: «Uccise anche la moglie» (Corriere della Sera – 18 gennaio 2019)
Giuseppe Piccolomo, già condannato per l’omicidio della pensionata Carla Molinari, riconosciuto colpevole anche del delitto del 2003. Le figlie: «Dopo 16 anni finalmente abbiamo avuto giustizia per nostra madre»
Giuseppe Piccolomo, il «killer delle mani mozzate», già in carcere per aver ucciso la pensionata Carla Molinari nel 2009, è stato condannato alla pena dell’ergastolo anche per l’omicidio della moglie. La sentenza è stata letta che erano da poco passate le 12 di venerdì: impassibile, in tuta e scarpe da ginnastica dietro le sbarre della gabbia ha ascoltato il dispositivo letto dal presidente del collegio, Orazio Muscato, per poi tornare in carcere. I fatti che hanno portato alla condanna risalgono al 20 febbraio del 2003, quando Giuseppe Piccolomo e a moglie Marisa Maldera, dopo una serata passata al ristorante che gestivano, uscirono per un giro in auto che finì nel giro di poche ore, nel cuore della notte, con l’incendio nel quale la donna morì bruciata viva a Caravate, in provincia di Varese. La procura di Varese indagò sul caso e nel 2006 ci fu un patteggiamento a un anno e 4 mesi per omicidio colposo.
Fu grazie alle figlie Cinzia e Tina e ai loro legali che ora le hanno patrocinate come parti civili – Nicodemo Gentile e Antonio Cozza – che il caso venne riaperto e in seguito avocato dalla Procura di Milano, rappresentata in giudizio dalla procuratrice Maria Grazia Omboni. Il processo per omicidio volontario ebbe inizio il 28 maggio 2018. Da allora in aula sfilarono decine fra testi, periti e criminologi chiamati dalle parti per ricostruire l’accaduto. La difesa di Piccolomo invocò la carta dell’incidente stradale con ribaltamento dell’auto e il successivo incendio per via di una tanica di benzina presente nell’abitacolo che prese fuoco a causa di una sigaretta accesa dalla donna. Venne inoltre sollevata un’eccezione preliminare per ne bis in idem: l’imputato non poteva secondo la difesa venir giudicato due volte per lo stesso fatto (eccezione non accolta dalla Corte).
L’accusa invece ha sostenuto la volontarietà dell’omicidio: nel sangue della donna vennero rinvenute tracce di benzodiazepine, sostanze i grado di inibire lo stato di coscienza di una persona: Piccolomo avrebbe sciolto questi farmaci in una bevanda fatta bere alla moglie che, semiaddormentata, venne cosparsa di benzina e data alle fiamme mentre era in auto per simulare l’incidente. Il movente sarebbe quello economico, per riscuotere il capitale di una assicurazione sottoscritta dalla moglie, ma anche passionale: Piccolomo secondo le figlie aveva una relazione con la lavapiatti marocchina Thali Zineb, che poi avrebbe sposato e da cui ebbe due figli.
In aula erano presenti le figlie dell’uomo, Cinzia e Tina, assieme a diversi nipoti: «Finalmente, dopo 16 anni abbiamo avuto giustizia per nostra madre», hanno detto tra le lacrime. La corte ha riconosciuto l’aggravante della premeditazione, dell’uso di sostanze venefiche e del legame di parentela con la vittima, riconoscendo i danni in favore della parti civili «da liquidarsi in separato giudizio civile» stabilendo una «provvisionale di 50 mila euro per ciascuna delle parti». È probabile che la difesa, patrocinata dall’avvocato Stefano Bruno, opti per il ricorso in appello.

Nunzia e Cinzia, figlie Giuseppe Piccolomo/ “Un demonio, vide mamma sciogliersi e…” (il Sussidiario – 3 novembre 2019)
Le figlie di Giuseppe Piccolomo, Nunzia e Cinzia, hanno avuto un ruolo molto importante nel processo sulla morte di Marisa Maldera, la loro madre. La vittima rimase uccisa all’età di 49 anni, morta bruciata in seguito ad un drammatico quanto misterioso incidente stradale avvenuto nel 2003. Il caso inizialmente fu archiviato come omicidio colposo, ma sin dai primi istanti proprio le figlie sono convinte che il padre possa essere il responsabile della morte della loro madre.
I loro dubbi furono ampiamente esposti anche nel corso del processo a carico dell’uomo e proprio le loro parole gettarono nuove ombre su Piccolomo. Nel corso del processo, la figlia Cinzia in più occasioni non riuscì a trattenere le lacrime di rabbia e dolore per la fine spietata capitata alla madre. “Non è stato facile, non è tutt’ora, quando ti muore una mamma e ti raccontano nei minimi dettagli come si scioglieva nel fuoco, io penso che non puoi amare una persona”, disse in aula. “All’inizio ho atteso con la speranza che ci fossero i telefoni sotto controllo, che stessero facendo delle indagini, che comunque le cose andassero avanti”, ma nulla di tutto ciò accadde. Parlando del padre, aggiunse Cinzia, “Lui ha assistito alla morte di mia mamma, l’ha vista bruciare viva. Ha assistito a questa scena e l’ha raccontata nei minimi dettagli come lei si scioglieva nel fuoco. A noi ci ha messo l’orrore negli occhi invece lui era sereno. Era tranquillissimo”.

Caso Piccolomo, Cassazione conferma: “Non andava nuovamente processato” (Varese News – 28 aprile 2022)
Passa la tesi della difesa, il “ne bis in idem“, rigettato il ricorso ricorso di Procura generale e Parte civile, che dovrà pagare le spese
I giudici di Roma danno ragione alla difesa di Giuseppe Piccolomo, l’imbianchino di Corato in carcere per l’omicidio di Carla Molinari (mani mozzate) ma che dopo l’ergastolo ha dovuto affrontare anche un altro processo, quello per la morte della moglie Marisa Maldera avvenuta nell’inverno del 2003 per la quale l’uomo ha scontato una condanna con pena definita su accordo tra le parti (un anno e 3 mesi). Tuttavia venne imbastito un nuovo procedimento penale nei suoi confronti con l’accusa non di omicidio colposo – cioè di un “semplice“ incidente stradale dove la donna perì arsa viva – ma per omicidio volontario, con l’ipotesi cioè di una somministrazione incongrua di tranquillanti per farla addormentare, simulare un’uscita di strada e per appiccare poi le fiamme all’auto in un campo a Caravate.
Per questa ricostruzione Piccolomo venne nuovamente condannato (ma all’ergastolo) in primo grado dalla corte d’Assise di Varese, nonostante l’eccezione preliminare (prima dell’inizio del dibattimento) con la quale il difensore Stefano Bruno invocò il “ne bis in idem“, principio giuridico secondo il quale non si può venir processati per il medesimo fatto (dopo cioè che si è stati condannati). In Appello a Milano difatti la corte diede ragione alla difesa ma quella decisione venne impugnata sia dalla Procura generale (l’accusa), sia dalla parte civile (cioè le figlie dell’uomo che hanno sempre creduto alla colpevolezza del padre per l’ipotesi delittuosa più grave. Di oggi la decisione della cassazione che ha rigettato i due ricorsi condannando la parte civile al pagamento delle spese processuali. «Un processo che nemmeno doveva iniziare».

 


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