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Maria Virginia Fereoli, 17 anni, studentessa. Strangolata e poi uccisa con 470 coltellate da un ragazzo che aveva respinto

Felino (Parma), 28 Marzo 2006


Titoli & Articoli

Virgy e Andrea, una strage senza un perchè (Gazzetta di Parma – 28 novembre 2016)
Sono passati dieci anni dal duplice omicidio di Maria Virginia Fereoli e Andrea Salvarani, uccisi il 28 marzo 2006 da Stefano Rossi. Le testimonianze dei genitori della studentessa di Felino e del fratello del tassista parmigiano.
Fu la morte contro la vita. Nessun perché: non quello della follia e forse nemmeno quello della rabbia del respinto. Un mattino, un ventiduenne uscì di casa a Barbiano di Felino armato come se dovesse andare in guerra contro il mondo. Con sé aveva una 357 Magnum con il tamburo pieno e altri 40 proiettili di scorta, un nunchaku (la coppia di bastoni tenuta insieme da una catena usata nelle arti marziali) e un coltellaccio da cucina. Fu questa l’arma che usò in serata, per massacrare una diciassettenne troppo coraggiosa per rifiutare il suo invito a fare due chiacchiere. Lei aveva l’unica colpa di essere bella, intelligente e piena di amici. Un inno alla vita, appunto. Troppa luce per un giovane dall’infanzia difficile, che da sempre parlava di suicidio, di fucilate nel mucchio e stragi a caso… E il caso portò l’omicida a salire sul taxi di un cinquantenne mite, «colpevole» forse di essere solo un ostacolo sulla sua via di fuga. Con lui, il giovane estrasse il revolver e fece fuoco a bruciapelo. Era la sera del 28 marzo del 2006. Sono trascorsi dieci anni da allora, ma il buio di quella notte stenta a passare. Così come si fatica a scrivere vicini i nomi di Stefano Rossi e delle sue vittime: Maria Virginia Fereoli e Andrea Salvarani. Continua a essere la morte contro la vita.

 

Achille Fereoli: “Il nostro Natale senza Virgy”
Sono il papà di Maria Virginia, stupenda creatura che abbiamo avuto la grandissima gioia di poter crescere, educare e ammirare per soli 17 anni, finché una sera di marzo del 2006 ci è stata tolta da una mano assassina, senza un apparente o almeno a noi sconosciuto motivo. E non la vedremo mai più.
Anzitutto saluto, sentendomi vicino a loro con tutto il mio cuore, tutte quelle famiglie che hanno perso, per motivi diversi, il loro figlio. Si avvicina Natale, ci si ritrova tutti davanti al desco familiare ma il posto dei nostri figli è vuoto (loro sono e saranno con noi, ma il loro posto rimane vuoto). E per noi che eravamo abituati a vivere con loro, con la loro presenza fisica, diventa un problema ingestibile. A tratti la disperazione ti assale. Vorresti raggiungerli, chiamarli al telefono, sentire la loro voce, sapere i loro programmi presenti e i loro progetti futuri (nostra figlia il pomeriggio antecedente quella maledetta sera aveva fatto in casa con sua madre Isabella una serie di progetti futuri che avrebbero impegnato parecchi dei suoi anni a venire: invece, ora, il suo posto, come quello di tantissimi altri, è vuoto!). Madri, padri, nonni, zii guardano quel posto consapevoli, confusi, incazzati, tristemente tristi. Che vuoto è e tale rimarrà (ma loro ci sono, loro ci vedono. Ma noi non li vediamo).
Allora (io adesso parlo del nostro caso) ci si chiede perché la mano assassina (e vigliacca) di un ventenne ha fatto con tanta barbarie, astuzia, freddezza, cattiveria, pianificazione, inganno tutto questo a nostra figlia? Perché dovremo passare il resto della nostra vita a dannarci l’anima o ciò che di essa è rimasto, a chiedere risposte che non arriveranno mai? Perché abbiamo (ed io in prima persona) dovuto affrontare un lungo, straziante, costosissimo processo per avere giustizia terrena per nostra figlia? Processo, tra l’altro, non ancora finito: la famiglia del Rossi ci prova ancora con la Cassazione. Si va sino in fondo, chissà forse qualcuno a Roma intravvede un barlume di follia e gli dà uno sconto di pena. Ho rivissuto tutte le fasi della morte e dell’orrore indescrivibile che è stato riservato a Virgy. Ho soffocato in silenzio e dignitosamente qualsiasi istinto di reazione (credo umanamente comprensibile nel cuore di un genitore). E per questo ho ricevuto complimenti e lodi (in particolar modo da tutti i professionisti e rappresentanti dello Stato che si sono dedicati a questo caso). Ma anche dissensi, incomprensioni, critiche, insulti («uomo senza palle»). Credo che le palle, se uno le ha, le tira fuori anche in questo modo. E, credetemi, è il modo più duro e difficile.
Mi chiedo e ci chiediamo perché un altro ventenne, amico e compagno di merende del bullo assassino, lo accompagni in città, sporco di sangue, con la pistola in cinta, lo consigli di buttare il telefono di Maria Virginia dalla macchina (tra l’altro mai più ritrovato) in modo che nessuno li possa rintracciare, lo lasci a destinazione e poi, noncurante di niente e di nessuno, se ne vada a letto. Perché non ha telefonato alle forze dell’ordine? Avrebbe salvato la vita di Andrea Salvarani, il tassista. Perché non ne ha parlato con la propria famiglia? Perché suo padre – come ha dichiarato testimoniando al processo – non ha mai più parlato con il figlio di questo suo comportamento, se non «due minuti, una sera, a tavola», come ha detto ai giudici? Perché il ragazzo non è passato da casa nostra, per informarci di quello che aveva appena saputo e visto? No. E’ andato a dormire, mentre io vagavo, ignaro di tutto: nelle campagne, nel torrente, nei posti più bui e isolati del paese. Perché la famiglia di Rossi, in quasi quattro anni, non ci ha mai fatto una telefonata, una visita, una missiva, un telegramma? Perché non ci ha mai cercato? Perché non ci ha mai detto una sola parola? Perché una madre che ha ancora suo figlio non ha mai chiamato un’altra madre che la propria figlia non ha più? E i quattro nonni? Perché anche loro sono stati in silenzio, da allora, e non si sono mai fatti vivi? Perché i nonni, che hanno ancora il proprio nipote, non hanno chiamato altri nonni che non hanno più la loro nipote?
E perché, facendo un salto indietro, una nonna che, il giorno stesso della tragedia, vede nello zaino del proprio nipote una pistola, le munizioni, un coltello, un tirapugni, un nunchaku, richiude serenamente lo zaino, senza chiedere spiegazioni al ragazzo e senza nemmeno pensare di fare una telefonata per avvisare le forze dell’ordine? Qualsiasi persona, io credo, avrebbe ritenuto come minimo anomalo trovare questi oggetti nello zaino di un ragazzo poco più che ventenne. E invece, niente. Silenzio assoluto. E, così, due vite sono state spezzate. E le nostre famiglie sono state completamente rovinate. Per sempre. Sono molto addolorato, molto stupito e, devo dire, anche molto confuso da tutto questo. Mi chiedo dove sta il cuore di certe persone. Vorrei ricordare a questa famiglia che per mano del loro figlio/nipote noi non abbiamo più nostra figlia. Non sappiano il perché e forse loro sanno il perché. Ma se sanno il perché, perché non ce lo dicono? Credo che ce lo dovrebbero dire. Forse ci spetta di diritto. Almeno lo credo, lo penso. O, perlomeno, io farei così. Non voglio lanciare critiche, non voglio addentrarmi, anche se ne avrei tutto il diritto, nel modo di comportarsi di questa famiglia, ma la brutta sensazione che ho è che si tratti di un distacco e di una freddezza incomprensibili. Non solo – credo – ai miei occhi, ma anche per tutti coloro che, leggendo queste righe, vengono a conoscenza di questa bassa e inspiegabile realtà.
Vorrei dire una cosa alle famiglie. Tutti noi genitori facciamo degli errori, nell’educare i nostri figli. Anch’io ne ho fatto. Ma c’è una cosa importante, che tutti dovrebbero sempre tenere presente: partiamo dal presupposto che i figli, pur creati da noi, non sono di nostra proprietà. Ma noi abbiamo il sacrosanto dovere di crescerli, educarli, mantenerli, di dare loro l’esempio. L’insegnamento che un padre e una madre danno ai propri figli spesso e volentieri segna la loro strada, il loro cammino presente e futuro. Questo dovrebbe sempre essere tenuto presente. Alla luce di quello che ho scritto poco sopra, spero che questo vi faccia riflettere in questi giorni di Natale, insieme ai vostri figli. L’ultimo pensiero (ma non per importanza, perché anzi per me è il primo) vorrei rivolgerlo ai giovani.
A voi tutti giovani, amici e non di Maria Virginia. Agli amici di Virgy voglio dire che siete sempre nei miei pensieri, che spesso sono tentato di stare con voi, di chiamarvi, ma non lo faccio perché capisco che la vostra vita va avanti, come è giusto che sia. Con i vostri interessi, con le vostre gioie, con i vostri problemi, con i vostri sentimenti. Però noi siamo sempre qua, pronti a salutarvi, ad ascoltarvi. So che non vi dimenticate di Maria Virginia, che è sempre nei vostri cuori. So che soffrite, in silenzio: con grande dignità e amore, quella dignità e quell’amore che spesso mancano alle persone adulte. Io, da voi, ho tratto forza, coraggio e determinazione per andare avanti, soprattutto durante il processo. Ciò che avete insegnato a me serva a voi nella vita. A voi tutti, amici di Virgy e non, infine voglio citare le parole che Isabella, la mamma di Maria Virginia, ha scritto il 23 ottobre 2008 sulla «Gazzetta»: «Cominciate a salvare voi stessi dall’idolo della falsa amicizia che, in un attimo, può tramutarvi nei comprimari omertosi di una ferocia orrenda. “Salvatevi” dalle periferie e dalle piazze assediate dalla droga. “Salvatevi” dalle aule scolastiche e dalle curve degli stadi perennemente invasi dai teppisti alla YouTube. “Salvatevi” dalle movide e dalle stragi del sabato sera inondate dall’alcol. Ma se davvero vi preme salvarvi, allora siate voi i primi a trovare la forza di rinunciare al male e alla violenza. A scavare un fossato invalicabile tra voi e la piccola Gomorra di provincia che si è portata via la mia Virgy e che già allunga i tentacoli su di voi e su altri giovani che verranno dopo di voi. Ma se è vero che i ragazzi non sono i profeti, almeno fra di voi ci sarà pure qualcuno disposto ad ascoltare. E a scegliere, correndo la prossima volta a denunciare un assassino invece di offrirgli l’ultimo passaggio per l’inferno, o la vita al posto della morte».
E su questo principio prendiamo tutti esempio da Maria Virginia. Perché lei, quella sera, è andata da sola – dando dimostrazione di grande coraggio – per fare chiarezza su cose ingiuste che stavano succedendo a lei e ad altri. In omaggio a quello spirito di giustizia che l’ha sempre guidata: come quando si arrabbiava con un professore se dava un voto ingiusto a un compagno interrogato che secondo lei meritava di più. Augurarvi che il suo spirito di giustizia possa illuminarvi è – credo – il più bell’augurio di Natale che possa fare a tutte le persone che conosco e che non conosco, agli amici che mi hanno dimostrato la loro amicizia. Un’amicizia che, a volte, io non ho saputo rispettare e contraccambiare e che, altre volte, non è stata capita e contraccambiata da altri.

Il padre di Virginia: «Ora io sono orfano di lei» (Gazzetta di Parma – 28 maggio 2022)
Un fiore in meno sulla terra, una stella in più in cielo. Così è scritto da mano ignota dove Maria Virginia Fereoli fu uccisa la notte del 28 marzo 2006, a Felino, tra una panchina e un gelso. Aveva 17 anni. Che il parco si chiami «Natura viva» suonerebbe come un’atroce beffa, se solo si potesse aggiungere dolore al dolore già traboccante. Fu assassinata senza un perché (come poche ore dopo Andrea Salvarani, «colpevole» solo di avere caricato a bordo del suo taxi l’omicida, il 22enne Stefano Rossi, che si sarebbe suicidato in carcere nel 2012) una ragazza che ancora doveva cominciare a vivere: difficile pensare di peggio. La panchina è scomparsa, l’albero è rimasto: il tronco avvinto dall’edera che disegna un tappeto a forma di cuore sotto la sua chioma, i rami piegati come in un inchino. È raro che l’edera attecchisca così rigogliosa al suolo, ma questa vicenda vive di regole proprie. Vige la forza del ricordo, della condivisione. Dell’amore che – come è inciso nel monumento a Virgi, nell’altro parchetto a lei intitolato sempre a Felino – vince anche la morte. La frase, scolpita in un massiccio triangolo di pietra di Cassio, la scelse la mamma Isabella. «E anch’io ci credo sempre più» mormora il papà Achille, accarezzando quella spessa vela piantata nel terreno, tesa da chissà quale vento. Ogni volta tra i chiaroscuri della pietra lui legge qualcosa di nuovo. Magari una V che evochi il nome della figlia e un battito d’ali.


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