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Lea Garofalo, 37 anni, mamma, testimone di giustizia. Rapita, torturata e sciolta in 50 litri di acido per ordine dell’ex compagno

Milano, 24 Novembre 2009

«Con ammirevole determinazione, pur consapevole dei rischi cui si esponeva, si ribellava al contesto in cui era cresciuta, pervaso da criminalità e devianze educative e, dopo aver lasciato il compagno, esponente di una cosca calabrese, fuggiva dall’ambiente di origine per dare alla figlia opportunità diverse, decidendo, nel contempo, di collaborare con le Forze di polizia, rivelando notizie su omicidi ed estorsioni. Dopo alcuni anni, veniva rintracciata e rapita dall’ex convivente, con l’aiuto di altri complici, e, dopo uno spietato interrogatorio e terribili torture, veniva barbaramente uccisa, con occultamento del cadavere, mai più ritrovato. Splendido esempio di straordinario coraggio e altissimo senso civico, spinti fino all’estremo sacrificio.» (Medaglia d’Oro al Merito Civile – Milano, novembre 2009)


Titoli & Articoli

Lea Garofalo (wikipedia)
Testimone di giustizia sottoposta a protezione dal 2002, decise di testimoniare sulle faide interne tra la sua famiglia e quella del suo ex compagno Carlo Cosco. L’azione di repressione del clan Comberiati-Garofalo si concretizza il 7 maggio 1996, quando i carabinieri di Milano svolgono un blitz in via Montello 6 e arrestano anche Floriano Garofalo, fratello di Lea, boss di Petilia Policastro dedito al controllo dell’attività malavitosa nel centro lombardo. Floriano Garofalo, nove anni dopo l’arresto e dopo l’assoluzione al processo, viene assassinato in un agguato nella frazione Pagliarelle di Petilia Policastro il 7 giugno 2005.
Lea, interrogata dal Pubblico ministero Antimafia Salvatore Dolce, riferì dell’attività di spaccio di stupefacenti condotta dai fratelli Cosco grazie al benestare del boss Tommaso Ceraudo, dicendo anche al Pubblico ministero «L’ha ucciso Giuseppe Cosco (detto Totonno U lupu), mio cognato, nel cortile nostro», attribuendo così la colpa dell’omicidio di Floriano Garofalo al cognato, Giuseppe, detto Smith (dal nome della serie tv “La famiglia Smith”) e all’ex convivente, Carlo Cosco, e fornendo anche il movente.
Ammessa già nel 2002 nel programma di protezione insieme alla figlia Denise e trasferita a Campobasso, si vede estromessa dal programma nel 2006 perché l’apporto dato non era stato significativo in quanto ritenuta collaboratrice non attendibile. La donna si rivolge allora prima al TAR, che le dà torto, e poi al Consiglio di Stato, che le dà ragione. Nel dicembre del 2007 viene riammessa al programma (sempre come collaboratrice di giustizia e mai come testimone), ma nell’aprile del 2009 – pochi mesi prima della sua scomparsa – decide all’improvviso di rinunciare volontariamente a ogni tutela e di riallacciare i rapporti con Petilia Policastro rimanendo però a vivere nel capoluogo molisano per permettere alla figlia di terminare l’anno scolastico.
Il tentativo di rapimento. La nuova abitazione trovata a Campobasso ha la lavatrice rotta. Questo particolare lo conosce anche Carlo Cosco, che nel frattempo vive tra Milano e Petilia Policastro e ha aiutato la ex compagna a trovare tale dimora. Il 5 maggio 2009 si presenta sotto mentite spoglie Massimo Sabatino, recatosi sul posto per rapire e uccidere Lea Garofalo. La donna riesce a sfuggire all’agguato grazie al tempestivo intervento della figlia Denise (che sarebbe dovuta essere a scuola) e informa i carabinieri dell’accaduto ipotizzando il coinvolgimento dell’ex compagno. Le indagini sul tentativo di rapimento avranno un’accelerazione solo dopo la sua scomparsa a Milano il 24 novembre dello stesso anno (il 4 febbraio del 2010 viene adottata una Misura Cautelare nei confronti di Carlo Cosco e Massimo Sabatino – già detenuto nel carcere di Milano dal dicembre del 2009 per spaccio di stupefacenti). Il 28 aprile 2009, poco prima di tale tentativo, Lea Garofalo indirizzò una lettera al Presidente della Repubblica nella quale lamentava di essere stata qualificata come collaboratrice di giustizia, di aver ricevuto un’assistenza legale carente sotto vari punti di vista, di essere stata obbligata a trasferirsi in diverse città con la figlia piccola nell’ambito del programma di protezione, di aver perso un lavoro precario, tutti i contatti sociali e la propria dimora anche per sostenere le spese degli avvocati.
L’agguato e l’omicidio. Il 24 novembre del 2009 Cosco attira l’ex compagna (ormai fuoriuscita da mesi dallo speciale programma di protezione) a Milano, anche con la scusa di parlare del futuro della loro figlia Denise. La sera del 24 novembre, approfittando di un momento in cui Lea rimane da sola senza Denise, Carlo la conduce in un appartamento che si era fatto prestare proprio per quello scopo in Piazza Prealpi. Ad attenderli in casa c’è Vito Cosco detto “Sergio”. In quel luogo Lea viene uccisa. A portar via il cadavere da quell’appartamento saranno poi Carmine Venturino, Rosario Curcio e Massimo Sabatino. Il corpo di Lea viene infatti portato a San Fruttuoso, un quartiere di Monza, dove viene poi dato alle fiamme per tre giorni fino alla completa distruzione (solo dopo la condanna di primo grado, Carmine Venturino inizia a fare dichiarazioni che nel processo d’Appello porteranno a rinvenire più di 2000 frammenti ossei e la collana della donna).
Le indagini e i processi. Le indagini per la scomparsa e l’omicidio di Lea Garofalo, coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia di Milano con la Squadra Omicidi del Nucleo Investigativo dei Carabinieri di Milano, portano a spiccare mandati di arresto, nell’ottobre 2010, a Carlo Cosco, Massimo Sabatino, Giuseppe Cosco «Smith», Vito Cosco «Sergio», Carmine Venturino e Rosario Curcio. Pochi mesi prima, il 24 febbraio, erano già state arrestate altre due persone, di Cormano, per aver messo a disposizione il terreno di San Fruttuoso dove il corpo della donna sarebbe stato portato dopo l’omicidio.
Il processo vede la presenza della figlia della donna come testimone chiave, avendo questa deciso di testimoniare contro suo padre. È il 23 novembre 2011 che il processo riparte dall’inizio, con la notizia della nomina del Presidente della Corte Filippo Grisolia come Capo di Gabinetto del ministro della Giustizia Paola Severino. I due incarichi risultano incompatibili e così la difesa degli imputati, avendone facoltà, ha chiesto che l’intero processo fosse annullato e ricominciato dal principio, comprese le dichiarazioni dei testimoni. Il 30 marzo 2012, quando ancora secondo la difesa Lea Garofalo sarebbe scappata in Australia, il processo si conclude con la condanna di tutti i sei imputati e il riconoscimento delle accuse di sequestro di persona, omicidio e distruzione di cadavere, ma non l’aggravante mafiosa: i giudici condannano all’ergastolo con isolamento diurno per due anni Carlo Cosco e suo fratello Vito, all’ergastolo e ad un anno di isolamento Giuseppe Cosco, Rosario Curcio, Massimo Sabatino e Carmine Venturino, ex fidanzato di Denise.
Dopo la sentenza di primo grado Carmine Venturino decide di fare alcune dichiarazioni. Queste permetteranno di rinvenire i resti della testimone di giustizia proprio nel terreno di San Fruttuoso (circa 2000 frammenti ossei rinvenuti a seguito di un vero e proprio scavo archeologico fatto dagli inquirenti in collaborazione con l’Istituto di Medicina Legale di Milano).
Il 28 maggio 2013 la Corte d’assise d’appello di Milano conferma 4 dei 6 ergastoli inflitti in primo grado. Conferma l’ergastolo per Carlo e Vito Cosco, Rosario Curcio e Massimo Sabatino; 25 anni di reclusione per Carmine Venturino e assoluzione per non aver commesso il fatto per Giuseppe Cosco; inoltre la Corte ha disposto il risarcimento dei danni per le parti civili: la figlia, la madre e la sorella di Lea Garofalo e il comune di Milano. Il 18 dicembre 2014 le condanne della Corte d’Assise d’Appello di Milano vengono tutte confermate dalla Cassazione che le rende definitive.

Lea Garofalo, i giudici: “Sciolta nell’acido per odio da criminali di mestiere”
Nessuna attenuante è possibile, si legge nelle motivazioni della sentenza, per chi ha dimostrato solo “disprezzo della vita e dei più nobili sentimenti famigliari”. La donna, testimone di giustizia, uccisa dalla mentalità mafiosa di chi non poteva sopportare “l’umiliazione” di essere stato lasciato
L’unica cosa certa è che Lea Garofalo è stata uccisa per “odio”. Massacrata da “criminali di mestiere e per scelta di vita”. Il suo corpo, dissolto in cinquanta litri di acido, non è mai stato trovato ma quella “donna fragile, sofferente, infelice” è morta assassinata “al di là di ogni ragionevole dubbio”. I giudici della I corte d’Assise di Milano, che il 30 marzo scorso hanno mandato in galera per sempre sei uomini tra cui l’ex compagno della vittima Carlo Cosco, non hanno potuto concedere nessuna attenuante a chi, come scrive la presidente Anna Introni nelle motivazioni della sentenza, ha dimostrato solo “disprezzo della vita e dei più nobili sentimenti famigliari”.
È stato un processo difficile quello contro “imputati imperterriti e imperturbabili”, silenti tranne quando hanno scelto di parlare per dire “menzogne”
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È più che un percorso giudiziario il film della vita di questa donna, che iniziò una collaborazione da testimone di giustizia solo per dare una chance di vita migliore alla figlia Denise, assomiglia a un romanzo. Una vita difficile ricostruita dai giudici con parole che entrano raramente in atti giudiziari: “Lea, orfana di padre dall’età di nove mesi, sin dalla prima infanzia respira e vive in un ambiente socio famigliare caratterizzato da povertà culturale, con elevati profili di illegalità patologici ed improntato a valori educativi deviati, la nonna le insegna che il sangue si lava con il sangue tanto da compiacersi dell’onore mostrato dall’altro suo figlio che aveva cercato di vendicare la morte del fratello con il sangue divenendo irrilevante che lo stesso fosse rimasto ucciso nell’ambito delle vendette incrociate”.
Ed è per questa vita complicata che il pm di Milano Maurizio Tatangelo, ad apertura del processo, disse: “A questo processo vi appassionerete, è una vicenda umana tragica”. Perché non solo c’è un uomo che uccide la’ex compagna con l’aiuto dei parenti, ma una figlia che si costituisce parte civile contro il padre, l’assassino di sua madre: “La testimonianza di Denise Cosco, come già visto e come si vedrà soprattutto in seguito, è assai preziosa, Denise è il teste chiave – scrive il giudice Introini – e le sue dichiarazioni si pongono quali momenti fondamentale per la ricostruzione di alcuni eventi, di parecchi episodi, di tutto quanto successo che ha visto protagonisti i suoi genitori. La sofferenza di Denise unitamente ad altri nobili sentimenti manifestati nel corso delle sue deposizioni, quali il coraggio, il senso della conoscenza, della verità esimono dal commentare le sue dichiarazioni se non nei limiti in cui ciò risulti strettamente necessario per l’accertamento della verità (finalità cui deve tendere il processo penale)”
Per il pubblico ministero, che aveva chiesto e ha ottenuto l’ergastolo per gli imputati, “quella di Lea Garofalo è stata una morte annunciata, da anni”. Forse da quando la donna, nel 1996, dopo l’arresto di Carlo Cosco, lo lascia. Di sicuro dal 2002 quando Lea, sfuggendo alla “mentalità mafiosa” in cui era cresciuta, decide di svelare tutto quello che sa di omicidi ed estorsioni.
Fino al 2009 Lea e Denise fanno parte di un programma di protezione e vagano per l’Italia in una sorta di via Crucis. Ma in aprile del 2009 Lea, che aveva solo 37 anni, smette i panni della testimone, forse perché sente il fiato sul collo di Cosco (che ha saputo dove si trova da un carabiniere), e dopo tredici anni cerca un contatto con lui. Cosco però, affiliato a una cosca della ’ndrangheta di Crotone “chiede l’autorizzazione a due capi-cosca per uccidere la Garofalo”, vuole la sua “vendetta”.
Il movente di quest’uomo , cui non veniva fatta vedere la figlia quando era detenuto, è tutto in questa riflessione: non solo “lo straziante dolore di un genitore che a causa delle scelte dell’altro non vede più la figlia, non sono solo sentimenti di rabbia, di odio, di vendetta che provano quei genitori ai quali per le scelte dell’altro genitore vengono privati della quotidianità dei figli, vengono privati della gioia di vederli crescere, è qualcosa di più è il disonore, l’umiliazione provata per essere stato lasciato da Lea nel momento del suo arresto e per non vedere più la figlia per una decisione unilaterale della moglie”.
Tra gli “impeterriti e imperturbabili” imputati – Carlo Cosco appunto, i fratelli Giuseppe e Vito, Rosario Curcio, Massimo Sabatino – c’è anche Carmine Venturino “al servizio stabile dei Cosco” che “non si è sottratto neppure all’ignobile compito di affiancare Denise ed intrattenere con la stessa una relazione sentimentale”. La “rara efferatezza”, la “fredda determinazione” di tutti non hanno risparmiato Lea e forse non avrebbero risparmiato Denise che consapevole delle responsabilità della sua famiglia per oltre un anno, e fino agli arresti degli assassini, ha dovuto vivere in una prigione di silenzio e paura:
“Ho fatto finta di niente – aveva detto in aula la ragazzina nascosta dietro un paravento –  come ho fatto finta di niente tutto l’anno successivo. Cosa dovevo fare? La stessa fine di mia madre?”. Lea, che con la figlia voleva scappare in Australia, scomparve fra il 24 e 25 novembre 2009; le telecamere del comune di Milano ripresero all’Arco della Pace di Milano i suoi ultimi istanti in vita. Alle 18,37 salì sull’auto guidata da Carlo Cosco. Fu portata in un appartamento, poi in un magazzino, interrogata, torturata. Tra il 26 e il 28 novembre fu dissolta nell’acido. Denise, difesa dall’avvocato Enza Rando, ora vive sotto protezione, (lontana da nonna e zia materne, anch’esse parti civili nel processo), ma “orgogliosa testimone di giustizia”.
(Giovanna Trinchella)

Lea Garofalo e le ragazze che non mollano
Sei ergastoli per il clan Cosco. Per tutti gli imputati dell’assassinio di Lea Garofalo, la giovane donna calabrese uccisa a Milano per ordine del marito. Colpevole di avere scelto di uscire con la figlia Denise dall’ambiente infernale del narcotraffico e delle faide tra clan e perciò testimone di giustizia. Attirata in trappola dal marito, “giustiziata” a colpi di pistola e successivamente sciolta in cinquanta litri di acido. Una storia terribile che si è incisa nella coscienza di molti. La ferocia bestiale non aveva fatto però i conti con il coraggio della figlia, che ha trovato la forza di denunciare il padre. E di affrontare la clandestinità per sottrarsi alle pressioni e ai condizionamenti dei familiari. Un delitto, uno sfondo di traffici, un luogo di origine, che disegnano un tipico contesto mafioso, anche se in aula il pubblico ministero non ha voluto invocare l’aggravante di mafia.
Da cui la scelta del comune di Milano di costituirsi parte civile. E da qui, soprattutto, l’entrata in scena di un attore collettivo che certo gli imputati non avevano previsto: un gruppo di giovanissime donne, mescolate a qualche coetaneo. Studentesse appena maggiorenni o perfino minorenni che avevano sentito parlare di questa storia in qualche incontro sulla legalità nella propria scuola. Che avevano saputo di questa ragazza fuggitiva e costretta a testimoniare contro il padre e che probabilmente non sarebbe stata creduta: l’avrebbero fatta passare come psichicamente instabile, avrebbero messo in giro su di lei voci ignobili, quante volte non è successo? E chi mai avrebbe preso le sue parti nella Milano in cui per fare accorrere i fotografi bisogna chiamarsi Ruby o Nicole?
Così le giovanissime donne hanno deciso di stare accanto a Denise e di fare propria la sua richiesta di giustizia. Lucia, Marilena, Giovanna, Giulia, Monica, Alessandra, Paola, Elisabetta, Costanza, più di una quindicina in tutto, si sono fatte trovare il 21 settembre al Palazzo di Giustizia, prima sezione della corte d’assise. Emozionate come delle debuttanti. I Cosco non capirono chi fossero e che cosa volessero quelle ragazzine. Così mandarono, perché anche questo succede, un agente della polizia penitenziaria da Giovanna per sapere come mai si fossero date appuntamento proprio lì. Quando lei si sentì interrogare, nonostante l’inesperienza, capì che qualcosa non andava: “E lei perché me lo sta venendo a chiedere?”.
A ogni udienza, appena finita la scuola, le ragazze si davano appuntamento. Dal Virgilio, dal Volta, dal Caravaggio, dall’Università. Anche se Denise non c’era, essendo sotto massima protezione. Si mobilitavano per lei, per la coetanea mai vista e mai conosciuta a cui avevano ucciso e sciolto nell’acido la madre. Con l’idea che quella ingiustizia pesasse anche su di loro. Rimasero perciò di sasso quando il presidente della Corte venne nominato Capo di gabinetto dal nuovo ministro della Giustizia. Quando seppero che per questo il processo sarebbe dovuto ricominciare. Davvero Denise, che già aveva fatto violenza a se stessa per testimoniare la prima volta, sarebbe dovuta tornare ad affrontare domande e insinuazioni? Lucia ricorda perfettamente lo sgomento: “Era novembre, un mercoledì pomeriggio, quando sapemmo che bisognava rifare tutto daccapo. Pensammo che era assurdo, che non esisteva, così decidemmo che il giorno dopo non saremmo andate a scuola e avremmo portato uno striscione bianco con le bombo-lette mettendoci davanti al tribunale per dire che volevamo giustizia per Denise. Qualcuno ci ammonì che rischiavamo di apparire critiche verso i magistrati, ma noi lo facemmo lo stesso. Ingenuamente, forse. Ma per giustizia”. Continuarono a esserci. Hanno dato vita addirittura a un presidio di Libera intitolato “Lea Garofalo”. Con tanti giovedì sera passati a decidere come coinvolgere giovani e adulti o per stabilire come ripartirsi i turni. L’altro ieri, appena è circolata la voce che la sentenza sarebbe stata pronunciata verso l’ora di cena, si sono date appuntamento di corsa al palazzo di giustizia. Fuori dall’aula, agitate, in silenzio, tenendosi per mano tutto il tempo, con qualche ragazzo che riscattava con la sua presenza il genere maschile. L’emozione della prima sentenza attesa in vita loro. I sei ergastoli? “Non c’è da essere contenti”, dice Giovanna, “Lea non tornerà in vita e un ventenne all’ergastolo (il fidanzato di Denise; nda) non è una bella notizia, però penso che Denise ha avuto giustizia e mi sento più leggera”. Altri i toni di Lucia: “Sono felice. Perché mi sembra che a volte le cose vadano per il verso giusto”. C’è quasi una morale in tutta la vicenda, a ripensarci.
Una donna indifesa è stata uccisa con ferocia inaudita da sei uomini. Una donna indifesa anche lei, almeno all’inizio, ha avuto il coraggio di testimoniare per amore. Un’altra donna (la presidente Anna Introini) ha guidato il processo a passi veloci. E altre giovanissime donne hanno voluto che questa storia diventasse di tutti, facendone uno straordinario fatto pubblico.
Lea Garofalo, che gli assassini volevano fare tacere e scomparire per sempre, parla oggi con la sua storia a una città, forse al paese. “Noi abbiamo fatto una cosa semplice, spontanea”, commenta Marilena, “si pensa sempre che si debbano fare grandi cose per cambiare, noi abbiamo solo voluto immedesimarci con un’altra ragazza e aiutarla. Certo la sentenza è importante, ma Denise continuerà a vivere sotto protezione. Per questo non finisce qui. Noi le staremo accanto ancora”.
(
Nando dalla Chiesa)

Uccisa e sciolta nell’acido, sei ergastoli  – Condannato l’ex compagno
Rapita e torturata per ordine del suo ex: il pm ha chiesto sei ergastoli a carico di tutti gli imputati
… Lo ha deciso la Corte d’Assise di Milano che venerdì ha condannato al carcere a vita l’ex compagno della donna e gli altri 5 imputati. L’ergastolo con l’isolamento diurno di un anno, è stata inflitta a Giuseppe Cosco, Rosario Curcio e Massimo Sabotino.
Per la figlia di Lea Garofalo, Denise, che si è costituita parte civile contro il padre, Carlo Cosco, è stato disposto un risarcimento di 200.000 euro. I giudici della Corte d’Assise di Milano si sono riuniti poco dopo le 16 in camera di consiglio per emettere la sentenza del processo per il sequestro e l’omicidio della testimone di giustizia che venne uccisa e sciolta nell’acido il 24 novembre del 2009.
Lea Garofalo godeva di un programma di protezione testimoni e viveva in una località protetta, ma aveva scelto di riunciarvi per poter stare vicina alla figlia Denise. Appunto per parlare delle sue scelte scolastiche aveva accettato un appuntamento con il padre della ragazza a Milano: l’uomo però, secondo l’accusa, la fece rapire dai suoi complici, che la portarono in un’area fuori mano a San Fruttuoso (Monza), la torturarono per farla parlare, la uccisero e sciolsero il cadavere nell’acido.
In Tribunale è arrivato anche don Luigi Ciotti, presidente della storica associazione antimafia Libera. Davanti all’aula della prima corte d’assise, ad attendere la sentenza, c’è anche Nando Dalla Chiesa, figlio del generale Carlo Alberto, ucciso dalla mafia e l’attore e consigliere regionale Giulio Cavalli. Oltre ad alcuni parenti sono poi presenti i ragazzi di Libera che hanno spesso seguito le varie udienze del processo e gli studenti di Nando Dalla Chiesa, anche professore universitario. Anche il presidente del consiglio comunale Basilio Rizzo è presente al palazzo di giustizia per la lettura della sentenza.
Carlo Cosco, l’ex compagno della vittimaPrima che i giudici si riunissero, ha preso la parola uno dei sei imputati, Carlo Cosco (il compagno della vittima), esponente della ‘ndrangheta crotonese, accusato di essere il mandante dell’omicidio. Quest’ultimo ha voluto replicare a quanto detto, durante la requisitoria, dal pubblico ministero Marcello Tatangelo, che aveva definito i sei imputati dei «vigliacchi» perché avevano ucciso insieme una donna.
«Il pubblico ministero dice che siamo vigliacchi – ha affermato Carlo Cosco – io ho la terza media, il pm è un dottore e laureato, ha ragione a dire che sei uomini che uccidono una donna sono vigliacchi. Lo farei anch’io se l’avessimo uccisa, ma noi non siamo vigliacchi perché non l’abbiamo uccisa. Se avessi avuto la sciagurata idea di uccidere la mia ex compagna, non mi sarei servito di cinque persone». «Non è stato un omicidio, mai, mai», ha concluso Cosco, ringraziando infine i giudici e augurando loro una buona Pasqua.
«IL CORAGGIO DELLA FIGLIA» – «Il fatto più importante oggi è che una giovane ragazza a cui hanno ucciso la mamma ha avuto il coraggio di essere testimone di giustizia. Ha rotto la paura e l’omertà e ha portato il suo contributo a scrivere una pagina di giustizia e verità». È questo il pensiero che Denise, la figlia di Lea Garofalo, ha espresso attraverso il suo legale Vincenza Rando. La ragazza ventenne ha atteso nascosta per motivi di sicurezza, la sentenza di condanna. Il legale, emozionato, ha sottolineato l’intelligenza e il coraggio di Denise, che si è costituita parte civile contro il padre imputato nel processo e sottolineato che il Paese deve essere orgoglioso di una ragazza come lei.


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In memoria di

L’intervento di Denise ai funerali di Lea

Memoria (Wikipedia)

Milano, l’albero di Lea alla biblioteca del Parco Sempione
Orto e giardino didattico al Parco Villoresi di Monza
  • Lea Garofalo è ricordata ogni anno il 21 marzo nella Giornata della Memoria e dell’Impegno di Libera, la rete di associazioni contro le mafie, che in questa data legge il lungo elenco dei nomi delle vittime di mafia e fenomeni mafiosi.
  • Con una cerimonia di commemorazione, il primo aprile 2012 il Comune di Monza ha raccolto l’appello di Daw-blog.com e ha posato una targa in ricordo di Lea Garofalo presso il cimitero di San Fruttuoso, a pochi passi dal luogo dove la donna è stata torturata e uccisa.
  • Nel dicembre 2012 esce il libro sulla vita di Lea Garofalo, Il coraggio di dire no. Lea Garofalo, la donna che sfidò la ‘ndrangheta.
  • Nel 2012 la cantastorie Francesca Prestia ha scritto e musicato “La ballata di Lea” che ha aperto l’Assemblea Nazionale delle Donne della CGIL dello stesso anno al Teatro Capranica di Roma.
  • Il 19 ottobre 2013 si sono svolti a Milano, in piazza Beccaria, i funerali civili di Lea Garofalo. In piazza erano presenti migliaia di persone, fra le quali i rappresentanti dell’associazione Libera e personalità come Don Luigi Ciotti e il sindaco di Milano Giuliano Pisapia. Lo stesso giorno è stato intitolato a Lea Garofalo un giardino pubblico in viale Montello a Milano. Ancora a Milano, nel prato della biblioteca del Parco Sempione, è stata piantata una magnolia invernale alla quale sono appesi testi in memoria di Lea.
  • Il comune di Castelfranco Emilia, in provincia di Modena, ha intitolato la propria biblioteca a Lea Garofalo il 7 settembre 2013.
  • Anche a Savignano sul Panaro, in provincia di Modena, nel luglio del 2014 è stato inaugurato un parco in onore di Lea Garofalo, chiamato Parco del Coraggio; il 4 marzo 2015 Don Luigi Ciotti ha visitato il parco e in quell’occasione è stata piantata una quercia dedicata alla donna.
  • La Rai ha prodotto un film TV sulla sua storia, dal titolo Lea di Marco Tullio Giordana interpretato da Vanessa Scalera, andato in onda il 18 novembre 2015 su Rai 1.
  • Il sindaco di Catanzaro, Sergio Abramo, ha intitolato i “Giardini di San Leonardo” a Lea Garofalo nel 2015.
  • Nel 2015 il comune di Lissone intitola a Lea Garofalo una piazza.
  • Il 9 gennaio 2016 il circolo dei Giovani Democratici di Crotone dedica a Lea Garofalo, con la presenza della sorella Marisa, una targa commemorativa che recita “A Lea Garofalo – I giovani che odiano la ‘Ndrangheta”.
  • A Lea Garofalo e a Denise è dedicato il graphic novel Lea Garofalo, una madre contro la ‘ndrangheta, di Ilaria Ferramosca e Chiara Abastanotti, BeccoGiallo, 2016, con i contribuiti di Daniela Marcone (vicepresidente di Libera) e Marika Demaria.
  • I Litfiba le hanno dedicato una canzone dal titolo “Maria Coraggio“, contenuta nell’album Eutòpia, pubblicato l’11 novembre 2016, il cui videoclip è stato poi pubblicato il 10 marzo 2017, insieme al singolo nelle radio.
  • Il giorno 10 dicembre 2016 con la presenza di Luigi Ciotti a cui viene conferita la cittadinanza onoraria, l’Amministrazione comunale di Vimodrone inaugura la nuova biblioteca comunale intitolandola a “Lea Garofalo” e tutte le vittime innocenti delle mafie.
  • A Lamezia Terme un ponte di recente costruzione è stato intitolato a Lea Garofalo.
  • Il 30 novembre 2019 a Rho il Parco di Goglio viene ribattezzato in onore di Lea Garofalo su spinta degli studenti della scuola media San Carlo della città che aveva partecipato ad un progetto di legalità e che son riusciti a portare l’idea nella commissione consiliare antimafia e poi nel consiglio comunale stesso.
  • il 2 giugno 2020, il graphic novel Lea Garofalo, una madre contro la ‘ndrangheta, di Ilaria Ferramosca e Chiara Abastanotti, viene ripubblicato nella collana de Il Fatto Quotidiano, Chiedi chi erano gli eroi, con un contributo di Marco Tullio Giordana e alcuni documenti processuali.
  • A Lea Garofalo è stata dedicata la panchina rossa di piazza PrealpI in Milano.
  • Nel 2023 viene distribuita la serie televisiva di Disney+ The Good Mothers in cui viene raccontata anche la storia di Lea Garofalo

Medaglia d’oro al merito civile (alla memoria)
«Con ammirevole determinazione, pur consapevole dei rischi cui si esponeva, si ribellava al contesto in cui era cresciuta, pervaso da criminalità e devianze educative e, dopo aver lasciato il compagno, esponente di una cosca calabrese, fuggiva dall’ambiente di origine per dare alla figlia opportunità diverse, decidendo, nel contempo, di collaborare con le Forze di polizia, rivelando notizie su omicidi ed estorsioni. Dopo alcuni anni, veniva rintracciata e rapita dall’ex convivente, con l’aiuto di altri complici, e, dopo uno spietato interrogatorio e terribili torture, veniva barbaramente uccisa, con occultamento del cadavere, mai più ritrovato. Splendido esempio di straordinario coraggio e altissimo senso civico, spinti fino all’estremo sacrificio.» Milano, novembre 2009