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Giulia Galiotto, 30 anni, impiegata. Uccisa a colpi di pietra, chiusa in un sacco e gettata in un fiume dal marito

San Michele dei Mucchietti, Sassuolo (Modena), 11 Febbraio 2009


Titoli & Articoli

Trovata morta sul greto del Secchia. Sembrava che Giulia Galiotto, 30 anni, si fosse suicidata. Ma nell’arco di poche ore il marito, Marco Manzini, 35 anni, è stato fermato, interrogato e incarcerato per uxoricidio. Interrogato, ha raccontato ai carabinieri la terribile verità sul delitto: i colpi di pietra inferti alla testa alla moglie, tutti gli espedienti per mascherare l’omicidio da suicidio, il corpo gettato nel Secchia e i depistaggi compiuti anche con i genitori di lei, che però hanno subito intuito come Marco mentisse.
Dietro una vita di coppia apparentemente serena, l’ombra della separazione. Nel giorno in cui Sassuolo darà l’addio a Giulia Galiotto, trentenne impiegata di banca uccisa dal marito Marco Manzini, emergono nuovi particolari che potrebbero aprire un nuovo fronte sul movente dell’omicidio. La sorella della vittima avrebbe, infatti, raccontato ai carabinieri che dal settembre dello scorso anno il rapporto tra Giulia e Marco era in crisi e che il marito aveva detto alla moglie “di non amarla più”. A fine gennaio, Giulia presa dallo sconforto, avrebbe trascorso anche una notte a casa dei genitori.
Intanto, oggi alle 15 a San Michele si terrà il funerale della giovane donna, ieri ricordata a lungo durante le omelie nelle chiese della città. Giulia Galiotto era sul punto di chiedere la separazione dal marito Marco. Lo ha rivelato la sorella Elena, alla quale la stessa Giulia confidava ogni cosa di sé, nel corso della deposizione fatta ai carabinieri subito dopo la scoperta del cadavere della donna e del suo assassinio: «Mia sorella mi disse che avrebbe fatto un ultimo tentativo, ma che se Marco non cambiava, avrebbe chiesto la separazione». Nel raccontare questo particolare di non secondario importanza, Elena apre un nuovo fronte sul movente dell’omicidio.
Forse non solo la gelosia che macerava Marco, ma un rapporto che si era deteriorato, almeno stando ai verbali di polizia giudiziaria, fin da settembre dello scorso anno. Una rapporto coniugale non più sereno, per altro confermato dallo stesso Marco Manzini ai carabinieri: «Erano cominciati dei problemi fin dal settembre 2008 legati al fatto che non riuscivamo ad avere figli». E fin qui la gelosia sembra non entrarci.
Ma come racconta Elena ai carabinieri di questo rapporto coniugale che si andava sempre più incrinando? «Non so se le diatribe tra mia sorella e Marco fossero iniziate fin da settembre dello scorso anno. Di certo sono al corrente che il 4 gennaio scorso Giulia mi confidò che Marco le aveva detto “Non ti amo più e non voglio più un figlio da te” – spiega la sorella della vittima smentendo di fatto quanto Marco aveva dichiarato in relazione non alla volontà, ma all’impossibilità di avere bambini – Mia sorella nelle settimane successive aveva cercato in più modi di comprendere questo improvviso malessere del marito. Mi raccontò che ogni volta lui le rispondeva: “Sei una moglie carina, affettuosa, tieni dietro alla casa, non rompi come le altre mogli, ma non ti amo più”».
Stanca della freddezza e del “cinismo” del marito – usa questo termine Elena Galiotto – Giulia, in un momento di comprensibile sconforto, lascia la casa coniugale e trascorre una notte – quella tra il 24 e il 25 gennaio scorso – a casa dei genitori. Ma poi decide di ritornare da Marco che ama ancora. «E’ tornata di sua iniziativa – aggiunge Elena – con il forte intento di aiutare Marco, proprio alla luce di quel suo malessere da lui stesso manifestato con comportamenti e soprattutto con quella frase della “brava moglie che non amava più”. Giulia mi disse che da quel giorno il marito era tornato ad essere gentile, affettuoso anche se a tratti coglieva in lui un’indifferenza totale che rasentava il cinismo. Mi disse però anche che a quel punto non riusciva a capire chi avesse davanti».
«Era l’11 febbraio scorso quando, tra le 19,30 e le 20, Giulia mi chiamò al telefono fisso – conclude Elena – L’ho sentita un po’ amareggiata, ma decisa. E’ stato nel corso di quella conversazione che mia sorella mi disse: “Ho deciso di lasciare ancora poco tempo a Marco. Se dimostra l’intenzione di cambiare, bene. Altrimenti sono pronta a chiedere la separazione”». Nemmeno un’ora dopo, attirata con una scusa a casa dei suoi genitori che erano assenti, Marco massacrava e ammazzava con un sasso Giulia.

E sempre ieri, con un veloce tam-tam di telefonate, conoscenti ed amici hanno nuovamente riempito la chiesa. Questa volta per celebrare una messa in ricordo di Giulia, in attesa del funerale che con ogni probabilità si terrà lunedì prossimo.

 


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In memoria di

La testimonianza di Giovanna: “Mia figlia, uccisa dal marito e dal processo” (Emilia Romagna Mamma – 20 maggio 2014)
“Dal punto di vista penale, lui non avrebbe potuto prendere una condanna più lunga. Ma mia figlia non tornerà. E il suo nome è stato infangato”. Giovanna Ferrari lo chiama “lui”. Lui è Marco Manzini, una volta era come un figlio. Poi, l’11 febbraio del 2009, è diventato l’assassino di sua figlia Giulia Galiotto. Ammazzata due volte, secondo la madre: la prima dalle sassate in testa nel garage dei suoceri, a Sassuolo, la seconda dal processo.
Giovanna è una donna forte, coraggiosa. Che ha scelto di raccontare la sua storia atroce per ridare a sua figlia un’immagine degna, per onorarne la memoria a suo parere brutalizzata dalle vicende giudiziarie.
Giovanna, chi era Giulia?
“Una ragazza normale, estroversa e socievole, molto amata da tutti. Le donne come lei sono le vittime predilette dei narcisi perversi come suo marito. Perché sono più empatiche, più tolleranti. E sopportano violenze subdole”.
Di che tipo erano quelle subite da sua figlia?
Psicologiche, sottili. Lo abbiamo scoperto solo dopo. Giulia non dava segni visibili che qualcosa, con lui, non andasse. Ci aveva parlato di una crisi, sì, ma solo poco tempo prima che venisse uccisa. Non avremmo mai immaginato quanto lui fosse un manipolatore”.
Violenze fisiche, secondo voi, lui non gliene infliggeva?
“No, Giulia non sarebbe stata zitta. Sapevamo che cercavano un figlio che però non arrivava. Lui, durante il processo, ha detto che i rapporti sessuali erano diventati un atto meccanico. Per questo le aveva chiesto di ricominciare a prendere la pillola: l’affossarsi di un sogno per lei, che amava tanto i bambini”.
“Lui” come ha giustificato il suo gesto?
“Per passare da innocente ne ha fatte di tutti i colori. All’inizio ha cercato di far credere che lei si fosse suicidata. Ci ha telefonato dopo averla uccisa, chiedendoci se sapevamo dove fosse. Ci ha mostrato un biglietto che lei aveva scritto anni e anni prima, per convincersi che l’ipotesi del suicidio fosse plausibile. Senza contare che dopo averla assassinata, ha caricato il cadavere in macchina e l’ha buttato nel fiume Secchia. Un delitto premeditato a tutti gli effetti, tanto è vero che lui le aveva dato appuntamento nel garage dei suoi genitori, facendole credere di volerle dare un regalo”.
Ma la premeditazione non è stata dimostrata…
Segno che la giustizia, in Italia, non funziona. Il marito di Giulia si è appellato alla gelosia, al raptus, ha cercato di far credere che lei lo tradisse, quando invece è stato provato che l’amante l’avesse lui. La violenza di genere, l’ho imparato sulla pelle di mia figlia, non è un fatto privato, di coppia. Piuttosto, è culturale e sociale”.
Siamo ancora lontani dal farlo capire?
“Lontanissimi. Se l’uomo tradisce la moglie va bene, se la donna è sospettata di tradire il marito vengono giustificate tutte le nefandezze possibili. In un certo senso, durante il processo, è stato ribaltato il rapporto vittima-carnefice. La sentenza è contraddittoria: da un lato dice che non ci sono elementi sufficienti per dimostrare la premeditazione, dall’altro non gli vengono riconosciuti né il vizio di mente né le attenuanti generiche, e si sostiene la volontà, da parte sua, di uccidere Giulia in maniera violenta e crudele”.
Come proseguite la vostra battaglia?
“Abbiamo presentato ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo perché ci siamo sentiti davvero usurpati come famiglia: la giustizia italiana pende a favore dei criminali. Nel frattempo, il libro mi ha permesso di incontrare tante donne vittime di violenza, tanti operatori. Spero, con la mia testimonianza, di aiutarne almeno qualcuna ad uscire dal silenzio. E di aver ridato a Giulia l’immagine che le apparteneva, quella di una bella persona, non bugiarda, leggera e inaffidabile come è stata decritta”.
Che cosa insegna, nel male, la sua vicenda?
“Che non si può continuare ad aspettare che ci scappi il morto per intervenire e mettere in salvo le donne. E che la violenza avviene nei contesti meno sospettabili: pensiamo sempre che a noi non possa succedere”.
In effetti, il marito di Giulia per voi era uno di casa…

Lo conoscevamo da una vita, conobbe Giulia in un gruppo parrocchiale e restarono fidanzati per sette anni prima di sposarsi. Sembrava un ragazzo premuroso. Abbiamo capito chi è veramente da come si è comportato durante il processo. Non ha mai mostrato segnali di pentimento, continua a portare la maschera: ma adesso noi lo vediamo per quello che è veramente”.
E i vostri consuoceri?
“Hanno fatto di tutto per difenderlo, ritrattando anche sulla questione del sasso che era stato trovato nel loro garage. Dissero che era possibile eccome che ce ne fosse qualcuno, visto che lasciavano spesso la porta aperta. All’inizio, invece, avevano negato”.
“Per non dargliela vinta”: come è nato il titolo?
“Da una frase di lui durante il processo. Che mette in luce la volontà del maschio di prevaricare, di avere l’ultima parola, di avere ragione, di togliere alla donna il suo spazio di scelta autonoma”.

Storie di ordinario femminicidio: Giovanna ricorda la figlia Giulia (Venere 50 – 2 aprile 2019)
Giovanna l’11 Febbraio del 2009, tua figlia Giulia di soli 30 anni viene assassinata a colpi di pietra da suo marito Marco Manzini. Lei, una delle troppe donne uccise dal proprio compagno, purtroppo uno dei tanti, troppi femminicidi che vengono commessi ancora nel nostro Paese. Fino a quel terribile 11 febbraio 2009 chi era per te, per voi familiari Marco Manzini? Quale il motivo che lo spinse a togliere la vita ad una giovane donna di soli 30 anni, tua figlia?
Prima ancora che si mettesse con Giulia, Marco frequentava la nostra casa insieme agli altri ragazzi e ragazze del gruppo. Non spiccava per simpatia, questo sì, per certi atteggiamenti un po’ arroganti che assumeva all’interno della compagnia. Ma nei nostri confronti ha sempre avuto un comportamento molto corretto e, dopo il fidanzamento con Giulia, quando i rapporti si sono fatti più frequenti, si è sempre dimostrato molto disponibile e collaborativo. Non abbiamo mai colto in Giulia segni di disagio o di contrarietà anche quando, ad esempio, lui faceva battute nei suoi confronti che, a volte, giudicavo di cattivo gusto. Devo dire che, all’epoca, non sapevo nulla di violenza nei rapporti intimi, o meglio, pensavo, come tanti, che la nostra famiglia “banale” nella sua normalità ne fosse per questo immune. Certamente non ero attrezzata per cogliere i famosi “campanellini”, ma non sarebbe comunque stato facile sentirli. Lui ha sempre agito quella forma subdola e vigliacca di violenza che ora sono in grado di definire “psicologica”, tesa a isolare Giulia anche dal contesto familiare.
Per questo siamo venuti a conoscenza solo durante le indagini e il processo di atteggiamenti vessatori nei suoi confronti, agiti anche prima del matrimonio. Per questo, quando, un paio di settimane prima della sua uccisione, Giulia ci confidò la sua sofferenza per la crisi matrimoniale in atto, per noi fu un fulmine a ciel sereno. All’esterno non trapelavano problemi nella coppia, che proprio da alcuni mesi stava cercando il primo figlio. E’ questa maternità, desiderata da Giulia come irrinunciabile e inizialmente condivisa (e regolamentata) da Marco, a creare una netta frattura. Giulia ci confidò i comportamenti deliberatamente svilenti che il marito stava tenendo nei suoi confronti volti a farla soffrire. Primo fra tutti la decisione di procrastinare (per non dire rinunciare a quel concepimento che tardava, come spesso accade, e che stava creando una insanabile ferita narcisistica in Manzini. Emergeranno poi dalle indagini e dalla perizia psichiatrica i suoi problemi di natura sessuale, che probabilmente si erano acuiti in quella circostanza. Giulia però non intendeva rinunciare alla maternità, non senza averne approfondito le cause. Ma ciò chiamava in causa problemi che il marito non voleva affrontare.
Forse anche per questo si era allontanato dalla moglie e aveva stretto una relazione con una compagna di pallavolo, sulla quale investire il suo ardore narcisistico, frustrato dall’insuccesso.
I nuovi progetti di vita, però, escludevano Giulia. Ovviamente, lui non aveva il coraggio di confessare come stavano le cose, si limitava a dire alla moglie che non la amava più, glissando sui motivi, lasciati nel vago, negando di tradirla. La violenza psicologica, silenziosa e devastante, si era fatta sempre più pesante: Giulia si vedeva rifiutata sessualmente, esclusa anche dal campo visivo oltre che affettivo, azzerata come persona. Lei ne era consapevole e si stava orientando per la separazione, che “per il momento” lui diceva di non volere. Il comportamento di Manzini ci irritava. Mai però, né noi, né Giulia, abbiamo temuto che potesse usarle violenza fisica, tantomeno mettere in atto un delitto così articolato. Ma lui l’ha fatto.

Marco Manzini venne condannato a 19 anni di reclusione. Quali sono state le attenuanti che gli vennero riconosciute per pagare il “conto con la giustizia” perchè tanto vale, per la giustizia, la vita di una moglie. e di una donna. Giovanna come hai vissuto la fase processuale e quanto durò?
Ho capito il significato del termine femminicidio nel corso del processo. E’ stato nelle aule di tribunale che si è portato a compimento l’assassinio di Giulia. Un delitto progettato con la cura meticolosa che era tipica del Manzini, che però non è risultato “perfetto”, come per fortuna spesso accade. A perfezionarlo è dovuta intervenire la “giustizia”, concedendo tutte la “garanzie” che un paese civile come il nostro riserva agli imputati (sottraendole alle vittime) anche di crimini orrendi: rito abbreviato, diritto di mentire, perizia psichiatrica.
Ed è proprio la perizia psichiatrica l’atto più scandaloso di questo processo “alla vittima”. Perizia che, da un lato è costretta ad escludere quel “discontrollo episodico”, caldeggiato dal CTP del Manzini per dare una veste più scientifica alla vulgata del raptus, dall’altro, nella parte conclusiva, non richiesta, giustifica l’omicidio, ribaltando su Giulia la colpa di tutto. La perita del GIP, abbracciando pedissequamente le recriminazioni del Manzini, che “ovviamente” accusa la moglie di infedeltà già prima del matrimonio, prende per buono il racconto dell’assassino riguardo le modalità dell’aggressione alla moglie: la lite in garage per rinfacciarsi le “reciproche” infedeltà, che non ha nessun supporto probatorio oggettivo. La racconta lui per negare di avere attirato Giulia in quel luogo (adatto a decidere del loro futuro di coppia?), ma non è compatibile con le risultanze agli atti.
L’amante del Manzini, che è una certezza documentata dalle ammissioni dello stesso imputato, non ha nessuna importanza per la perita (il tradimento maschile non disturba), mentre le accuse di tradimento rivolte alla moglie diventano certezze meritevoli di morte. Se ne rende conto la psichiatra che stona parlare di gelosia, perché è palese agli atti che il Manzini era geloso sì, ma dell’amante. E allora, eccola introdurre il concetto di rabbia punitiva, connotando il femminicidio. “La vergogna, la paura del crollo della propria immagine davanti al mondo, agli altri, (…) l’aver investito su una persona che ha continuato a deluderlo e che non si rende conto della sua amarezza armano la mano di Marco e lo portano a sfogare una rabbia così intensa che si manifesta sia nei numerosi colpi inferti, (…) sia nel successivo comportamento che denota l’intenzione di disfarsi di una persona che nel suo intimo ritiene responsabile di quanto successo. Lui l’ha colpita, ma- nel suo inconscio- chi ha fatto scattare il tutto è Giulia con i suoi tradimenti, la sua inaffidabilità, la sua leggerezza.”
Addirittura anche i comportamenti da stalker messi in atti già prima del matrimonio, di cui Marco vanta gli effetti devastanti su Giulia, ben visibili nel biglietto che utilizzerà a prova delle sue intenzioni suicidarie, in altre parole quei “campanellini” che la vittima avrebbe dovuto cogliere, non solo trovano sorda la perita, ma costituiscono per lei conferma delle ripetute infedeltà di Giulia. Insomma la psichiatra, che dovrebbe avere i requisiti professionali per cogliere segni premonitori di un comportamento violento, non ha saputo (meglio voluto) vedere ciò che ipocritamente si pretende dalle vittime.
Ecco allora che non solo i vissuti soggettivi dell’assassino si trasformano in fatti certi, ma la lucida premeditazione dell’omicidio e il successivo depistaggio scompaiono dietro a un più comodo “scompenso emozionale” provocato dalla vittima stessa, che la perita sfodera per “attenuare” la gravità del crimine. Un capovolgimento di ruoli che, oltre a sollevare l’assassino di una decina d’anni di carcere, lo assolve da ogni responsabilità morale. Il pregiudizio patriarcale e misogino che esce dalla perizia psichiatrica verrà abbracciato pedissequamente dal giudice di primo grado. In tribunale abbiamo dovuto assistere impotenti al travisamento dei fatti in base alle menzogne strumentali dell’assassino di nostra figlia, pesantemente offensive della dignità della vittima, senza più possibilità di parola. Per noi l’esperienza contratta soprattutto durante il primo grado di giudizio è stata, se possibile, ancora più dolorosa, umiliante, devastante dell’assurdità della morte di Giulia e ha determinato il crollo di fiducia e rispetto nei confronti di organi istituzionali fino a quel momento solidi punti di riferimento.

 

Rileggendo gli articoli dei giornali che facevano riferimento al femminicidio di Giulia, si legge che Marco l’aveva attirata nel garage dei genitori, l’aveva colpita ripetutamente a morte, si cambiò, la infilò in un sacco e la trascinò via. Inoltre inscenò un suicidio gettandola in un fiume, riutilizzando una lettera scritta da lei 4 anni prima ed infine ripulì minuziosamente la sua auto, utilizzata per il trasporto di Giulia. La prima domanda che mi nasce spontanea è: perché non è stata accolta la premeditazione?
Appare da subito l’intenzione di attirare la moglie in un agguato, configurando la premeditazione del delitto, ipotesi che compare già nel verbale di fermo. Altri saranno gli elementi a conforto della premeditazione: la non presenza nel garage, scena del crimine, di sassi (arma impropria del delitto)in base alle dichiarazioni del padre stesso di Manzini, la velocità dell’azione e la disponibilità di tutto il materiale necessario al successivo raffinato occultamento del crimine, biglietto compreso, la perizia autoptica, che documenta un’aggressione improvvisa senza reazioni difensive. Malgrado i molti elementi, la priorità, sia durante le indagini, sia nelle fasi processuali, però viene data alle parole del Manzini che ovviamente ha costruito in accordo col suo staff difensivo una narrazione tesa a raggiungere in tutto (vizio di mente) o in parte l’impunità.
La lite per gelosia (scontata premessa di ogni femminicidio) motiva lo scompenso emozionale che gli verrà generosamente concesso. Non importa se è assurdo e contro ogni logica ciò che lui sostiene, cioè di avere convocato la moglie in quel garage, l’11 febbraio, al freddo e in condizioni precarie, ovviamente non con un pretesto per eliminarla, ma per discutere sulla loro situazione coniugale tesa a causa dei sospetti tradimenti. Stando al racconto del Manzini alla rivelazione delle reciproche infedeltà, Giulia avrebbe proposto di “metterci una pietra sopra” e ricominciare. Cosa inaccettabile per la granitica moralità di quest’uomo che non ha più nessuna intenzione di portare avanti il suo matrimonio e che scatena in lui il “raptus” omicida. Strana lite quella dove (a suo dire) solo lui alza la voce, strana rabbia quella suscitata dalla tolleranza e dalla disponibilità al dialogo della moglie. La CTU, abbiamo visto, ha dato veste scientifica (?!) alle menzogne difensive dell’assassino, fornendo al giudice la traccia per la sentenza. Il giudice non esclude che possa esserci stata premeditazione, ma ritiene non ci siano prove sufficienti per affermarlo al di là di ogni “ragionevole” (e mi permetto di aggiungere: irragionevole) dubbio, sposando la versione della rabbia punitiva offerta dalla perita.

Giustizia non è stata fatta nel caso di Giulia, così come di tantissime altre donne uccise per mano del proprio marito, compagno, fidanzato. Cosa accadde nel periodo che seguì, al termine del processo? Nessuno ti riporterà in vita tua figlia, cosa ha alleviato o avrebbe potuto alleviare il grande senso di perdita che hai vissuto?
So per certo che l’esperienza devastante che abbiamo vissuto noi nelle aule di tribunale è purtroppo comune a molte altre famiglie che dopo un lutto così grave hanno subito la violenza della rivittimizzazione in sede giudiziaria. Il tradimento delle istituzioni e dello Stato, la mancanza di giustizia, determina indignazione e rabbia. Sono paradossalmente questi sentimenti a costituire una risorsa per non crollare insieme ai pilastri fondanti della tua esistenza.
Se i punti di riferimento: fede negli organi istituzionali e, nel mio caso, fede in quei “valori” religiosi che ti si rivelano pregiudizi ipocriti, si sbriciolano, occorre sostituirli con ideali capaci di dare senso alla vita che sei costretta a vivere, malgrado tutto. Ti rendi conto, allora, che ogni esperienza, per quanto negativa, ha un suo valore, e va condivisa, per far conoscere ciò che, non provandola, è difficile anche solo immaginare. Ti guardi intorno e ti accorgi che altri stanno vivendo la tua tragedia e prendersi per mano può alleviarla.
La via crucis non termina certo con il terzo grado di giudizio. Il “dopo” processo apre ad una interminabile rincorsa del risarcimento stabilito in sentenza, parte questa generalmente non rispettata , che costituisce un’altra beffa legalizzata. Il recupero del credito costringe a onerose cause civili per precettare le quote stabilite, su cui scatta immediatamente la tassazione che lo Stato ti impone anche se non hai riscosso, né riscuoterai alcunché. Si tratta di un logorante percorso pieno di ostacoli posti dalla legge stessa a protezione del debitore, che non si fa certo scrupolo di avvalersene. L’Italia, benché richiamata dalla Corte europea, non risarcisce le vittime di reato violento (come fa per terrorismo e mafia), considerandole non abbastanza vittime. Anche per gli orfani di femminicidio, malgrado la legge approvata al termine della scorsa legislazione, il nostro Stato ha stanziato un fondo irrisorio.

Giovanna, sei una donna coraggiosa e determinata e dopo l’uccisione di Giulia  hai deciso di scrivere un  libro il cui titolo è l’impegno che ognuno dovrebbe assumere, di fronte alla violenza ed ai violenti: Per non dargliela vinta. Qual è il messaggio e l’obiettivo che ti sei prefissata?
L’idea di raccontare chi era veramente Giulia e come stavano le cose mi è venuta già dalle prime battute del percorso giudiziario, in modo particolare alla lettura della perizia psichiatrica, in cui l’immagine, la personalità di nostra figlia è stata profanata scandalosamente.
Non è Giulia quella che esce dall’unica narrazione legittimata dalla nostra giustizia che Manzini, l’assassino, fa della sua vittima. E’ assurdo, un falso legalizzato, strumentale all’offesa della vittima per cui non esistono garanzie e tutele neppure da morta. Lo dovevo a Giulia di restituirle almeno un po’ della dignità sottratta, dal suo assassino prima, dalla nostra giustizia, poi. E raccontare la farsa indegna alla quale siamo stati costretti ad assistere in quell’aula di tribunale, interdetta a chiunque ad eccezione degli stretti interessati. Nessun testimone superpartes. Un femminicidio perfetto.

Sempre leggendo i vecchi articoli risalenti al 2009 emerge, in modo evidente, anche ai non addetti e ai non esperti di criminologia che Marco Manzini, ha agito il suo piano diabolico con grande lucidità, freddezza e determinazione. Sono queste le caratteristiche che accomunano le modalità comportamentali e psicologiche dei carnefici in molti femminicidi. Perché secondo te la stampa italiana continua a parlare di “raptus”, di uomini accecati dalla gelosia, di uomini tutt’altro che calcolatori che si ritrovano ”loro malgrado” ad essere sopraffatti e vittime essi stessi di una spinta inconsapevole ad compiere omicidi in nome della passione e dell’amore? Qual’ è secondo te l’interesse socio-culturale a non istituire organi di controllo preposti a vegliare sui contenuti che descrivono reati così brutali?
I numeri che descrivono la violenza sulle donne, anche se parziali, documentano una realtà estremamente diffusa, di cui il femminicidio è solo la punta dell’iceberg. Una realtà che ancora fatica ad emergere poiché culturalmente accettata da un lato, tanto da non riconoscerla, deliberatamente negata, dall’altra, al fine di conservare i rapporti di potere asimmetrici che dalla notte dei tempi privilegia l’universo maschile. Il momento che stiamo vivendo testimonia come il patriarcato misogino, che usa la violenza come legittimo strumento di controllo e asservimento dell’universo femminile, stia cercando di riappropriarsi di quel potere che i pur limitati diritti conquistati dalle donne ha messo in discussione. Certamente, la cultura nella quale siamo cresciuti condiziona fortemente il nostro modo di pensare ed agire. Molti dei “valori” difesi e propagandati come identitari della nostra civiltà, in realtà sono stereotipi, pregiudizi da cui fatichiamo a liberarci o a cui non vogliamo proprio rinunciare. In quest’ottica si inserisce la narrazione del femminicidio e più in generale della violenza di cui le donne sono vittime. Il raptus per gelosia costituisce la più potente mistificazione, cui difficilmente il cronista rinuncia, accanto al troppo amore, al delitto passionale che spostano crimini efferati sul piano del romanticismo, falsandone il movente. Sono narrazioni che, anticipano le sentenze, avanzando giustificazioni in base a quegli stessi pregiudizi che hanno generato il femminicidio. E che, in questo modo li consolidano immettendo nuova linfa alla cultura violenta. In questi ultimi anni sono stati elaborati protocolli per trattare nel modo corretto i casi di femminicidio e di stupro. Ritengo che usare linguaggio e forme espressive corrette rientri nelle competenze di un professionista serio, che dovrebbe attenersi ai fatti senza interpretarli alla luce della propria soggettività. Se lo fa, è legittimo pensare che lo faccia deliberatamente e strumentalmente.

L’11 marzo scorso la Corte d’appello di Ancona, ha assolto due accusati, in merito ad una sentenza di violenza sessuale su una 22enne, nelle motivazioni si fa riferimento alla “mascolinità” della vittima che avrebbe reso non credibile l’ipotesi di uno stupro. A Bologna è stata emessa una sentenza che per la “tempesta emotiva” ha dimezzato la condanna per un femminicidio avvenuto a Riccione. Quando si tratta di violenza di genere l’informazione è stereotipata, e tende a legittimare e normalizzare anche l’uccisione delle donne ad opera di uomini criminali, ma fatto ancora più grave è la giustizia che evidenzia una degenerazione culturale gravissima. Giovanna, qual è il tuo parere rispetto a questa situazione?
Il femminicidio, nella sua accezione più ampia di punizione e controllo dell’universo femminile, si compie proprio nei tribunali. Le sentenze, prima ancora di giudicare il singolo, hanno il compito di sanzionare il comportamento come accettabile o no da parte della collettività. La pena detentiva è funzionale a stigmatizzare il reato, allo scopo di scoraggiare altri a commetterlo. Il messaggio che esce da certe sentenze va in senso contrario: costituisce una legittimazione del femminicidio, dello stupro, del maltrattamento domestico, proprio perché ne “attenua” la gravità in rapporto al comportamento, all’aspetto, allo stile di vita della vittima, giudicata in base a pregiudizi, non a reati riconosciuti dai codici. Queste ultime sentenze sono state per me un déjà vu, una conferma alla mia esperienza personale, e dimostrano che il lavoro fatto per contrastare la violenza sulle donne, anche con la ratifica della Convenzione di Istanbul e le leggi approvate in questi ultimi 10 anni non ha sradicato i pregiudizi volti a “mantenere” il diritto maschile alla violenza nei rapporti intimi. La ricaduta culturale di queste sentenze è gravissima.

Partendo dalla tua esperienza e dai tuoi dolorosissimi vissuti che cosa suggeriresti di fare o non fare, alle donne che si trovano a vivere situazioni analoghe a Giulia? Che cosa suggeriresti ai genitori di donne vittime di violenza?
Non mi sento per questo motivo di rivolgere solo alle donne e alle loro famiglie avvertenze particolari. La violenza nei rapporti di coppia coinvolge chi la subisce, ma non può escludere chi l’agisce. Conoscere i meccanismi sottili in cui la violenza si manifesta, le sue conseguenze, le sue origini storiche, i condizionamenti culturali che la generano è basilare per tutti, femmine e maschi, a cominciare dalla più tenera età. La battaglia è tutta giocata sul terreno culturale e nessuno può restarne fuori. La famiglia ha sicuramente un ruolo determinante, poiché è la prima e più potente dispensatrice di cultura e stile di pensiero e di vita. Ma se è importante educare le femmine a superare i modelli patriarcali in un’ottica di autodeterminazione, lo è altrettanto e forse più per i maschi, il cui ruolo di supremazia è messo fortemente alla prova dalle progressive conquiste femminili in fatto di parità e diritti. Maschi che, non essendo attrezzati culturalmente a riconoscerli, ricorrono alla violenza per ristabilire il potere compromesso.Facendo appello alla mia esperienza, la violenza sulle donne non colpisce solo le donne ed è davvero miope pensarlo. Ogni donna ha un padre, spesso fratelli o addirittura figli, oltre a parenti ed amici di sesso maschile, che soffrono per lei e insieme a lei. La violenza su una donna devasta e lacera anche l’esistenza di tanti uomini. Né penso siano immuni da sofferenza i familiari di un uomo che maltratta, perseguita, uccide la partner. Le battaglie culturali si combattono insieme e chi ha più autorità (le istituzioni) ha più responsabilità. Fin che caliamo solo sulle spalle delle potenziali vittime la responsabilità di una distorsione culturale che ha radici profonde ed estese in ogni ambito della nostra realtà intrisa di un forte sessismo, tradiamo semplicemente la volontà di mantenere inalterato lo status quo, l’ordine “naturale” cui inneggia certo fanatismo integralista nazionale e sovranazionale.

Stefania Prandi. Le parole e lo sguardo di chi resta (Altraeconomia – 1 novembre 2020)
Nel libro “Le conseguenze” la giornalista racconta le storie delle famiglie che sopravvivono al femminicidio della donna amata. Combattono contro l’invisibilità per avere giustizia.

Le madri, i padri, i figli. È sul loro insanabile dolore, sull’abbandono e sull’ingiustizia che segnano la vita delle famiglie delle donne uccise da un uomo, il compagno o l’ex compagno, che rivolge lo sguardo la giornalista Stefania Prandi (stefaniaprandi.it), autrice del libro “Le conseguenze” pubblicato da Settenove Edizioni. Un reportage lungo tre anni che racconta l’esito più drammatico della violenza di genere attraverso le parole di chi sopravvive al femminicidio, termine usato per indicare l’uccisione di una donna in quanto donna, accolto dall’Accademia della Crusca nel 2013 grazie al lavoro politico dei centri antiviolenza e dei movimenti delle donne. Prandi lega insieme le storie di chi vive le conseguenze del dopo: i processi e le umiliazioni nei tribunali, le spese legali, il vuoto lasciato dalle istituzioni e i risarcimenti che non arrivano. I ricordi rimasti dentro casa nelle foto appese alle pareti, negli armadi, nelle camere da letto.

“In Italia viene assassinata in media una donna ogni sessanta ore. Mentre il numero degli omicidi diminuisce, quello dei femminicidi in proporzione aumenta”, spiega Prandi. Nei primi sei mesi del 2020 le donne uccise sono state 59 e le violenze in contesti domestici sono aumentate nel periodo del lockdown. Secondo i dati del Viminale pubblicati lo scorso settembre, negli 87 giorni in cui si è rimasti chiusi in casa per l’emergenza Covid-19, i femminicidi in famiglia sono stati 44. Nel 2019 erano stati più di 90, commessi principalmente in contesti familiari. Ma i dati non sono esaustivi perché non includono le donne scomparse che, secondo il ministero dell’Interno, dal 2007 al 2016 sono state 1.263. “La narrazione mediatica spettacolarizza la violenza e la confina alla cronaca nera. Mi sono interrogata su quali potessero essere i modi più adatti per parlarne. Ho cercato una chiave diversa e ho scelto di parlare delle conseguenze dei femminicidi sulle famiglie, prima cellula della società”. Tra il 2016 e il 2019 Prandi ha raccolto 13 storie e, accanto a ciascuna testimonianza, ha pubblicato una lettera scritta dalle madri per le figlie scomparse: “Le lettere descrivono la gravità della situazione che stanno vivendo ma sono espressione del loro profondo amore. Sono un atto di resistenza”.
Nel libro la prima storia è quella di Giulia Galiotto. Aveva trent’anni quando è stata uccisa del marito, l’11 febbraio 2009. Il corpo è stato ritrovato nel fiume Secchia vicino Modena dove era stata gettata da un pontile. Perché questo inizio?
Mi sembrava importante partire dalle parole che Giovanna Ferrari, madre di Giulia, aveva scritto prima di me in “Per non dargliela vinta. Scena e retroscena di un uxoricidio” (Edizioni Il Ciliegio, 2012) in cui racconta quello che è accaduto a sua figlia, la vicenda processuale e la vicenda dell’assassino. Ma quel libro non è solo un ritratto da madre di una figlia che non c’è più. È una testimonianza importante di quello che succede dopo, nelle aule del tribunale e quando si torna a casa. L’aiuto di Giovanna è stato fondamentale perché mi ha mostrato l’esistenza di un “movimento”, anche se non organizzato, di parenti che reagiscono al femminicidio della propria amata in un modo che sfugge alla narrazione dei media e anche alle istituzioni.

 

Mostra fotografica – Giulia Galiotto (Time for Equality)
Giovanna Ferrari, madre di Giulia Galiotto, sul suo letto di casa, in provincia di Modena.  Ha conservato i vestiti della figlia e ogni tanto ne indossa uno.

Giulia Galiotto è stata assassinata dal marito Marco Manzini l’11 febbraio 2009. Aveva 30 anni. Da anni Giovanna Ferrari partecipa a manifestazioni, incontri nelle scuole contro le discriminazioni di genere. Per difendere la memoria della figlia, Giovanna Ferrari  ha scritto un libro, Per non dargliela vinta (Edizioni Il Ciliegio, 2012).

Giovanna Ferrari sottolinea l’ingiustizia del processo, durante il quale a causa del rito abbreviato i familiari non hanno potuto parlare e la memoria della figlia è stata “infangata”. Per giustificare l’assassino, col quale era sposata, la figlia è stata descritta come una poco di buono.

Giuliano Galiotto, padre di Giulia, non parla volentieri della figlia con gli estranei, è sua moglie ad avere un ruolo pubblico. Lui la accompagna sempre agli incontri, ma resta in disparte.

Chi osserva da fuori non sa come sono andate le cose. Sui giornali l’hanno chiamato “Il delitto di San Valentino”, “crimine passionale”. Io e Giulia eravamo legati, parlavamo molto. L’ho sentita a mezzogiorno, quel giorno in cui lui l’ha uccisa.