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Hina, 20 anni, lavorava in una pizzeria. Sgozzata e seppellita nell’orto dal padre Mohammed Saleem con la complicità di due cognati e uno zio

Sarezzo (Brescia), 11 agosto 2006

Hina non è stata uccisa per motivi religiosi, e neppure perché voleva vivere come un’occidentale. Hina è la vittima di un posssesso-dominio paterno e patriarcale, che non è appannaggio esclusivo di una parte di mondo, come dimostra la compagnia che Hina trova in questo sito.

HINA: PM CHIEDE 30 ANNI PER PADRE E DUE COGNATIMohammed Saleem, padre di Hina. Condannato a 30 anni confermati in Cassazione, 17 anni per lo zio e i cognati complici . La difesa afferma che la sentenza è stata influenzata dal calore mediatico.

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AdnKronos

‘Hina non fu uccisa per motivi religiosi: vittima di possesso-dominio del padre” – Piazza Cavour ha riconosciuto anche il risarcimento dei danni all’ex fidanzato della giovane

”Hina non fu uccisa per motivi religiosi: vittima di possesso-dominio del padre”

La Cassazione spiega così i motivi per i quali ha resa definitiva la condanna a 30 anni nei confronti di Mohammed Saleem. L’uomo ha assassinato la figlia perché non accettava il suo stile di vita all’occidentale

Hina Saleem, la ragazza pakistana uccisa nel bresciano dal padre, è stata principalmente vittima di un ”possesso-dominio” da parte del padre che non accettava il suo stile di vita all’occidentale. La prima sezione penale della Cassazione spiega così i motivi per i quali, lo scorso 12 novembre, ha resa definitiva la condanna a 30 anni di reclusione nei confronti del padre, Mohammed Saleem.

Secondo la Suprema Corte la barbara uccisione della ragazza non è da ricercarsi nei motivi di religione quanto nel ”rapporto fra Hina e la sua famiglia e soprattutto nella inaccettabile concezione, travalicante i pur presenti profili religiosi e di costume rinvenibile anche in contesti diversi, che l’imputato Saleem aveva del rapporto padre-figlia come possesso-dominio”, nonché ”nell’atteggiamento spesso intimidatorio e violento di costui nei confronti della figlia che non sottostava ai suoi voleri e rivendicava margini di autonomia”.

Pienamente condiviso dalla Suprema Corte il ”motivo abietto” dell’uccisione come pure il fatto che a scatenare la follia omicida sia stato un ‘‘patologico e distorto rapporto di possesso parentale essendosi – rimarca la Cassazione – la riprovazione furiosa del comportamento negativo della figlia fondata non già su ragioni o consuetudini religiosi o culturali bensì sulla rabbia per la sottrazione al reiterato divieto paterno”.

Piazza Cavour, inoltre, ha riconosciuto anche il risarcimento dei danni all’ex fidanzato di Hina, il bresciano Giuseppe Tampini con cui la ragazza aveva iniziato una convivenza da circa un anno. In proposito, la Suprema Corte parla di un ”sostegno economico-morale assicurato dal Tempini ad Hina” e riconosce la ”intrapresa comunanza di vita”.

 Il Giornale

Hina Saleem una ragazza che voleva solo vivere

Il docu-libro: una narrazione asciutta e durissima per non dimenticare la giovane pachistana

«Cari carabinieri come state? Ma so che state bene. Io no, ho paura che mi mandino da qualche parte.

Ho sentito che la mia mamma diceva a mio papà: “Io convincerò Hina ad andare in Pakistan e se non vorrà inventiamo un piano tutti assieme”. Ma non so quale. So solo che mi faranno del male…».

Inizia così il docu-racconto, intenso come un romanzo, firmato da Giommaria Monti e Marco Ventura intitolato Hina. Questa è la mia vita (Piemme, pagg. 304, euro 16). Inizia con le parole di Hina Saleem, la ragazza pakistana che venne macellata con più di venti colpi di arma da taglio dal padre, aiutato dai mariti delle sue sorelle, che poi nascosero il corpo anche con la collaborazione dello zio, Muhammad Tariq.

Il libro, infatti, racconta utilizzando tutta la documentazione disponibile il calvario di questa giovane (culminato nella tremenda nottata dell’11 agosto 2006) che voleva solo vivere come tutte le altre ragazze italiane e non voleva più subire una famiglia oppressiva e men che meno essere rispedita in Pakistan. Ma questa narrazione condotta con prosa asciutta ma appassionata non si limita alla storia del delitto alla ricostruzione dell’omicidio. Fa conoscere da vicino, attraverso la rielaborazione di tantissime testimonianze di chi l’ha conosciuta, la ragazza che per anni ha cercato di costruirsi una vita normale, di tenersi il bello della sua cultura aggiungendoci il senso della libertà dell’Occidente. Per usare di nuovo le sue parole: «Credo in Allah, sono musulmana ma non sono più pakistana… Sono italiana».

La parte più straziante, conoscendo i tremendi esiti della vicenda, è il disperato tentativo di Hina di denunciare la sua situazione, a partire dal 2003. Si era più volte rivolta ai carabinieri e ai magistrati ma alla fine aveva ritirato le denunce. Non ce la fece a sostenere le accuse sino all’ultimo e forse la nostra giustizia non fu abbastanza attenta nell’aiutarla a farlo.

di Matteo Sacchi

Repubblica

La donna è comparsa venerdì nella stazione dei carabinieri “Voglio denunciare mio marito, ha ucciso mia figlia” È tornata la madre di Hina “Mohammed ha fatto giustizia” “Lei non era una buona pachistana”. Ora Bushra è nascosta in una comunità con i suoi tre figli

“Muhammed ha fatto giustizia”. Perché Hina “non si comportava da brava musulmana, anche se suo padre non l’ha mai picchiata, né ha mai abusato di lei”. Bushra, la mamma della giovane pachistana uccisa e sepolta nell’orto di casa dieci giorni fa da suo padre, è comparsa all’improvviso, venerdì pomeriggio, nella stazione dei carabinieri di Villa Carcina. Accompagnata dai tre figli più piccoli, ha detto al piantone all’ingresso: “Voglio denunciare mio marito, ha ucciso mia figlia”. Ai carabinieri che le spiegavano che l’omicidio era già noto e che non serviva la sua denuncia ha risposto: “Da noi si usa così”.

Ora Bushra è nascosta in una comunità protetta, dove nessuno può avvicinarla, con i suoi figli di 17, 12 e 10 anni. Mancano all’appello le sue due figlie più grandi. “Sono rimaste in Pakistan”, ha spiegato. Una delle due è la moglie di Mahmood Zahid, il 27enne terzo uomo della notte del massacro, ancora ricercato. Oggi sarà sentita dal pm Paolo Guidi. Ma il primo verbale, redatto davanti ai carabinieri con l’aiuto di una interprete è un viaggio drammatico nelle parole di una madre che condanna la figlia morta, più del marito assassino. Non chiede di vedere il marito, soprattutto non chiede la restituzione del cadavere della figlia. Spiega solo cosa è successo in questi dieci giorni. Lei era in Pakistan, con parte della famiglia, come ogni estate. “Noi siamo partiti come sempre, mio marito non mi ha comunicato i suoi progetti”, dice laconica.

Che gli uomini di famiglia quest’estate non partissero sembrava scontato: Hina, da quando si era messa a lavorare e da quando frequentava un giovane bresciano, aveva deciso che le sue vacanze non le avrebbe più passate in patria, con lo chador obbligatorio e i tanti parenti intorno. Quindi loro dovevano restare qui, a controllare che non portasse altro disonore alla famiglia. Una copertura ottima, per chi – forse – aveva già deciso un omicidio. La famiglia parte da Malpensa, fa scalo a Londra, arriva a Gujrat, undici milioni di anime. Lì l’Interpol avvia le ricerche, nei giorni convulsi seguiti al ritrovamento del cadavere di Hina, quando i tre assassini – il padre, lo zio e il cognato – erano ancora tutti latitanti. Ma ora Bushra dice che della morte di Hina ha saputo da Internet, non da parenti o amici italiani. E che ha deciso di tornare.

Arrivata all’aeroporto di Linate, è andata subito dai carabinieri: ma questa è una circostanza da verificare, per capire se prima la donna non si sia consultata con qualcuno della comunità pachistana di Brescia. Lì ha raccontato con calma “senza tradire alcuna emozione, senza una lacrima”, dice chi l’ha vista, gli ultimi anni in casa Salem. “Hina non si comportava bene”, ha detto.

Hina viveva, vestiva, amava all’occidentale, questo non era un mistero neanche per la sua famiglia, da cui era più volte scappata. Anche quando era arrivata a denunciare suo padre, facendo intendere che aveva più volte provato ad abusare di lei, sua madre non aveva mai preso le sue difese. Una versione che, fino all’altro ieri, era raccontata solo dagli amici di Hina, ma che venerdì pomeriggio – nelle lunghe ore in caserma – la donna non ha smentito.

Chi ha ascoltato il suo racconto ha avuto l’impressione di una donna che cercasse solo di fare il suo dovere, denunciando suo marito. Ma senza alcuna vera accusa nei suoi confronti. La colpa, nelle parole della madre, era di Hina, non di Muhammed. “Non era una buona pachistana, mia figlia”, dietro queste parole c’è la condanna a morte di Hina, che nessuno della sua famiglia ha voluto salvare.

di Oriana Liso

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