Fausto Filippone, 49 anni, dirigente Brioni, padre. Lancia la moglie dal balcone, poi la figlia di 10 anni da un viadotto e si suicida
Francavilla al Mare (Chieti), 20 Maggio 2018
Titoli & Articoli
Fausto Filippone, il mediatore: “15 mesi fa qualcosa l’aveva stravolto” (il Pescara – 22 maggio 2018)
Lo psichiatra mediatore che per due ore e mezza ha tentato invano di farlo scendere dal cavalcavia ha detto che l’uomo ha rivelato di essere profondamente turbato da 15 mesi. “Aveva già deciso di uccidersi”
Qualcosa aveva cambiato e stravolto Fausto Filippone da 15 mesi. Lo ha rivelato lo psichiatra prof. Di Giannantonio e mediatore intervenuto assieme alla Polizia sul cavalcavia Alento, nel tentativo purtroppo risultato vano di salvare la vita al dirigente della Brioni, rimasto per ben 7 ore e mezza arrampicato oltre il parapetto prima di lasciarsi andare nel vuoto e morire sul colpo.
L’uomo, ha fatto sapere il mediatore, continuava a chiedere scusa per quello che aveva fatto rivelando di non riconoscersi più da poco più di un anno. Aveva però già deciso di farla finita, non era assolutamente aperto alla possibilità di scendere dal precipizio e continuare a vivere con l’insopportabile peso di quanto aveva appena fatto. Dava ordini ed era incapace di ricevere un dialogo con l’esterno. E’ rimasto li sospeso probabilmente per un ultimo istinto di sopravvivenza, istinto che però si è spento alle 20 quando si è lasciato cadere da un’altezza di 50 metri.
Cosa però l’aveva cambiato non lo ha mai rivelato: ha tentato di mantenere l’immagine di se stesso come uomo sereno, stabile e felice in questi mesi fino a domenica scorsa, quando tutto gli è crollato addosso ed ha compiuto quei gesti insani e terribili. Sul fronte delle indagini sulla morte della moglie, nel ricostruire la dinamica gli inquirenti hanno confermato che Filippone non si è mai recato in ospedale con la moglie, ma all’arrivo dell’ambulanza e della Polizia davanti al palazzo di Chieti Scalo si era già allontanato, raggiungendo la figlia che si trovava a casa degli zii per prelevarla e lanciarla dal cavalcavia.
La tragedia del viadotto: “Sono sconvolto, mio cognato poteva essere fermato” (la Repubblica – 23 maggio 2018)
Parla il fratello di Marina Angrilli, la donna caduta dal balcone. “Gli agenti dovevano accorgersi del suo atteggiamento dopo l’incidente a mia sorella”. Si sospetta una spinta del marito, che poi ha lanciato la figlia da 40 metri e si è tolto la vita. I funerali di mamma e bimba venerdì
“Mi viene difficile poter credere che sia sfuggito l’atteggiamento di questa persona, distaccata, in preda a uno stato che non aveva un aspetto di normalità. Faccio fatica a credere che possa essere sfuggito a una pattuglia di polizia. Sono sconvolto dalle notizie che ho letto su mio cognato”.
Francesco Angrilli, ematologo all’ospedale di Pescara, è il fratello di Marina, morta domenica all’ospedale di Chieti dopo una caduta dal balcone dell’appartamento di Chieti scalo, e moglie di Fausto Filippone, che si è ucciso dal viadotto sull’A14 dopo aver ammazzato la figlia. Francesco Angrilli torna sulla questione del mancato intervento degli agenti, domenica scorsa, intonro a mezzogiorno e un quarto, quando una volante è arrivata in Piazza Roccaraso 18, avvertita dal 118 dell’incidente accaduto a Marina Angrilli. Già il dottor Giuliano Salvio, il primo soccorritore, aveva espresso dubbi: “Gli agenti hanno fatto assistenza a una persona in fin di vita, del suo sedicente marito non si sono occupati. Quel signore poteva essere bloccato”. Dopo la caduta della moglie, infatti, Fausto Filippone era andato a prendere la figlia Ludovica a casa, dov’era insieme agli zii, e l’aveva poi portata in auto sul viadotto. I poliziotti in Piazza Roccaraso non gli avevano fatto domande sull’incidente della moglie, tanto meno hanno pensato di fermarlo.
“SCONVOLTO DALLA MALATTIA DELLA MADRE”. Il medico Angrilli, ancora, prova a spiegare e a spiegarsi i motivi di un gesto così tragico e violento: la distruzione di una famiglia. “Credo che la vita di mio cognato sia stata profondamente segnata dalla malattia e poi dalla morte della madre. Era tempo che la mamma di Fausto era ammalata di Alzheimer e questa condizione si è fatta sempre più pesante: la morte, lo scorso ottobre, è stato il punto terminale di un percorso di aggravamento della malattia. Dietro a questi quindici mesi ci vedo la sofferenza e anche l’impotenza perché lui era profondamente legato alla madre: non credo che un suo disagio dipendesse da problemi nella vita matrimoniale. Lo vedevamo triste e un po’ chiuso in sé per questo dispiacere della madre, però nella vita familiare non c’erano screzi, liti, dissapori di rilievo. Viviamo nella stessa palazzina, l’avremmo saputo”.
Ancora: “Credo che questo suo vissuto Fausto lo abbia ben mascherato. Negli ultimi mesi, però, le abitudini di vita non le ha cambiate. Tutte le volte che potevano padre, madre e figlia andavano in vacanza insieme, il nucleo familiare era unito”. Chiude Angrilli: “Mio cognato era una persona tranquilla, non me la sento di descriverlo come una persona a rischio di azioni violente. E’ stato vittima di se stesso, la tragedia è che ha coinvolto in questa vicenda due persone assolutamente innocenti”. L’AUTOPSIA CONFERMA: LA MOGLIE E’ STATA SPINTA. I sospetti che Fausto Filippone possa aver ucciso anche la moglie, spingendola dal balcone, sono diventati più cogenti dopo i risultati dell’autopsia che hanno escluso un malore e il suicidio della donna. “E stata una caduta improvvisa”, ha comunicato alla procura il medico legale Cristian D’Ovidio. L’esame autoptico ha confermato che Ludovica, 10 anni, è morta sul colpo, dopo il volo da 40 metri. E così anche il padre suicida.
La magistratura ha concesso il nulla osta per i funerali di Marina Angrilli e della figlia, che si terranno venerdì. Non è stato ancora concesso il nulla osta per Fausto Filippone, che avrà esequie separate e successive.
Filippone, il disegno criminale: un piano studiato per settimane (il Messaggero – 23 maggio 2018)
“Funerali separati”. Sono i familiari di Marina Angrilli, la prof 51enne di lettere del liceo scientifico Da Vinci di Pescara, mamma della piccola Ludovica, di dieci anni, a volerlo, per dare venerdì a Pescara l’ultimo saluto e una degna sepoltura a quella mamma e alla sua bambina vittime di quel disegno criminale che Fausto Filippone, il manager 49enne della Brioni, domenica scorsa ha messo in atto uccidendo prima la moglie, buttandola giù dal balcone della loro casa in piazza Roccaraso 18, a Chieti scalo, e poi, a distanza di un’ora, buttando da un cavalcavia dell’A14 la piccola Ludovica. E dopo sette ore, allo stesso modo, ha messo fine alla sua esistenza con un volo di trenta metri, precipitando a fianco al corpicino della sua bambina.
Disegno criminale nella testa di Fausto Filippone per sterminare la sua famiglia che ora, man mano che gli investigatori mettono in fila tutti i tasselli delle indagini, emerge sempre più chiaro, anche da quel dettaglio che, adesso, sembra ancora più inquietante: pochi mesi fa, Fausto Filippone aveva fatto richiesta di porto d’armi per il tiro a volo. Ma nell’incertezza dell’eventuale rilascio, e dei tempi necessari per ottenerlo, ha deciso di dare un’accelerazione al desiderio di imporre la parola fine su quella famiglia descritta da tutti come una famiglia modello. E così, con una scusa, «andiamo a comprare la lavatrice», ha prima teso una trappola alla moglie, portandola invece nell’appartamento di piazza Roccaraso 18, a Chieti scalo. E sul balcone di quella casa che l’uomo era solito affittare agli studenti, si è consumato il primo delitto. Una scaletta trovata sul lato sinistro del balcone, «compatibile con la traiettoria della caduta della donna», è per la squadra mobile di Chieti la prova del tranello studiato a tavolino: «Facciamo un selfie sul balcone», e l’ha spinta giù. La prof di lettere, soccorsa agonizzante come raccontano i vicini di casa, è morta due ore più tardi in ospedale.
Omicidio studiato e quindi premeditato. «Non un suicidio, né un malore», ha stabilito Cristian D’Ovidio, il medico legale che ha eseguito l’autopsia sul corpo della donna, interpretando la dinamica della caduta. E in quella casa non è stato trovato alcun segno di colluttazione, non s’è trattato, dunque, di un delitto d’impeto al culmine di una lite. Filippone è poi sceso nel piazzale e ha fornito ai soccorritori del 118 false generalità della moglie, forse per potersi ritagliare qualche momento in più per fuggire e portare a termine il suo disegno criminale.
Nessuno lo ha fermato. Nemmeno la volante della polizia che era già sul posto. Il manager 49enne è così tornato nella sua casa di via Punta Penna a Pescara, per prendere la piccola Ludovica: «Papà ti fa una sorpresa», le aveva fatto dire dalla zia e lei s’era fatta trovare in strada ad attenderlo. L’ha caricata in macchina ed è salito fino al cavalcavia dell’autostrada a Francavilla al Mare. E l’ha buttata di sotto. Poi, dopo sette ore aggrappato a quella rete del parapetto del viadotto, senza voler ascoltare i mediatori che hanno cercato di fermarlo, si è buttato giù.
Quindici mesi fa qualcosa in lui si era rotto, quando, ad agosto scorso, aveva perso la madre, e questo lo ha trascinato in una spirale depressiva autodistruttiva nella quale ha tirato dentro le persone a lui più care, la moglie Marina Angrilli e la loro piccola bimba, Ludovica. Francesco Angrilli, fratello di Marina, ha escluso il movente passionale, ipotizzato da quelle parole attribuite a Filippone: «Mia moglie deve farsi un esame di coscienza». «Mia sorella era una madre, moglie e insegnante irreprensibile, da prendere come esempio. Certe notizie sono inaccettabili», dice Francesco Angrilli, che con i parenti tutti venerdì si stringerà attorno alla piccola bara bianca di Ludovica e a quella più grande della sua mamma Marina, entrambe vittime del disegno ciminale di Fausto Filippone. (di Gianluca De Rossi)
”FACCIAMOCI UN SELFIE SUL BALCONE”, COSI’ IL SUICIDA FILIPPONE HA UCCISO SUA MOGLIE (Abruzzo Web – 24 maggio 2018)
Il padre omicida, Fausto Filippone, avrebbe convinto la moglie Marina Angrilli a salire sul balcone con una scusa: “Facciamoci un selfie”. Il particolare, emerso dalle indagini, è stato in parte confermato anche dagli inquirenti: “Non sappiamo se l’abbia convinta a farsi un selfie, ma il fatto che stessero scattando delle foto lo ha riferito lui mentre era aggrappato alla recinzione del viadotto ed emerge dalle prime dichiarazioni rese a chi soccorreva la moglie”, riporta Il Messaggero.
Il caso è risolto “con la morte dell’unico colpevole” per la Procura, ma sono ancora tanti gli interrogativi sugli omicidi di moglie e figlia di 10 anni, Ludovica, compiuti da Filippone, dirigente della Brioni 49enne, che si è poi suicidato gettandosi dal viadotto Alento sulla A14 a Francavilla (Chieti).
Un testimone ha confermato che l’uomo era in quel cortile della palazzina di Chieti Scalo accanto alla moglie spinta giù dal secondo piano, fino all’arrivo di 118 e polizia. Nessuno lo ha fermato? “Evidentemente”, ha ripetuto il testimone. “Vorrei sperare che non sia così. Spero che la pattuglia sia arrivata dopo che lui si è allontanato”, ha detto Francesco Angrilli, fratello della moglie dell’omicida, Marina Angrilli, 51 anni, morta poi in ospedale. “Ho pieno rispetto e fiducia per le forze dell’ ordine con cui ho avuto un rapporto encomiabile di attenzione e sensibilità – ha spiegato – Attendo le versioni ufficiali delle fonti istituzionali preposte. Non ho intenzione di procedere contro qualcuno”. “Faremo chiarezza”, ha assicurato il procuratore capo di Chieti, Francesco Testa.
“In virtù dell’impatto sociale che ha avuto questa vicenda, anche se nessuno finirà sotto processo, in Corte d’Assise, perché il caso purtroppo è risolto con la morte dell’ unico colpevole, il marito, è intenzione della Procura andare fino in fondo a tutti gli aspetti della vicenda per fare luce su quanto accaduto”, ha affermato Testa.
A tre giorni dai tragici eventi di domenica 20 maggio, è ancora commossoGiuliano Salvio, il medico che abita nella palazzina di Chieti Scalo che per primo ha soccorso la donna. “Sono rimasto diversi minuti da solo con la signora e dopo aver assicurato l’intervento del 118 ho notato una persona. Non si è subito avvicinata. Pensavo fosse uno dei curiosi”. “Gli ho chiesto se conosceva la signora, lui mi ha risposto: è mia moglie”. Poi, prosegue il testimone, “sono arrivate due ambulanze del 118 insieme a una Volante della Polizia, e a questo punto mi sono disinteressato di Filippone, ma lui continuava a vedere la signora e ad assistere ai soccorsi”.
“Escludo che la bambina sia stata sedata”, ha affermato lo psichiatra Massimo Di Giannantonio, il mediatore che è intervenuto nelle drammatiche ore del viadotto. Dalle testimonianze dei primi agenti giunti sul posto, riferisce l’esperto “è andata giù dal viadotto senza nessuna espressione, come un sasso. Era annichilita dal terrore. Era immobilizzata, ma non dai farmaci”.
Sul movente: “Se cerchiamo un movente razionale non capiamo la patologia psichiatrica grave. Il fuoco – dice Di Giannantonio – covava sotto la cenere”.
Dalle indagini, poi, è emerso che pochi mesi fa, Fausto Filippone aveva fatto richiesta di porto d’armi per il tiro a volo. Ma nell’incertezza dell’eventuale rilascio, e dei tempi necessari per ottenerlo, avrebbe deciso di cambiare il suo piano. Filippone “non aveva problemi psichici”, come sottolineato, il 21 maggio scorso in una conferenza stampa, dal questore di Chieti Raffaele Palumbo, che ha ascoltato le testimonianze di conoscenti e colleghi che lo hanno descritto come persona estremamente “riservata e silenziosa”.
Il dirigente della Brioni ha messo in atto il suo disegno criminale con estrema lucidità: domenica mattina avrebbe detto alla moglie, insegnante di lettere al liceo Leonardo da Vinci di Pescara, di voler andare a comprare una lavatrice per l’appartamento che i due avevano a Chieti Scalo. Lungo il tragitto si sono fermati davanti l’appartamento, poi la scaletta sul balcone da dove l’uomo avrebbe fatto cadere la moglie, come ha stabilito Cristian D’Ovidio, il medico legale che ha eseguito l’autopsia sul corpo della donna, interpretando la dinamica della caduta.
L’ultimo saluto a madre e figlia si terrà domani, anche se il fratello della donna non ha voluto rivelare il luogo delle esequie. Inoltre, i familiari della moglie di Filippone hanno scelto di svolgere “funerali separati”. Quelli di Fausto Filippone si sono svolti oggi a Pescara alla Chiesa dello Spirito Santo Gli unici fiori quelli degli “Amici di sempre”, fiori semplici e bianchi, non vistosi. “Dio – ha detto nell’omelia il parroco don Giorgio Campilii– ci raggiunge nella profondità del baratro della nostra esistenza per riprenderci e, certamente, potrà farlo anche con il nostro fratello Fausto”. Prima che il feretro uscisse, Antonio Filippone, sorretto dalla figlia Antonella, ha raggiunto la bara di Fausto: insieme l’hanno accarezzata; poi il papà l’ha baciata.
Cocaina e una siringa nell’auto del papà di Ludovica (il Centro – 28 maggio 2018)
Può essere la prova che la piccola sia stata sedata da Filippone prima della fine. La sostanza stupefacente (50 grammi) rilevata in un bicchiere di plastica
C’era una siringa usata, nella Bmw X1 che Fausto Filippone ha lasciato accostata sull’autostrada A14 prima di scendere con la figlia e raggiungere a piedi il viadotto di Francavilla da cui l’ha lanciata di sotto. E da dove, domenica 20 maggio, si è buttato anche lui dopo sette ore di trattative con le forze dell’ordine. L’hanno trovata gli investigatori che stanno ricostruendo questa terribile vicenda con particolari che, uno dopo l’altro, non fanno che avvalorare l’ipotesi di un piano di morte premeditato da Filippone e avviato nella tarda mattinata di quella maledetta domenica quando, dalla finestra del terzo piano del suo appartamento di Chieti Scalo ha buttato giù la moglie Marina Angrilli. E secondo l’Ansa, insieme alla siringa è stato trovato un bicchiere di plastica con cinquanta grammi di una polvere biancastra che, ad un prima analisi, è risultata contenere cocaina ma anche una sostanza diversa. Inoltre nella siringa usata erano presenti un paio di gocce di una sostanza da identificare.
A raccontare ulteriori dettagli del piano infernale messo a punto da Filippone saranno dunque le analisi eseguite su quella siringa, finalizzate a individuare eventualmente il tipo di sostanza utilizzata e, nel caso, a confermare ciò che si augurano, e che sostengono dall’inizio, gli zii materni e paterni di Ludovica. E cioè che, conoscendo l’acume e la vitalità della bambina, Ludovica mai e poi mai si sarebbe fatta trascinare dal padre in quella trappola mortale senza opporre la benchè minima resistenza o reazione, come di fatto è stato.
Ad avvalorare questa ipotesi che, se confermata dalle analisi sulla siringa, e soprattutto se ribadita dagli esami tossicologici avviati dal dottor Cristian D’Ovidio dopo i prelievi fatti in sede di autopsia, può almeno dare la consolazione che la bambina non si sia resa conto di nulla e che non abbia sofferto, c’è la testimonianza di un automobilista. Il conducente ha riferito ai poliziotti che domenica 20 maggio ha visto un uomo camminare lungo l’autostrada a passo svelto tenendo per mano una bambina che arrancava, e lo seguiva a stento. Una testimonianza che entra nell’inchiesta avviata dalla Procura di Chieti e che gira intorno a un unico interrogativo: Filippone poteva essere fermato? E soprattutto, la piccola Ludovica poteva essere salvata? E nel caso, chi e come poteva farlo?
Oltre al momento in cui la povera Marina Angrilli precipita, vengono chiamati i soccorsi e il marito si allontana senza che nessuno lo blocchi, lasciandolo libero di andare a recuperare la figlia rimasta con la zia a Pescara, nella casa di via Punta Penna, c’è un’altra fase da ricostruire e chiarire. E cioè il percorso di 700 metri che Filippone fa da quando lascia la macchina sull’autostrada a quando raggiunge il punto senza rete da dove butta già la povera Ludovica. La testimonianza dell’automobilista ne racconta un flash, e il successivo arrivo della polizia corrisponderebbe al momento in cui Filippone lancia la figlia di sotto. Ma nel frattempo, da quando lascia la macchina, fino a quel secondo omicidio, poteva essere individuato in tempo?
La risposta può arrivare dalle telecamere puntate su quel tratto autostradale, nel caso in cui le immagini dovessero restituire gli ultimi minuti della povera Ludovica che, quasi stordita, si lascia trascinare dal papà ormai fuori di sè fino a quel maledetto viadotto. Senza che nessuno lo fermi. Senza che nessuno la salvi.
LE ANALISI. La Procura della Repubblica di Chieti ha affidato una consulenza sui due reperti (bicchiere e siringa) trovati a bordo dell’auto di Filippone, una Bmw X1, perquisita subito dopo il suicidio dell’uomo. Una secondo consulenza è stata affidata ad un tecnico informatico, Davide Ortolano, per esaminare i telefoni cellulari di Filippone e quella della moglie, Mariana Angrilli. In particolare, il telefono della donna è stato trovato addosso a Filippone, danneggiato dopo il volo dal viadotto. (di Simona De Leonardis)
Tragedia del viadotto, la piccola Ludovica era stata sedata dal padre (la Repubblica – 29 maggio 2018)
Francavilla, la conferma dagli esami tossicologici: nel corpo della figlia di Fausto Filippone una grande quantità di benzodiazepine. Sull’uomo, invece, nessuna traccia di cocaina
Fu sedata dal padre la piccola Ludovica: una quantità notevole di benzodiazepine – classe di psicofarmaci con proprietà sedativo-ipnotiche – è stato trovato nel corpo della figlia di Fausto Filippone che, lo scorso 20 maggio, dopo aver spinto la moglie Marina Angrilli dal secondo piano di una casa di Chieti scalo (questa, almeno, resta l’ipotesi investigativa prevalente), ha lanciato dal cavalcavia della A14 tra Pescara Ovest e Francavilla la bambina di 10 anni. Dopo sette ore si è tolto la vita gettandosi nel vuoto, a fianco della figlia.
Sono stati diffusi anche i risultati tossicologici sui corpi di Filippone e della moglie: non è stata rinvenuta, in questo caso, traccia di alcuna sostanza. Sull’auto dell’uomo gli agenti intervenuti quella domenica avevano sequestrato un bicchiere con 50 grammi di cocaina. Sulla base dei risultati tossicologici appena conclusi, gli investigatori sono al lavoro per capire per quale motivo nell’auto di Fausto Filippone ci fossero una siringa e un bicchiere di plastica contenente – al primo riscontro – cocaina mista ad altra sostanza. Gli esami su questo ritrovamento sono ancora in corso.
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In memoria di
L’ultima battaglia di un uomo (Avvenire – 22 maggio 2018)
Di seguito uno dei due commenti sulla tragedia di Francavilla al Mare pubblicato quando ancora non si conosceva il responsabile dell’uccisione di Marina Angrilli, moglie di Filippone. Sotto il dialogo dell’autrice con una lettrice.
Per tutto il pomeriggio di domenica nelle immagini dei tg quell’uomo aggrappato alla rete di protezione del viadotto dell’A14, verso Francavilla al Mare, i piedi a stento poggiati sulla soletta di cemento: sotto, un abisso di trenta metri, in basso carabinieri e polizia e ambulanze, e curiosi con gli occhi all’insù. Fausto Filippone, 49 anni, dirigente d’azienda, sposato, padre, uomo definito da tutti tranquillo, a mezzogiorno di una domenica di maggio ha visto la sua vita travolta da una tragica, ancora oscura piena. La moglie, insegnante, precipita dal terzo piano di casa e muore poco dopo. Caduta? Spinta? O invece si è buttata? Non ci sono testimoni, nessuno sa. Ma pochi minuti dopo Filippone va a prendere la figlia Ludovica, dieci anni, dagli zii e si dirige verso l’A14. Verso un viadotto che corre sopra un precipizio. Ferma la macchina al km 389, come se già conoscesse quel punto. Come se altre volte, passando in auto, avesse annotato fra sé quando terribile era il vuoto, lì sotto. Prende per mano la figlia, la solleva oltre il guard-rail, la precipita nel nulla. Tocca il suolo con un tonfo leggero il suo piccolo corpo di bambina.
Poi, anche l’uomo scavalca. Ma non si butta. Per sette ore resta lì, in quel vertiginoso bilico, e così, ora dopo ora, lo vediamo in tv. Ora dopo ora, la nostra domenica tranquilla e quell’uomo sul viadotto, che guarda giù, stacca una mano dalla rete, sembra decidersi, poi torna a aggrapparsi saldamente. “Scusa! Scusa!”, grida nel vuoto, come rivolto alla bambina. Non vuole che nessuno le si avvicini. Ascolta a stento le parole degli agenti e degli infermieri, che lo esortano a desistere. Di nuovo si stacca dal sostegno. Di nuovo cambia idea. Per sette ore.
Un’infinita pena, in te che pure lo guardi da estranea. Un’infinita pena per quell’uomo che, spinto da non sai quale disperazione o follia, ha appena, comunque, ucciso la sua bambina, e dunque nel cuore è già come morto; e vuole, ha deciso di farla finita, giacché il pensiero di ciò che ha fatto è insopportabile; eppure qualcosa all’ultimo istante lo trattiene, e le mani sudate si riavvinghiano all’ultimo sostegno. Cosa lo ferma? Un istinto di vita terribilmente umano, terribilmente forte. La moglie è morta, la bambina è quella piccola chiazza chiara inerte, laggiù fra i cespugli. L’ha buttata forse per non lasciarla sola in un mondo che gli pare terribile, l’ha buttata con l’idea di seguirla immediatamente e morire insieme? Ma, adesso, non ce la fa. Il nulla, sotto, gli comunica un orrore insuperabile.
La vita di Fausto Filippone in un’ora, non sappiamo ancora come, è stata sconvolta da una frana di morte. Eppure questo pover’uomo ancora ha in sé una fiammella che gli sussurra: non farlo, vivi, c’è ancora una speranza. Quando alza gli occhi al cielo, è forse per una preghiera? Che immane lotta, al chilometro 389 dell’A14, mentre le auto dietro sono ferme in coda, e nessuno suona il clacson.
Di sotto, fra chi è accorso a vedere, ci si racconta di una famiglia normale, mai una lite. Un lutto, sì, la mamma di lui morta recentemente, dopo una lunga malattia, e il figlio fattosi più silenzioso. Ma in quante case muore un vecchio, e la vita, pure dolorosamente, continua? Appena l’altro giorno, dicono i conoscenti, Fausto e la moglie avevano portato la bambina a una manifestazione canora. Ludovica aveva cantato “Controvento” di Arisa. Tutto così semplice, così familiare. Nessuno che si fosse accorto di niente. Poi, repentina, l’onda di morte. Quell’uomo tranquillo trascinato via, spinto all’inaudito: uccidere la figlia. Certo pensando: e subito mi getto anch’io. Invece, sette infinite ore. Lottando, diviso fra forze immani. La morte, e, nonostante tutto, ostinata, la vita, che gli attanaglia alla rete di metallo le mani. Infine, è quasi sera, uno schianto. L’epilogo della tremenda battaglia di un pover’uomo. Il cielo sopra, immenso e muto. Eppure, ne sei certa, una misericordia immensa ora abbraccia quel soldato travolto e caduto.
Botta e risposta. Misericordia anche per l’assassino per capire l’origine di tanto male
La lettrice non condivide la riflessione di Marina Corradi sulla tragedia che ha visto un uomo togliersi la vita dopo aver ucciso la figlia e come si è poi capito la moglie
Gentile direttore, vorrei spiegarle perché dissento da quanto scritto in un editoriale da Marina Corradi su ‘Avvenire’ del 22 maggio. Inorridita, ho letto tutto d’un fiato l’intero articolo, quasi a sperare che a un certo punto cambiasse, ma no, non è andata così. Mi aveva inquietato già il titolo: «L’ultima battaglia di un uomo».
Di quale battaglia si voleva parlare? Non riuscivo a capirlo e continuavo a sentirmi turbata nel leggere, perché non era così che doveva essere vista una tale tragedia. Non era così che doveva essere raccontata. Il messaggio che una penna giornalistica ha il compito sociale di far passare, deve essere quello giusto, per dovere di verità e di misericordia verso le sole vittime di questo omicidio, che sono indiscutibilmente una mamma e sua figlia. Non certo lui, marito e padre: un assassino. Non provo alcuna pietà. Lui ha ucciso. Non lo compiango. Non lo compatisco. Non ho «pena» alcuna – al contrario della sua collega – nel vederlo per ore appeso alla rete autostradale. Ho provato invece tanta pena, una pena infinita che mi ha straziato il cuore, per quella povera bambina di soli 10 anni, Ludovica, gettata nel vuoto dal papà. Da colui che avrebbe dovuto difenderla e proteggerla. Ho avvertito per questa piccola anima una pena sorda, agghiacciante, dolorosa fino alle lacrime. Ho immaginato cosa avesse potuto pensare, in quel momento in cui lui la stava scaraventando dal viadotto. Ho pensato a quanta disperazione avrà provato sola e senza difesa, guardando in faccia la mostruosità che suo padre le stava facendo vivere, per farla morire in quel modo orribile.
Chissà quali saranno stati i suoi ultimi pensieri in quel tempo necessario per arrivare a terra. Chissà… e la mia pena aumenta senza contenimento nella mia mente, verso di lei, angelo innocente. Magari avrà pensato o chiamato la sua mamma. Anche lei già morta. Scaraventata dalla terrazza di casa. Altro probabile femminicidio ingiustificabile da alcuna «disperazione di un povero uomo». Il femminicidio è quanto di più aberrante ci siamo portati dietro nella nostra società moderna: uomini che credono e pensano di poter arbitrariamente uccidere una donna, perché non è come l’avrebbero voluta o solo perché non è andata come volevano. Tutte donne bellissime che giornalmente avevano conquistato il loro mondo passo dopo passo, con la fatica nel dimostrare che erano all’altezza di poter scegliere la loro vita. Donne evolute a fianco di uomini non evoluti e violenti.
Mentre leggevo mi domandavo tante cose e soprattutto mi chiedevo perché una donna, una giornalista, non stava evidenziando la sola evidenza possibile. Non mi rendevo conto perché una donna non fosse dalla parte dell’altra donna morta e della sua bambina.
Simone de Beauvoir (1908 – 1986) scrive: «Le donne non hanno un passato, una storia, una religione, non hanno una solidarietà di lavoro o di interessi… le donne vivono disperse in mezzo agli uomini, più strettamente che alle altre donne…». Non avrei mai voluto pensare che ancora oggi, quanto affermato da questa scrittrice, indimenticabile avanguardista, fosse ancora verità.
Mi ha sconvolto, infine, la chiusura dell’articolo, dove l’assassino viene paragonato impropriamente a «un soldato travolto e caduto». Di quale sodato si sta parlando? Ancora non capisco… i soldati sono coloro che muoiono per difendere una bandiera o un ideale, non uccidono una donna e una bambina. No i soldati non sono assassini. I soldati combattono semmai una guerra dove sono costretti ad uccidere per assurdi motivi, ma non perché si arrogano il diritto di vita e di morte, come in questo caso di una mamma e della sua creatura.
Provo molta pena per tutti i familiari che restano di entrambe le famiglie, costretti a convivere con un dolore grande e così tanto insopportabile, per sempre. Spero, direttore, che mi avrà compreso. Ho solo volontà di supporto morale verso Ludovica e la sua mamma Marina, affinché non passino messaggi distorti dove la disperazione per torti subiti o vite dolorose possa giustificare atti orrendi come quelli accaduti, non difendendo la Vita.
Cari saluti, Simona Valigi
Gentile signora, comincio dalla fine: quel «soldato caduto» si riferiva evidentemente, come era esplicitato nel pezzo, alla lotta perenne fra il bene e il male, fra la vita e la morte. Queste sono, avevo scritto, le «forze immani» che laceravano quell’uomo in bilico sul vuoto. Perché la vita è una grande battaglia fra queste due forze e noi, uomini e donne, dobbiamo scegliere. Si può scegliere il male, o anche, talvolta, lasciarlo agire in noi, lasciarcene silenziosamente conquistare fino a esserne travolti. Un lettore di ‘Avvenire’ ci ha scritto che conosceva Filippone e che gli era sempre apparso un uomo «mite e attento agli altri».
Che cosa è successo a quest’uomo «mite»? È impazzito? I medici, che lo avevano recentemente visitato, dicono di no. Forse, quella malattia è sfuggita ai loro occhi. Oppure, non di follia, ma di male si è trattato. Per me, così come insegna la Chiesa, il male esiste. Noi cristiani preghiamo ogni sera «liberaci dal male». «Soldato caduto» solo e soltanto in questo senso: uno che ha lavorato, ha cercato per molti anni di essere un marito e padre, e poi, non sappiamo come, non sappiamo attraverso quali drammatici errori, è stato accecato dalla più feroce violenza. Femminicidio, lei dice, ciò che è accaduto a Francavilla. Mi permetta di far notare che non è stato solo un terribile femminicidio: l’uomo ha ucciso la moglie (ma nel giorno in cui io scrivevo questo non era stato ancora accertato dagli inquirenti) e poi anche la sua bambina, in ciò che gli psichiatri chiamano «suicidio allargato». Quando cioè un padre, o spesso una madre, giudicano la loro vita ormai tanto disperata da scegliere di morire portandosi via con sé ciò che hanno di più caro: il figlio, o la figlia, bambini. La cronaca purtroppo è piena di tali «suicidi allargati». Ora, io mi sono immaginata quest’uomo: non si era ancora certi che avesse ucciso la moglie, ma aveva gettato nel vuoto la sua bimba, la figlia cui insegnava a sciare, che portava ai concorsi di canto. Quanto orrore e disperazione e annichilimento lo spingevano ormai con risolutezza verso la morte. Eppure, sette lunghe ore a esitare su quell’abisso, come se nonostante tutto la vita e l’ombra di una radicale, ostinata speranza lo trattenessero ancora. Forze immani sopra a un «pover’uomo». Pietà per la moglie, pietà infinita per la bambina, è naturale, è imprescindibilmente umano.
Lei dice però: non provo alcuna pietà per chi uccide. Io invece sì. Perché anche la sorte dell’assassino è orribile. Perché, inoltre, non posso escludere in assoluto di essere perfino io capace di tanto male. Perché ho imparato per osmosi dal cristianesimo a avere pietà anche dell’assassino. Da quelle pagine dei ‘Promessi Sposi’ dove il cardinale Borromeo accoglie con misericordia l’Innominato, un uomo che aveva passato la vita a uccidere e fare uccidere. (Mi colpisce che, e a volte anche fra cristiani, la pietà per l’assassino scandalizzi. Temo sia un segno di questi tempi smemorati e giustizialisti). Infine, se quell’uomo appeso per sette ore a una rete, soggiogato dalla morte ma istintivamente incapace, per ore, di buttarsi, mi ha fatto pena, nonostante il sangue appena versato, è, credo, perché sono madre, e da quando ho avuto dei figli ogni volta che vedo un reietto, uno per cui si invoca magari la pena di morte, mi viene da pensare: mio Dio, se fosse mio figlio. Che è, in fondo, il seme della misericordia. Misericordia significa «con viscere materne». Misericordia che io vorrei essere capace di esercitare verso gli esseri umani, prima che per maschi e femmine. Per me, prima che maschi e femmine, siamo prima di tutto esseri umani.
Ho, signora, le garantisco, da donna e da madre di una figlia, la sua stessa grande pietà per queste donne, per queste ragazze mietute dalla mano di uomini che hanno amato, di cui evidentemente si fidavano. Ma in quell’articolo mi sono fatta carico di un altro pezzo di questa storia atroce, la parte di un «uomo mite» che improvvisamente ha ucciso la figlia e, come poi abbiamo appreso, la moglie che aveva amato senza aver mai fatto loro del male prima. Personalmente sono giunta alla conclusione che non basta gridare al femminicidio, e strutturare magari la rabbia per la sopraffazione in una ideologia, per fermare questa strage. Occorrerebbe cercare di capire che cosa va succedendo tra noi, nelle nostre case. E per capire bisogna sempre chinarsi anche sull’altro. Senza farsi accecare, nonostante tutto, dal dolore, dall’indignazione e persino dall’odio.
Cordialmente, Marina Corradi