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Andrea Donaglio, 47 anni, professore di chimica. Uccide con 63 coltellate l’ex fidanzata. Condannato a 16 anni

Spinea (Venezia), 6 Luglio 2010


Titoli & Articoli

L’ultima telefonata di Roberta «Venite, Andrea non è in sé» (Corriere del Veneto – 8 luglio 2010)
Ricostruita la dinamica. L’omicida sedato e interrogato in ospedale. Le famiglie si parlano: «Perdonateci». «Non è colpa vostra»
Il telefono in casa Donaglio è squillato intorno all’una e mezza di martedì pomeriggio. «Pronto?», ha risposto Roberto, il capo famiglia. Dall’altro capo del filo la voce agitatissima di Roberta Vanin: «Venite qui, correte, Andrea non è in sè. Sta esagerando, questa volta sta andando oltre. Questo non è uno dei suoi soliti sfoghi lavorativi».
Al fianco della 43enne titolare del negozio «Bio Vita» di Spinea c’era Andrea Donaglio, il suo ex fidanzato di 47 anni, e forse è stata proprio l’umiliazione di quella telefonata ai suoi genitori, la causa scatenante del raptus omicida.
La ricostruzione, il giorno dopo il delitto, è chiarita in ogni dettaglio. Lui si avvicina davanti al bancone al centro del negozio. Si gira, prende il coltello che veniva usato per tagliare il pane e la colpisce. Cinquanta coltellate, al collo, all’addome, alla schiena. Lei cerca di difendersi, gli agenti troveranno numerosi tagli e ferite sulle sue braccia. Ma la foga è tale che la lama del primo coltello si spezza. Donaglio allora ne prende un secondo, con cui colpisce ancora. Solo quando la vede a terra, ormai senza vita, prende coscienza di quello che ha fatto. Si ritira nello sgabuzzino del negozio e lì rivolge la lama verso se stesso, lasciando macchie di sangue dappertutto. Poi esce e si sdraia accanto a lei per infliggersi l’ultimo colpo e morirle vicino. Si lesiona il fegato, ma il cuore continua a battere e rimane lì, steso accanto a Roberta.
E così diventa troppo tardi. Troppo tardi per la telefonata di Roberta, in cui c’era tutta l’angoscia per una situazione che non riusciva più a gestire. «Mamma ho tanta paura», diceva da due settimane,ma non riusciva ad ascoltare le amiche che le consigliavano di denunciarlo. «Gli voglio ancora bene», diceva. Troppo tardi anche per la corsa in bicicletta del padre di Andrea. Quando arriva in negozio trova i corpi distesi a terra. Roberta è con gli occhi sbarrati in un lago di sangue; il figlio è vivo, con ancora il coltello in mano. Lo scuote, poi prova con Roberta, quindi esce dal negozio un attimo, mentre parla con i carabinieri. Andrea si colpisce ancora, ma nemmeno quel fendente è mortale.
L’ha uccisa perchè non sopportava di perderla. Non accettava che si fosse rifatta una vita. Che avesse un nuovo amore, Federico. L’ha detto martedì sera Andrea stesso, nell’interrogatorio di circa mezz’ora reso al pmMassimo Michelozzi e ai carabinieri del capitano Salvino Macli, dal letto dell’ospedale di Mirano in cui è ricoverato in prognosi riservata. Una confessione piena, in cui ha chiarito i motivi del suo gesto tremendo. E’ accusato di omicidio volontario. Sulla premeditazione dovrà decidere il pm, ma la dinamica sembrerebbe confermare il reato d’impeto: basti pensare al fatto che ha usato dei coltelli presi in negozio. Oggi pomeriggio si terrà l’autopsia sul cadavere di Roberta.
Ora Andrea si trova in stato di fermo e la sua camera è piantonata dai carabinieri. E’ sotto sedativi, i medici scioglieranno la prognosi solo domani, ma è fuori pericolo. «L’abbiamo visto solo oggi (ieri, ndr) pomeriggio – spiega Christian Donaglio, 41 anni, fratello minore di Andrea – non ho messo il dito nella piaga. Lui parla poco dell’accaduto, dice che non si ricorda bene. Negli ultimi tempi stava molto male, ma non avrei mai pensato ad una cosa del genere. Sapevo che era depresso ma parlava di Roberta mettendola su un piedistallo. Non avrei mai potuto prevederlo ». «E’ provato, un uomo distrutto », dice il suo avvocato Isabella Fiorio. Anna Favero, la madre di Andrea, ha chiamato due volte Gina Casarin. Non riesce a trovare pace. Cerca disperatamente di chiedere perdono per il figlio. Per le due famiglie rovinate. Per il futuro che non c’è più. «Che colpa ne ha lei? – dice la mamma di Roberta, tra le lacrime – e anche lui, l’ho già perdonato. La sua vita sarà distrutta comunque. Non quanto la mia, però. Me l’ha portata via. Lei non c’è più». (di Alice D’Este)

 

Omicidio di Spinea, l’assassino coach di basket a Padova (il Mattino di Padova – 8 luglio 2010)
Conosciuto in città Andrea Donaglio, l’insegnante che ha ucciso a coltellate l’ex compagna. Per anni è stato il tecnico di team di basket femminile. Aveva guidato il Padova 81 e Thermal Abano
Per anni ha girato le palestre del Triveneto, accompagnando le sue ragazze ovunque e incoraggiandole a bordo campo. Quello di Andrea Donaglio, 47 anni, l’assassino di Roberta Vanin, è un nome noto nello sport padovano. Tra il 1996 e il 2002 infatti l’uomo del dramma di Spinea ha allenato varie società sportive di basket, tra cui «Padova 81» e «Thermal Abano». Ironia della sorte, nella maggior parte dei casi si trattava di squadre femminili. Le sue ex atlete ora hanno tra i 30 e i 40 anni e non riescono a credere come quella persona così schiva e professionale possa essere esplosa in un simile gesto. Lo ricorda anche chi all’epoca l’ha scelto per guidare la squadra di giovani cestiste.
IL RICORDO. «L’ho conosciuto ai tempi di “Padova 81” – ricorda il dirigente Enzo Paccagnella – Era il 1994, lui allenava le giovanili e faceva l’assistente per la prima squadra. Poi la società è scomparsa ed è nato il Thermal Abano. Nel 2001 io ho voluto Andrea Donaglio. Ricordo come se fosse ieri. Sono andato ad aspettarlo fuori da scuola, attendendo che finisse di fare lezione. Gli ho proposto la guida della squadra femminile in B1 e lui ha accettato. Com’era Andrea? Era una persona particolare. Innanzitutto era vegetariano, anzi vegano. Inoltre era appassionato di medicina alternativa e praticava la riflessologia plantare. Odiava tutti i farmaci convenzionali e cercava di insegnare anche alle ragazze di curarsi con metodi naturali. Ricordo che una volta abbiamo organizzato un pranzo di Natale con la squadra e ha voluto portarci in un locale di sua conoscenza. Ovviamente il menù era “vegano”. Niente carne, niente pesce, né latte, latticini e uova. Ricordo che le ragazze sono tornate a casa affamate. Ci siamo lasciati andare con un amichevole: “Te si matto”. Con il Thermal ha vinto una coppa Veneto. Poi ha dovuto lasciare. Un giorno mi disse che non riusciva più a venire a Padova quattro volte a settimana per seguire gli allenamenti, perché aveva aperto un’erboristeria in provincia di Venezia».
SOTTO CHOC. Martedì pomeriggio la tragedia di Spinea. Andrea Massacra a coltellate l’ex fidanzata dentro l’erboristeria Bio Vita, poi tenta di farla finita conficcandosi la lama varie volte nell’addome. La notizia fa il giro dell’Italia, perché si tratta del quinto delitto passionale in meno di una settimana. «L’ho saputo guardando il telegiornale, dopo cena – confessa Paccagnella – sono rimasto sconvolto. Quando ho sentito il suo nome ho sperato con tutto me stesso che si trattasse di un caso di omonimia. Poi però sono emersi tutti quei particolari: il lavoro a scuola, l’età, l’erboristeria. Improvvisamente mi sono ricordato di quando mi disse che non poteva più venire proprio per quell’erboristeria…».
IL CARATTERE. «Diciamo che tra i 20 o 30 allenatori che abbiamo avuto in tutti questi anni, Andrea Donaglio era il più freddino – dice ancora il dirigente – nel senso che lasciava sempre un po’ di distanza tra sé e le persone. Ma dal punto di vista tecnico non si discute: aveva il patentino di allenatore nazionale. E non ci sono dubbi nemmeno sul background culturale. Conoscere e praticare la medicina alternativa non è una cosa da tutti. Ciò di cui stiamo parlando mi sembra ancora impossibile».

Spinea, delitto Vanin. La madre: «Disgustata dalla giustizia» (La Nuova Venezia – 20 gennaio 2012)
«Come mi sento? Disgustata, non ho più fiducia nei tribunali». Gina Casarin, la mamma di Roberta Vanin uccisa a coltellate il 6 luglio 2010 nel suo negozio di prodotti biologici a Spinea, parla dopo la condanna di Andrea Donaglio a 16 anni di carcere.
Il dolore, l’amarezza, quel senso di giustizia negata hanno il volto di Gina Casarin, la mamma di Roberta Vanin, uccisa a coltellate il 6 luglio 2010 nel suo negozio di prodotti biologici in via Roma. Il giorno dopo la sentenza che ha condannato l’assassino, Andrea Donaglio, a 16 anni di carcere, Gina trova la forza non solo per parlare, ma anche per mettere da parte ogni sentimento di rancore. Come un anno e mezzo fa. Mercoledì, in tribunale, alla lettura della sentenza, è rimasta in silenzio, mentre il cuore traboccava di delusione mista a dolore. La notte scorsa confessa di non aver chiuso occhio.
«In quell’aula non sapevo cosa dire – ammette – non mi sento più di dire nulla, ho perso fiducia in questa giustizia. Avesse fatto qualcosa, Roberta, allora capirei. Ma lei era troppo buona, non avrebbe mai fatto male a nessuno. Invece si è presa 63 coltellate e chi l’ha scannata sarà fuori tra pochi anni».
Gina non sa cosa succederà adesso: «Abbiamo degli avvocati, faranno il loro lavoro. Io so solo che più passa il tempo più le cose peggiorano ed è una tortura continua». Gina si riferisce soprattutto al processo che l’ha messa più volte di fronte al dolore, senza mai avere una risposta a quanto accaduto un anno e mezzo fa. La più dura è stata pochi giorni fa, quando Gina confessa di aver visto per la prima volta le foto della scena del delitto, il corpo di Roberta martoriato, steso a terra in quel negozio. «Non volevo guardarle, non ho voluto alzare gli occhi – piange – poi ho ceduto. Se volevo vederle avrei potuto farlo molto prima, le ho anche a casa quelle foto, ma restano chiuse in una cartella».
Con la sentenza alle porte invece Gina ha trovato il coraggio di aprire occhi e cartella, svelando quegli scatti. L’ha fatto, forse, aspettandosi una pena lieve, quasi a voler giustificare la rabbia che un simile verdetto avrebbe potuto provocarle. «La mano perforata dalla lama, il suo corpo scannato, i fendenti sul fegato e i polmoni – descrive – 63 colpi e solo 16 anni».
Eppure in questo vortice di frustrazione e sofferenza trova ancora spazio un sentimento di pietà per Donaglio e la sua famiglia. «Ho parlato e parlo tutt’ora con sua madre – confida Gina – ma c’è stato un momento in cui mi sono molto arrabbiata. Ci siamo incrociate nel corridoio del tribunale e lei mi ha detto: speriamo che vada bene per noi e per voi. Le ho risposto: sì, però io Roberta non ce l’ho più, voi con Andrea potete ancora parlare».
E’ questo il volto del dolore di mamma Gina: la mancanza di Roberta, strappata dal mondo nel momento in cui era arrivata a chiedere aiuto proprio ai genitori, per difendersi da quell’uomo diventato sempre più pressante. «Più passa il tempo, più è difficile accettare tutto questo, la tragedia e la sentenza – afferma poi Gina abbassando lo sguardo – passo le notti in bianco e piango perché so che nessuno mi restituirà più mia figlia». (di Filippo De Gaspari)

Il grido della madre «Non credo più a questa giustizia» (la Nuova Venezia – 24 febbraio 2013)
Parla la mamma di Roberta Vanin, uccisa con 63 coltellate In Appello confermati 16 anni all’assassino Andrea Donaglio
Come era prevedibile, la Corte d’appello di Venezia presieduta dal giudice Angelo Risi ha respinto gli appelli della Procura della Repubblica, che aveva chiesto una pena più pesante, e quello della difesa, che puntava a diminuire ulteriormente la condanna, e ha confermato la sentenza che il giudice dell’udienza preliminare del Tribunale lagunare Roberta Marchiori aveva letto il 19 gennaio dello scorso anno, condannando il 49enne professore di chimica Andrea Donaglio a 16 anni di reclusione per l’omicidio dell’ex fidanzata Roberta Vanin, colpita da 63 coltellate e morta a 44 anni nel suo negozio di Spinea. Anche i giudici della Corte hanno ritenuto congrua e soprattutto rispondente alle norme del codice quella condanna. Del resto il magistrato di primo grado era partita dal massimo previsto per l’omicidio volontario aggravato dai futili motivo (in questo caso la gelosia), ma l’aggravante è stata praticamente annullata dalle attenuanti generiche, che gli esperti sostengono non si negano a nessuno e in particolare a chi è incensurato come lo era Donaglio.
Quindi, dai 30 anni si salta ai 24 anni, pena massima per un omicidio contestato senza alcuna aggravante: nel caso di Donaglio era d’obbligo lo sconto di un terzo perché ha scelto il rito abbreviato, che fa risparmiare tempo ed energie allo Stato, e così si arriva dritto dritto ai 16 anni.
«Non credo più a questa giustizia. Mi chiedono se 16 anni sono pochi. Io credo che diminuiranno ancora e che fra 10 lui sarà fuori e allora spero di non esserci più io». A parlare dopo la sentenza di secondo grado è Gina Casarin, la mamma di Roberta, che già dopo la prima condanna aveva detto di aver perso ogni fiducia nella giustizia. Alla lettura della sentenza d’appello Gina non è riuscita a controllare il suo dolore di madre ferita due volte e ha urlato “Assassino” contro Andrea Donaglio, beccandosi pure il richiamo del giudice. Oggi trova la forza di chiedere perfino scusa per quella reazione così naturale: «Non volevo, hanno fatto tutti il loro lavoro e sono state persone meravigliose. È che questa non è giustizia. Io vedo Roberta di fronte a me ogni giorno e mi manca. Lui invece tra pochi anni sarà fuori e io non voglio incrociare la sua strada. Sono anziana, forse non ci sarò più io e a questo punto mi auguro che sia così».
Parla con la stessa voce affranta di tre anni fa Gina, come se non avesse mai smesso di piangere da quel 6 luglio 2010. «16 anni cosa sono?», afferma, «prenderà la condizionale, poi gli riconosceranno la buona condotta. Tra 10 anni sarà libero, mentre Roberta non tornerà più. La verità è che non credo più nella giustizia da tempo: non mi aspettavo una sentenza diversa da questa, temevo anzi che potessero togliergli ancora una parte della pena. Non si può più far niente ormai, va così».
A scatenare la furia omicida di Donaglio, il 6 luglio 2010, era stata una telefonata di Roberta alla madre di lui in cui diceva di non volerlo vedere mai più né nel negozio né fuori. Lo psichiatra Andrea Schenardi, che lo aveva esaminato, aveva stabilito che l’imputato vedeva Roberta come un suo oggetto personale e non sopportava che iniziasse una nuova relazione.

Delitto Vanin, condanna a 16 anni congrua (la Nuova Venezia – 24 aprile 2013)
Depositate le motivazioni della sentenza per Andrea Donaglio, ex fidanzato della donna
Ancora un’altra donna magistrato, Luisa Napolitano, ha scritto le motivazioni per spiegare perché la pena alla quale è stato condannato l’assassino di Roberta Vanin, l’ex fidanzato Andrea Donaglio, è congrua. Così come un’altra donna magistrato, Roberta Marchiori, aveva condannato in primo grado l’imputato a 16 anni di carcere. Ora, con le motivazioni depositate in cancelleria nei giorni scorsi, la giudice relatrice afferma che «l’impugnata sentenza di primo grado meriti di essere integralmente confermata». A suscitare discussione e anche qualche protesta era stata la pena di 16 anni, troppo mite secondo alcuni. I conti sono presto fatti: il giudice Marchiori era partita dal massimo previsto per l’omicidio volontario aggravato dai futili motivi, ma l’aggravante è stata praticamente annullata dalle attenuanti generiche, che gli esperti sostengono non si neghino a nessuno, in particolare a chi è incensurato. Quindi, dai 30 anni si salta ai 24 anni, pena massima per un omicidio contestato senza alcuna aggravante: nel caso di Donaglio era d’obbligo lo sconto di un terzo perché ha scelto il rito abbreviato, che fa risparmiare tempo ed energie allo Stato e così si arriva dritto dritto ai sedici anni.
«La determinazione del giudice di primo grado», scrive Luisa Napolitano, «di individuare nel massimo edittale la pena base deve ritenersi congrua e correttamente motivata in considerazione della gravità del fatto, delle efferate modalità esecutive», Roberta venne colpita da 60 coltellate. «Il giudice ha ritenuto», prosegue la Corte d’appello, «di poter concedere le circostanze attenuanti generiche equivalenti all’aggravante considerando che Donaglio è persona incensurata, ha tenuto un positivo comportamento processuale rendendo ampia confessione, ha corrisposto alle parti civili a titolo risarcitorio una somma significativa ricavata dalla vendita di immobili, ha dimostrato di aver maturato una forma di resipiscenza rispetto al grave omicidio commesso».
Il magistrato, per spiegare il gesto dell’imputato, cita un passo della perizia firmata dal medico e psichiatra Carlo Schenardi, il quale ha scritto «Donaglio, non potendo accettare l’idea di venire lasciato da Roberta, in quanto Roberta era di fatto un suo oggetto personale, metteva in atto ogni possibile manovra per riportarla a sè indipendentemente dalla richiesta di autonomia da parte di quest’ultima». Tutto questo, nonostante Donaglio avesse più volte tradito Roberta e continuasse ad avere rapporti con altre donne, addirittura – stando alle testimonianze raccolte da amici e parenti – con quattro donne contemporaneamente. La stessa Procura generale, comunque, aveva chiesto la conferma della condanna a 16 anni.

Massacrò la ex con 63 coltellate: fuori tra un anno per buona condotta (il Gazzettino – 18 settembre 2017)
Lei era titolare di un’erboristeria in pieno centro, lui professore di chimica in una scuola di Mirano. A Spinea nessuno ha dimenticato la tragedia del 6 luglio 2010, quando Andrea Donaglio accoltellò brutalmente la sua ex fidanzata Roberta Vanin nel suo negozio di via Roma. La uccise in cinque minuti, all’ora di pranzo, travolto dalla gelosia. Non accettava l’idea che Roberta lo avesse lasciato e che stesse con un altro uomo.
In questa estate veneziana segnata da una sanguinosa scia di femminicidi l’ultimo quello di Dogaletto di Mira, dove il poliziotto Luigi Nocco ha freddato con un colpo di pistola la moglie Sabrina Panzonato e poi si è tolto la vita con la stessa arma a molti è tornato in mente il delitto più efferato degli ultimi anni. Quel giorno di sette anni fa Andrea Donaglio impugnò il coltello e sferrò alla donna ben 63 coltellate abbandonandola in un lago di sangue, prima di infliggere la lama verso se stesso senza però riuscire a farla finita. Lei all’epoca aveva 43 anni, lui 47. Per Donaglio la Procura di Venezia chiese 30 anni di reclusione, ma alla fine l’omicida se la caverà con molto meno. Condannato in primo grado e poi in appello sempre a 16 anni di reclusione, attualmente l’uomo si trova dietro le sbarre al Due Palazzi di Padova ma tra poco più di un anno potrebbe già uscire parzialmente dal carcere. Se godrà di tutti i benefici per buona condotta previsti dalla legge, infatti, Donaglio potrebbe presto ottenere una forma di semi-libertà…


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In memoria di

La rabbia e la pazienza (video Radio Radicale – 22 maggio 2015)

A Padova e Belluno terapia in carcere per gli autori di femminicidio (Corriere del Veneto – 12 giugno 2021)
Ai detenuti condannati per i reati di violenza contro le donne viene offerto di partecipare a sedute di «trattamento psicoeducativo». «Fanno autocritica»
Andrea Donaglio, ancora non se lo spiega: «Possibile che non capissi ciò che comunque era chiaro senza tante spiegazioni?»
. Gli sembra davvero difficile da credere. Ma almeno finalmente adesso lo sa, che dentro di sé tutto partiva «da un atteggiamento di superbia che in realtà mascherava insicurezza e carenza di autostima». Ecco, le ragioni della violenza sulle donne spiegate da chi l’ha commessa. E che spesso l’ha fatto nel modo più feroce e irreparabile.

Andrea Donaglio
Ciascuno confida le proprie ragioni a tutti gli altri, in una sorta di terapia di gruppo che da qualche tempo viene portata avanti all’interno di alcune carceri del Veneto. Guidati da psicologi e operatori, i detenuti ascoltano altri detenuti, affrontando le confessioni più intime. «Ritrovandomi in alcuni aspetti definiti scorretti, prevaricanti, violenti – arriva ad ammettere Donaglio – ho provato un senso di vergogna». A Spinea nessuno ha scordato il suo nome: Andrea Donaglio è il professore di chimica che il 6 luglio 2010 massacrò con oltre sessanta coltellate la sua ex fidanzata Roberta Vanin. Un femminicidio per il quale sta scontando una condanna a sedici anni di reclusione al Due Palazzi di Padova. Ed è chiuso lì dentro, che s’è ritrovato a essere uno dei partecipanti a quello che lo psicoterapeuta Antonio Di Donfrancesco definisce «un ciclo di incontri di tipo psicoeducativo durante il quale si parla degli effetti che la violenza ha sulle vittime e di come nasce l’aggressività. L’obiettivo è di arrivare al punto che l’autore degli abusi ne comprenda le dinamiche, scoprendo così che è possibile interpretare un modello diverso di maschilità».

Gli incontri
In un lungo articolo su Ristretti Orizzonti, la rivista carceraria, Donaglio ha spiegato come, attraverso quegli incontri, trova «la conferma dell’importanza basilare di saper gestire le proprie emozioni. Senza sviluppare questa capacità prima o poi ci si schianta, col rischio di coinvolgere altri in questa forma di autolesionismo». Al Due Palazzi sono già tre anni che ai detenuti – specie quelli che scontano condanne per femminicidi e reati di maltrattamenti in famiglia – viene offerta l’occasione di partecipare a sedute di «trattamento psicoeducativo»; da quest’anno il servizio si è allargato al «Baldenich» di Belluno. Oltre a Di Donfrancesco, gli incontri vengono condotti dalla psicologa Nicoletta Regonati e dal counselor Fabio Ballan, operatore del servizio «Cambiamento maschile» di Montebelluna.

Un «fenomeno trasversale»
«Quello della violenza sulle donne – spiega Regonati – è un fenomeno trasversale. In carcere ci finiscono ragazzi poco più che maggiorenni e pensionati, laureati e semianalfabeti. E questo perché gli abusi hanno radici che affondano in fattori diversi. C’è chi ha avuto genitori aggressivi e chi sente di non avere scelta e vuole il controllo dell’altro, magari per un senso di superiorità del maschio sulla femmina». Attraverso ventiquattro incontri in carcere – due ore la settimana, che possono proseguire anche all’esterno, quando il detenuto ha finito di scontare la pena – gli psicologi puntano a far sviluppare all’autore dei maltrattamenti un senso di autocritica. «Il 90 per cento di chi accetta di partecipare – assicura Ballan – continua a mantenere un comportamento non violento anche dopo la scarcerazione».

L’impiegato trevigiano
È stato così anche per un impiegato trevigiano che nel 2013 tentò di uccidere la moglie, per fortuna senza riuscirci. «Tenevo tutto dentro – ci racconta – nella convinzione che parlarle dei miei problemi fosse un segno di debolezza. E alla fine, come una pentola a pressione, sono scoppiato arrivando al punto di scaricarle addosso la colpa di tutto…». Chiede di restare anonimo perché, assicura, «in tanti ricordano ciò che ho fatto e ogni volta che il mio nome esce sui giornali, scoppia un putiferio». Sia chiaro: gli incontri con gli psicologi gli sono serviti a capire che «la responsabilità era solo mia e, anche se non posso tornare indietro e correggere i miei errori, almeno adesso so che non sbaglierò più». Scontata buona parte della pena, e complice la buona condotta, ora è libero. «Ho chiesto scusa in lacrime alla mia ex e credo abbia capito che il mio pentimento è sincero. Oggi ho una nuova compagna alla quale parlo di tutto: assieme sapremo affrontare ogni difficoltà».